Il Prodotto interno
lordo del Mezzogiorno continua a perdere colpi, la crescita degli
investimenti è notevolmente inferiore rispetto al Centro-Nord,
il tasso di disoccupazione aumenta seguendo una curva esponenziale:
ancora una volta, Pasquale Saraceno ha lanciato un grido d'allarme
che ci auguriamo non resti inascoltato, come purtroppo è accaduto
fino ad oggi.
Nell'87, ammonisce Saraceno, il tasso di aumento del Prodotto interno
lordo è stato pari al 3,1 per cento su scala nazionale, lievemente
più elevato di quello dell'anno precedente. Ma ciò è
dovuto alla sensibile accelerazione dell'economia centrosettentrionale,
il cui tasso di crescita è stato di circa il 3,8 per cento,
dopo il 3,2 dell'86 e il 2,8 per cento dell'85.
Il Sud, invece, è andato in controtendenza, perché il
tasso di crescita del Pii è in netta flessione rispetto agli
anni precedenti: più 1,8 per cento nell'87, contro un più
2 per cento nell'86 e un più 3 per cento nell'85.
L'aspetto più preoccupante è che la performance delle
regioni meridionali risulta peggiore in tutti i grandi settori privati
dell'economia: agricoltura, costruzioni, industria, servizi vendibili.
L'altra preoccupante faccia della medaglia è rappresentata
dalla disoccupazione: il tasso dei senzalavoro, ribadisce la Svimez,
senza considerare la Cassa integrazione guadagni, è salito
al 19,2 per cento, contro il 16,5 per cento del 1986. E' la prima
volta, dal dopoguerra ad oggi, che la quota meridionale della disoccupazione
nazionale ha superato la soglia del 50 per cento, mentre la quota
meridionale della forza-lavoro è pari al 33 per cento. L'unica
nota positiva, sostiene Saraceno, che emerge dai dati sull'economia
meridionale dell'87, è il sensibile recupero di un divario
di produttività con il Centro-Nord in tutti i settori, ma soprattutto
nell'industria, dove la produttività per unità di lavoro
è aumentata del 7 per cento nelle regioni meridionali, contro
il 5,3 per cento del Centro-Nord.
La realtà è questa: gli andamenti ciclici delle due
economie, come sostiene il Rapporto Svimez, continuano ad essere divaricanti.
Un primo, decisivo aspetto di questo dualismo è che la produzione
industriale del Mezzogiorno, mentre subisce, come quella del Nord,
la concorrenza di prezzo dei prodotti di importazione, non sembra
invece essere in grado di reagire agli stimoli provenienti dai mercati
di esportazione.
Un secondo aspetto riguarda la stretta dipendenza dell'economia meridionale:
gli investimenti industriali nel Sud, infatti, sono scarsamente legati
a variabili relative alla stessa economia meridionale, mentre appaiono
fortemente dipendenti da decisioni esterne all'area, quali la capacità
produttiva inutilizzata a livello nazionale, l'entità degli
incentivi, le decisioni di investimento delle Partecipazioni Statali.
Ciò è tanto più grave, fa notare Saraceno, se
si pensa che l'industria meridionale ha dimostrato finora una minore
capacità di adeguarsi, attraverso innovazioni che accrescono
la produttività, alla tendenza del costo del lavoro ad aumentare
più del prezzo delle macchine.
L'indagine del modello biregionale Nord-Sud dell'economia italiana
dà risultati fortemente divaricati anche sotto il profilo dell'occupazione:
mentre, infatti, al Nord opera un meccanismo di tipo keynesiano che
vede diminuire la disoccupazione al crescere della domanda globale,
nel Mezzogiorno gli incrementi di domanda non sono in grado neppure
di scalfire una disoccupazione che trova, invece, costante alimento
nella crescita dell'offerta di lavoro. In sostanza, il Sud non è
in grado di esprimere né capitali né risorse imprenditoriali-organizzative
adeguate.
Ne consegue che l'entità, la dinamica, la natura specifica
della disoccupazione meridionale sono tali da precludere la possibilità
di affidarsi integralmente alle forze del mercato; per essere riassorbita
richiede, invece, un'azione pubblica di grande vigore e rigore per
lo sviluppo.

Saraceno offre una sponda a quello che definisce il nucleo più
moderno dell'imprenditorialità meridionale, che ha una grande
vitalità di iniziative e si fa portatore di proposte e progetti
di grande valore civile: "Purtroppo - aggiunge - è sempre
preponderante il peso dei ceti direttamente o indirettamente interessati
ad una spesa pubblica della quale la funzione esplicitamente o implicitamente
produttiva ha prevalso su quella di propulsione dello sviluppo".
Peraltro, fuori dalle aree meridionali si sono diffuse, negli ultimi
tempi, posizioni particolaristiche e miopi, di contrapposizione al
Sud nella gara per la ripartizione dei fondi pubblici. Sostiene Saraceno:
"Identificare, esprimere ed organizzare gli interessi e i gruppi
sociali che, al Nord come al Sud, possono essere mobilitati in funzione
dell'unificazione reale del Paese, contro le forze opposte del particolarismo
e della disgregazione, è, oggi, la questione decisiva per le
sorti non solo del Sud, ma dell'intera comunità nazionale".

La Svimez, questa volta, ha aperto un altro importante fronte sul
versante meridionalistico, in vista della liberalizzazione dei mercati
finanziari in Europa nel 1992. Di qui la necessità, nota Saraceno,
già riaffermata nel Rapporto Padoa Schioppa, che gli obiettivi
inizialmente assegnati al progetto di mercato unico, tra i quali,
in prima fila, l'efficienza allocativa delle risorse, da conseguirsi
attraverso la concorrenzialità del mercato e la stabilità
dei cambi, che si ottiene grazie al coordinamento ed all'unificazione
delle politiche monetarie, siano integrati con gli obiettivi, tra
loro complementari, dello sviluppo della base produttiva e della riduzione
degli squilibri regionali all'interno della Comunità economica
europea.
La Svimez mette l'accento, a tale proposito, sulla indispensabilità
di un'azione coordinata tra spesa ordinaria e straordinaria nel Sud.
La spesa ordinaria, sottolinea Saraceno, deve avere una valenza meridionalistica.
Come? In primo luogo, attraverso una politica fiscale che limiti la
dinamica dei consumi per mezzo della severità tributaria, affinché
l'obiettivo fondamentale della stabilità dei prezzi e dei cambi
non sia esclusivamente affidato a misure di carattere monetario. Non
solo, ma occorre spingere il pedale sull'acceleratore verso una politica
dei redditi che opponga adeguate resistenze alla rincorsa corporativa
delle rivendicazioni, mantenga la dinamica retributiva in linea con
quella della produttività, orienti la destinazione dei profitti
verso investimenti produttivi reali e non solo verso investimenti
finanziari, e serva, infine, a tradurre gli aumenti del reddito nazionale
in aumenti del numero degli occupati piuttosto che in incrementi delle
remunerazioni di un numero costante, o peggio, decrescente di persone
già occupate.
Le altre politiche ordinarie da piegare agli interessi del Mezzogiorno
sono: la politica del lavoro, che deve consentire una maggiore articolazione,
flessibilità e liberalizzazione dei rapporti di impiego, allo
scopo di rendere più convenienti le assunzioni; la politica
energetica; una politica industriale capace di promuovere l'innovazione
e la capacità competitiva delle imprese. Per quel che concerne,
invece, l'intervento straordinario, Saraceno nota che "la sua
straordinarietà si è ridotta alla mera aggiuntività
degli stanziamenti, mentre la sua operatività è gravemente
compromessa dalla macchinosità delle procedure e le regioni
appaiono ancora inadeguate ai compiti di programmazione e di attuazione
loro affidati dalla legge 64".
Su ben 30 mila miliardi di lire disponibili nel 1987, pertanto, di
cui 15.700 per il primo piano annuale di attuazione, poco meno di
8 mila per il piano di completamenti e 8 mila per i programmi regionali
di sviluppo, solo 7.160 miliardi sono stati impegnati. Questo lo stato
drammatico in cui versa, attualmente, nel Mezzogiorno, l'intervento
straordinario.
Le radici del
malessere
Lo Stato non è
ingeneroso con i comuni del Centro e del Sud, ai quali assegna quote
maggiori dei trasferimenti erariali, mentre le amministrazioni locali
rispondono con uno scarso prelievo tributario, con elevati livelli
di spesa per il personale (accentuati anche in riferimento agli stessi
trasferimenti nelle aree dell'Italia centrale) e con situazioni di
indebitamento che in Campania toccano punte da primato. Non esiste,
tuttavia, un Mezzogiorno compatto: al suo interno, infatti, convivono
molte situazioni diverse, per cui -ad esempio - il Molise appare come
la regione meno dotata di risorse (proprie o derivate), mentre la
Sicilia non risulta essere, come si ritiene comunemente, l'area ove
sussistono i maggiori sprechi nella spesa per il personale.
La prima fase della ricerca sulla finanza locale nel Mezzogiorno da
una parte fa giustizia di alcuni luoghi comuni e dall'altra mette
in risolto fatti preoccupanti, finendo col tracciare una nuova e originale
mappa dei finanziamenti alle amministrazioni civiche.
I dati, tratti dai consuntivi '84 (gli ultimi disponibili per un esame
analitico) sono stati infatti riaggregati, suddividendo i comuni in
base alla loro prevalente caratteristica economica e confrontandoli
sia con valori medi nazionali sia con quelli degli enti settentrionali.
Ciò consente una ben diversa valutazione rispetto ai tradizionali
meccanismi, che porta a una precisa conclusione: esiste un fenomeno
di sottosviluppo tipico del Mezzogiorno, ma emergono anche situazioni
critiche nel Nord.
Per quanto riguarda i trasferimenti erariali, c'è in generale
una sovra-dotazione al Centro-Sud, ma emergono anche squilibri a danno
del Molise e della Sardegna, dei comuni terziari e dei capoluoghi
di regione nella fascio centrale. In assoluto, i livelli maggiori
di trasferimenti si verificano nei comuni montani dell'Emilia-Romagna
(con ben 414.040 lire per abitante, contro una media italiana di 306.190
lire); nei comuni agricoli della Campania (306.580 lire, contro una
media nazionale di 235.300); nei rari comuni industriali della Basilicata
(317.120 lire, contro 239.850 di media) e nei comuni terziari-della
Toscana (425.970 lire, contro una media di 336.050 lire).
La mappa delle entrate tributarie diventa però ancora più
significativa se vien posta in rapporto alla gestione che di queste
viene fatta dagli enti locali. Da un confronto con le medie nazionali,
per tutte le categorie esaminate appare una "linea di frattura"
Nord-Sud all'altezza della Toscana. I comuni settentrionali contano
entrate tributarie per abitante largamente superiori alla media, con
punte massime in Valle d'Aosta, Liguria, Friuli (111.000 lire nei
comuni industriali) e Trentino (111.000 nei comuni terziari). Nel
resto del Paese si scende a valori talvolta risibili, come le 25.000
lire dei comuni montani della Basilicata, le 26.000 lire dei centri
agricoli della Calabria, le 33.000 lire dei centri industriali della
Campania. Un divario decisamente eccessivo, che riflette l'innegabile
differenza di reddito degli abitanti tra zone omogenee del Nord e
quelle del Sud.
Il confronto entrate-spese emerge più nitidamente se si limita
l'esame ai soli capoluoghi di regione, e in particolare alle aree
metropolitane. Per quanto riguarda i trasferimenti, Napoli è
la città maggiormente beneficiata, con 758.582 lire per abitante,
seguita da Genova (670.090), Firenze (567.510) e Potenza (559.670
lire). Milano ottiene 541.550 lire per abitante. Roma si trova quasi
in fondo alla classifica, con 347.430 lire. In coda, Campobasso, con
appena 303.220 lire.
L'esame delle entrate tributarie riserva qualche sorpresa. I veneziani
sono i più tartassati, visto che sborsano 304.130 lire a testa,
contro le 161.630 dei fiorentini e le 154.320 dei milanesi. Nel Sud,
Bari è la città con la cifra maggiore, con 83.310 lire
pro-capite, contro una media nazionale di circa 107.000 lire (140.830
è la media del Nord); segue Napoli, con 45.320 lire. Chiude
la graduatoria Potenza, con 35.150 lire, valore inferiore, ad esempio
a quello dei comuni montani più poveri del Molise e della Sardegna.
Quanto alle spese per il personale nelle grandi città, Napoli
guida la classifica con 513.590 lire per abitante, mentre Milano ha
una spesa di 459.130 lire; seguono Genova con 379.800 lire, Roma con
279.200, e molto più distante Palermo con 132.130 lire. Va
notato che, in ordine a questa particolare spesa, gli oneri per il
personale mediamente incidono per il 68-75 per cento dei trasferimenti.
Tale livello è ampiamente superato in quasi tutta la fascia
centrale, Toscana in testa, con tutte le categorie di comuni collocate
al di sopra della media. Il massimo assoluto, però, spetta
a una regione del Nord, la Valle d'Aosta, ove si tocca il 99% nei
comuni montani e l'88% negli altri. Tra i capoluoghi spiccano i valori
di Trieste, dove la spesa per il personale (385.430 lire per abitante)
supera addirittura l'entità dei trasferimenti (121%).
E' evidente, quindi, che non si può parlare solo di una situazione
di squilibrio Nord-Sud, imputando al Mezzogiorno entrate privilegiate
e sprechi incontrollati. Si tratta invece di una molteplicità
di casi che impongono quanto prima una soluzione che tenga conto proprio
della diversità dei singoli enti e non solo degli elementi
"tradizionali": dimensione demografica e livelli di spesa.
Appare dunque urgente un'incisiva manovra di riequilibrio, legata
ai nuovi parametri studiati dal ministero dell'interno e relativi
ai livelli dei servizi e alla tipologia socio-economica.