§ Per una legge anti-trust

Verso la normativa sulla difesa della concorrenza




Gennaro Pistolese



Una disciplina garante della concorrenza e più semplicemente definita anti-trust trova due immediati riscontri, da una parte, nella normativa che è allo studio nel nostro Paese per essere varata in tempi brevi, e dall'altra nell'assetto cui è destinata la materia nell'ambito della CEE.
I pilastri che la disciplina italiana prevede si riassumono nei seguenti principii:
- la legge nazionale non deve sovrapporsi, ma armonizzarsi con la normativa CEE. In sostanza, in materia di applicazione delle regole di concorrenza del Trattato di Roma, si tratta di vedere controllate dal relativo regolamento le concentrazioni oggetto di esso in via esclusiva dalle Autorità comunitarie, senza la possibilità che la valutazione delle stesse possa essere contraddetta da valutazioni e posizioni delle Autorità nazionali. L'obiettivo, chiarito in documenti ufficiali, è quello di realizzare in pieno la certezza del diritto per le imprese ed, una uniformità anche giurisprudenziale. Tutto ciò ovviamente nella logica del mercato unico, per il quale l'equilibrata situazione delle imprese è fondamentale, anzi preliminare nelle concatenazioni pure di produttività e di efficienza.
D'altra parte un riflesso di una tale condizione è evidenziato dal processo di internazionalizzazione in otto anche nella nostra economia, che spinge le imprese ad acquisizioni ed accordi sui mercati internazionali, con ripercussioni dirette, il più delle volte giudicate positive per la concorrenza nell'ambito nazionale. Ne discende che emanazione del regolamento comunitario e disciplina nazionale devono non solo conciliarsi, ma integrarsi, nella combinazione delle due ottiche e dei presupposti da cui esse derivano.
- la normativa nazionale in materia dovrà servire a rimuovere tutti gli ostacoli (amministrativi, normativi, legislativi) alla libera concorrenza. Il problema è anche per questa materia quello di conseguire una vera e propria deregulation, che poi è la condizione prima perché lo Stato realizzi quell'efficienza e quella puntualizzazione dei suoi interventi realmente nei settori e nelle maniere necessari. Sennonché questa deregulation sta avendo un iter da noi particolarmente travagliato, rappresentando un'aspirazione ed un'attesa ancora aggirate spesso da un prepotere burocratico duro a morire.
- non dovranno essere ostacolate le concentrazioni in quanto tali, ma solo se ed in quanto determinino abuso di posizione dominante e risultino lesive della libera concorrenza. Il principio, come si vede, è chiaro, comportando una verifica che sia effettiva, e non alterata da interpretazioni politiche o peggio ideologiche, o peggio ancora dalle posizioni di potere politico, anche partitico, che possono derivarne.
- l'applicazione della nuova legge nazionale dovrà essere affidata ad un'Alta Autorità ad alto tasso di imparzialità e di indipendenza dal potere politico.
Questi in sostanza i principali intendimenti espressi, che denunciano un finalismo ineccepibile in sede di principii, di difficile però enucleazione concreta e di ancor più difficile applicazione. Per chiarire l'intero quadro, c'è stata un'indagine conoscitiva del Senato, c'è stato ancora lo studio approfondito svolto da un'apposita Commissione istituita presso il Ministero dell'industria, c'è poi una proposta di legge anti-trust della Sinistra indipendente, c'è infine il disegno di legge governativo. In forza di questo disegno, la legge italiana non dovrebbe interferire sulle concentrazioni, il cui controllo rientra nelle competenze della CEE, mentre dovrebbe coprire gli spazi sottratti alla normativa europea. In concreto, al di sopra di una certa soglia, per fatturato e quote di mercato, le concentrazioni verrebbero regolate dalla normativa CEE e al di sotto di tale soglia dalla legge italiana. Stabilire la dimensione delle due fasce costituirà indubbiamente un'impresa, non facile nell'individuazione cioè dei riflessi e delle situazioni che ne potranno derivare o che sono a monte.
Comunque, il disegno di legge governativo propone queste dimensioni inquadrandole in una logica dell'intero provvedimento, che è quella dell'introduzione di controlli diretti a prevenire gli abusi, senza interferenze su fenomeni economici che appartengono alla logica del mercato, quale oggi è intesa. Si riafferma al riguardo che concetto fondamentale è quello di posizione dominante di un'impresa o di azione che tende a falsare la concorrenza nel mercato nazionale. Le relative situazioni vengono valutate tenendo conto delle possibilità di scelta di fornitori ed utilizzatori di beni e servizi, della posizione sul mercato delle imprese interessate, dell'accesso alle fonti di approvvigionamento, della concorrenza internazionale, delle barriere all'arrivo di concorrenti.

L'ingerenza del potere politico
Fin qui i propositi, che non possono non essere recepiti nella loro filosofia del rispetto della visuale del 1992, della considerazione che grandi fenomeni di concentrazione industriale, specie se sostenuti da privilegi legislativi e burocratici, possono provocare abusi a danno del consumatore. Il che comporta una precisa puntualizzazione dei mezzi di verifica, in modo da evitarne l'esorbitanza e soprattutto senza creare nuovi strumenti ed occasioni di burocratizzazione. Dicono al riguardo gli operatori di essere decisamente contrari a controlli preventivi, poiché accettandoli significherebbe arrogare un potere di decisione politico svincolato da qualsiasi elemento certo di giudizio. Ma la garanzia perché ciò non avvenga è costituita soprattutto dalla rispondenza dell'ispirazione della nostra normativa a quella stessa di natura comunitaria, nella salvaguardia appunto del mercato unico e delle condizioni unitarie con le quali esso può realmente operare.
In conclusione, per quanto ci riguarda, una delle condizioni da rispettare con assoluto rigore è quella di impedire l'invadenza del potere politico nella vita delle imprese. Un banco di prova, questo, nel quale certamente il travaglio non sarà agevole e dovrà trarre frutto dalle esperienze finora compiute, come quelle dell'editoria o da compiere, come è il caso della cosiddetta opzione zero nel campo dell'informazione e delle comunicazioni radio-televisive, con dosaggi di interventi non certo facili, anche perché vedono spesso in agguato l'ingerenza del potere politico.

L'esegesi dottrinaria
Ed ora due domande interessanti.
Come questa problematica si inserisce nella sistematica dottrinaria della materia e come con essa si è misurata una parte qualificata del pensiero economico moderno?
Nella loro forma classica i trusts sono sindacati industriali di origine americana. I loro amministratori hanno il compito di fissare le relative strategie, anche contro il parere delle imprese coalizzate, private così della propria autonomia giuridica per conservare solo quella tecnica. I trusts possono essere orizzontali, se comprendono imprese che producono lo stesso bene, e verticali se raccolgono invece imprese esercenti attività diverse, ma tutte concorrenti alla produzione dello stesso bene. Ma quando da queste situazioni così configurate possono discendere quelle caratterizzate dal monopolio e dall'oligopolio?
Si ha il primo caso, quando l'offerta di un bene o di un servizio è concentrata nelle mani di un solo operatore. Alla base vi è l'improducibilità da parte di terzi di quanto viene offerto al mercato. Varie ne sono le forme pratiche.
Vi è così il monopolio legale, quando è la legge che lo istituisce, affidandone la gestione generale allo Stato. E' il caso delle poste e telegrafo. Vi è poi il monopolio naturale, che si verifica quando è la natura stessa a creare una situazione di vantaggio per il soggetto. il caso evidentemente non si limita solo alla sua causale naturale, ma si estende, dovrebbe estendersi, a tutti i casi nei quali la realtà crea anche artificiosamente situazioni siffatte. Si pensi alla condizione di comportamenti di categorie, anche di dipendenti, che provocano situazioni impositive indebitamente per le utenze. Altro tipo di monopolio è quello convenzionale, dovuto ad un accordo fra i produttori, i quali rinunciano alla concorrenza, ma stabiliscono modalità di comportamento unitarie nei confronti del mercato. Vi è altresì il monopolio pubblico, gestito direttamente dallo Stato o da altro ente pubblico, che si distingue in monopolio fiscale (diretto a creare un'entrata all'Erario) ed in monopolio sociale, avente lo scopo di assicurare a tutti l'utenza di un determinato servizio. Molti interventi pubblici sono nati con questa motivazione, ma all'atto pratico non si sono constatati i vantaggi che avrebbero dovuto derivare dalla pubblicizzazione. E' questo il caso della nazionalizzazione dell'energia elettrica, voluta a suo tempo per causali politiche, che (poi si è riconosciuto da parte stessa di chi la nazionalizzazione aveva voluto) avrebbero potuto ben diversamente essere conseguite. Si pensi a questo riguardo al potere della leva fiscale, a quello della leva creditizia, a quello della normativa amministrativa, con gli ampi spazi Che ciascuna di esse viene a dischiudere a garanzia dell'interesse pubblico.
Fin qui abbiamo parlato di una situazione in cui il detentore dell'offerta è rappresentato da un solo operatore. Al duopolio invece è legata un'offerta di bene o di servizio determinata da due sole imprese, il cui comportamento pur definitivo è sempre soggetto a differenziazioni, così frequenti nella realtà da far ritenere questo modello più che altro di carattere teorico. Comunque, qualche tendenza in questa direzione può essere riscontrata nelle aziende cosiddette miste, che si tentano oggi con i "poli", che in realtà sono portate a realizzare una posizione se non sempre esclusiva, certo sempre determinante sul mercato.
Diverso è il quadro offerto dal cosiddetto oligopolio, che riflette con la presenza di poche imprese sul mercato un'offerta diretta a soddisfare l'intera domanda del prodotto. Si ha invece un oligopolio parziale, quando accanto alle grandi imprese ne operano altre di minore dimensione, che sono concorrenti nell'acquisizione di quote restanti di mercato. Sia l'oligopolio, sia il duopolio sono portati ad acquisire dimensioni sempre più ampie fino a tradursi in veri e propri monopoli. Fin qui il disegno teorico che questa materia trae con sé.
In realtà, i veri monopoli sono ora costituiti da quelli gestiti dallo Stato. Per questi vi è oggi la tendenza a trasformarli in vere e proprie imprese, come è nell'odierna vocazione dell'IRI, fra l'altro a seguito anche della privatizzazione di alcune sue aziende. Altrettanto dicasi per le Ferrovie dello Stato'. Ma purtroppo in questa direzione non mancano le incertezze ed i ritorni di fiamma, che tuttavia non riescono a scalfire il principio che le gestioni devono essere sempre naturalmente sane, quale ne possa essere il titolare.
Per contro, si allarga la sfera delle intese, a misura della dimensione internazionale di varie delle nostre grandi imprese. Orbene, è di questa dimensione e di questa prospettiva, che è il mercato stesso a richiedere, che bisogna si faccia carico ogni normativa in questo campo. E' questo un fatto irreversibile, che le leggi in atto od in preparazione devono garantire non solo nelle loro implicazioni sui mercati, ma anche per quanto concerne la condizione tecnico-gestionale con la quale le imprese sono chiamate ad affrontare il loro ciclo produttivo. E' quanto dovrebbe essere recepito anche dal nostro legislatore, sulla base di quanto prescrive il disegno di legge di cui prima abbiamo detto, secondo il quale possono essere autorizzate intese e concentrazioni che contribuiscono a migliorare la produzione e la distribuzione, o a promuovere la ricerca tecnologica o il progresso tecnico ed economico. Sennonché, all'atto pratico, non mancano da parte pubblica le remore ed i distinguo, che ritardano queste combinazioni o le compromettono. E ciò anche perché a monte di questa tematica c'è tutta una politica industriale da disegnare e da determinare nelle dimensioni e nei campi del pubblico e del privato.
Sono sottoposti oggi alle alternative che ne derivano i cosiddetti poli che sorgono, o tentano di sorgere, nell'incontro fra due o più grandi imprese. C'è il precedente nel campo elettronico, nel coinvolgimento di un'impresa IRI e della Fiat; c'è il travaglio di analoga convergenza, nel campo chimico, fra Montedison ed Enichem; c'è l'obiettivo della costituzione di un polo ferroviario, e così via. L'appuntamento del 1992 poi vedrò confluire in queste nuove formazioni anche grosse imprese di Paesi comunitari, come non mancano di annunciare vari prodromi, che fra l'altro hanno a che fare con il comparto assicurativo. Evidentemente anche questa è materia da considerare alla luce della tematica fin qui presa in esame, perché non ne derivino esorbitanze rispetto al reale assetto che discenderò dalle normative sia nazionali sia comunitarie.

Un punto fondamentale di partenza
Nell'affrontare questa problematica, Luigi Einaudi, nel suo aureo volume "Lezioni di Politica Sociale", fissa questo punto di partenza per la sua, come sempre, acuta e chiara disamina: mentre il mercato in concorrenza è benefico e rende servigio, il mercato in monopolio è dannoso e rende disservizi alla generalità degli uomini. Ne consegue, sempre per Einaudi, che la lotta contro i monopoli deve essere considerata come uno dei principali scopi della legislazione di uno Stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno. Chiara ed incontrovertibile affermazione di principio, che comporta una misura precisamente calibrata, sgombra da ogni pretesa più o meno demagogica, rispettosa di leggi ineludibili, non soggetta alla prevaricazione di questa o quella ideologia.
La battaglia contro i monopoli può essere condotta, secondo Einaudi, lungo due direttive. Ci sono dei monopoli dovuti ad una legge dello Stato. Il problema è quello di ripensarne le motivazioni, di verificarne gli effetti, di stabilirne le compatibilità, ed a questa luce determinare la possibilità, anzi la necessità, di percorrere il cammino inverso rispetto a quello da cui è nato il monopolio.
In altri casi il monopolio è dovuto a fattori indipendenti dalla legge, trovando spesso una causalità di ordine tecnico. Si tratta, ad esempio, dell'esercizio di determinati servizi, come può essere quello dei trasporti, della fornitura dell'acqua o del latte, ecc., che provocano situazioni locali a carattere più o meno monopolistico. In questi casi l'intento pubblico non può essere eluso, ma deve operare con determinazione e prontezza, con riguardo alla definizione del genere dei servizi, delle tariffe massime, e così via. Non di rado, però, lo Stato ha profittato di queste occasioni per trarne motivo di propri interventi diretti di gestione e di surrogazione dell'impresa privata. Ricorda emblematicamente Einaudi che quando si introdusse in Europa la foglia di tabacco, alcuni Stati dissero di voler esercitare essi quell'industria a tutela dei consumatori: è finito come tutti sanno, con prezzi moltiplicatori di decine di volte del costo di produzione, in forza di un fiscalismo che è sotto gli occhi dei consumatori, per la sua esosità ed inesauribile agibilità.
Ciò porta in primo piano il problema della trasparenza e della chiarezza in merito alle varie situazioni che si determinano, ed occorre controllare. Einaudi fa appello a questo riguardo "alla vigile illuminata opinione pubblica, capace di scoprire la verità in mezzo all'imbroglio di pretesti o di frasi fatte con cui si riesce ad ingannarla". Il che coinvolge in via preliminare proprio la classe politica, con la sagacia delle verifiche, con la prontezza degli interventi, con il rigore tecnico delle scelte, con i ripensamenti necessari.
Il tutto nella salvaguardia del principio essenziale per Einaudi, secondo il quale "chi non voglia trasformare la società intera in una immensa caserma od in reclusorio, deve riconoscere che il mercato, il quale raggiunge automaticamente il risultato di indirizzare la produzione e di soddisfare alla domanda effettiva dei consumatori, è un meccanismo che merita di essere attentamente studiato per essere a poco a poco perfezionato". E questa indagine con i relativi aggiustamenti non potrà non investire tutta la logica di formazione e di attitudini di prezzi e costi, con implicazioni che vengono anche a riguardare l'aspetto sindacate: salari, fondamenti e modi di essere dell'associazionismo, esercizio del diritto di sciopero. Anche queste materie hanno a che fare con il controllo delle posizioni dominanti, di cui quella d'ordine produttivo non è certo la sola ad avere valore preminente.

Le posizioni dominanti
Abbiamo parlato di posizioni dominanti. Ma come la dottrina ha reagito di fronte ad esse? Gli autori classici si erano ancorati al presupposto che i soggetti economici presenti sul mercato fossero uguali ed avevano interpretato i rapporti fra di loro come essenzialmente contrattuali. La realtà, come si sa, è ben diversa, e non da oggi; sennonché solo recentemente, come avvertono gli storici del pensiero economico moderno, si è avviata con una nuova consapevolezza una vera rivoluzione teorica.
Uno dei maggiori studiosi a questo riguardo è, come è noto, e come non abbiamo mancato di sottolineare su questa rivista in precedenti occasioni, François Perroux, che ha scritto sull'argomento due studi di particolare rilievo, e cioè "L'esquisse d'une théorie de l'economie dominante" e "Les macrodécisions". La realtà economica in sostanza è rappresentata, alla luce di queste interpretazioni, da un complesso di rapporti, palesi o dissimulati fra dominanti e dominati. Da questo discendono alcune verità:
- l'impresa o l'economia dominante può sul mercato costringere gli altri ad adattarsi, invece di adattarsi essa stessa.
- essendo particolarmente sviluppata, l'impresa dominante richiede relativamente meno, avendo riguardo all'ammontare della sua produzione, di quanto richiedano le imprese concorrenti, perché essa produce da sola nei propri stabilimenti a produzione integrata una parte delle proprie materie prime.
- l'impresa dominante penetra nella distribuzione del credito, facendo credito al proprio acquirente, penetrando finanziariamente nelle imprese concorrenti più deboli, agendo sui grandi organismi distributori del credito. In queste condizioni può agire anche su mercati diversi da quello dove essa vende le proprie merci.
- l'impresa dominante agisce sulle condizioni alle quali si realizza l'equilibrio del mercato. E questo a sua volta è stabilito al livello di prezzo e di produzione che l'impresa dominante giudica favorevole ai propri interessi.
- ogni equilibrio dovuto all'azione dell'impresa dominante diventa una deviazione duratura e cumulativa in paragone all'equilibrio del puro scambio: non si incontrano mai le condizioni necessarie ad un'eliminazione o ad una correzione di questa deviazione.
- il laissez faire non è più libertà di tutti, ma solo l'affrancamento delle imprese dominanti.
- la costrizione esercitata da gruppi privati è meno appariscente di quella degli Stati, ma non è certo meno efficace. Quasi in ciascun settore le macrodecisioni di gruppi o dello Stato impongono alle imprese giuridicamente indipendenti una certa disciplina. Ne discende la necessità della ricostruzione di una teoria generale nuova in cui la teoria delle posizioni dominanti abbia tutto il posto che essa merita.
- i punti focali di questa ricostruzione dovrebbero essere: studio dell'origine diversa del potere che alcune unità economiche possono esercitare rispetto ad altre, precisazione del comportamento delle unità dominanti, analisi degli scopi perseguiti, dei procedimenti di espressione della volontà relativa, dei mezzi di accrescimento del potere, degli strumenti di resistenza dei dominati, della razionalità delle macrodecisioni.
- riguardo a queste ultime constatazioni si può fortemente dubitare che i gruppi privati che utilizzano il potere di costrizione pongano in essere dei piani sempre razionali, come non può non esprimersi il dubbio che le stesse autorità pubbliche, quando pongono in essere dei piani ispirati all'interesse generale, non commettano errori di orientamento.
- gli errori stessi non sono sottoposti a delle pronte rettifiche, come potrebbero esserlo, nell'ipotesi di concorrenza perfetta, le microdecisioni di piccole unità concorrenti.
Questi sono in sostanza i germi di una dottrina che sta ampliando il proprio raggio d'azione, nello sforzo di determinazione dei binari lungo i quali devono muoversi i grandi raggruppamenti, nelle loro esigenze crescenti di espansione fisiologica, ma anche nel rispetto dei limiti e dei vincoli che ne devono condizionare e dirigere lo svolgimento. il fatto è che oggi come oggi non vi sono in economia principii astratti da esaltare o da contestare, né sulla strada della libertà di mercato, né su quella del suo contenimento pregiudiziale o peggio della sua eliminazione; vi sono, al contrario, gli imperativi di un progresso e di uno sviluppo da promuovere, nella norma di una sana fisiologia e della salvaguardia dell'interesse generale. l'una e l'altra coinvolgenti la responsabilità e l'iniziativa dello Stato, che deve concretizzare le proprie scelte nel campo delle relazioni e delle sinergie con le aziende di grande dimensione.
L'approccio con questa tematica non può non essere improntato, da parte dei privati, ma anche dello Stato, alla consapevolezza dei propri limiti e dei margini anche di possibili errori ai quali si può andare incontro.
Ma c'è anche un altro aspetto di cui non si potrà non tenere conto, e cioè della dimensione crescente del nostro spazio operativo, delle nuove forme e dei nuovi strumenti che caratterizzano il mondo economico, dell'ampiezza dei fronti di incontro e di scontro negli ambiti interni ed in quelli internazionali, ecc. Anche nella terminologia qualche cosa sta passando di moda ed è surrogata da altre denominazioni. Una parola sulla via del tramonto è quella dei cartelli, di cui non risultano oggi molte esplicite dichiarazioni. Restano i sottintesi.
Abbiamo parlato di cartelli, che rappresentano organizzazioni economiche di origine tedesca, a fronte del termine Kartell, che in tedesco significa accordo, convenzione. Le imprese che partecipano conservano ognuna la propria individualità economica, amministrativa e giuridica, per cui possono - pur essendo tenute a rispettare i termini dell'accordo - sempre farsi una certa concorrenza. Vari sono i cartelli organizzati sul piano internazionale, talvolta come risultanti di tanti cartelli nazionali. Ed il 1992 costituisce un incentivo in questa direzione, ma indipendentemente da detta scadenza queste implicazioni che vengono da siffatti vincoli esterni sono tante, anche e si può dire a cominciare da talune branche fondamentali, come ad esempio è quella energetica. In questi casi, la nostra garanzia può venire, prima ancora che dalle normative, dagli indirizzi che sapremo imprimere alle nostre specifiche politiche. E qui i nostri riferimenti vanno fra l'altro alla politica energetica, che costituisce un altro capitolo delle scelte che dobbiamo compiere, come risultante di una strategia che deve saper essere, oltre che vincolante, sanamente propulsiva. Con quest'ottica uno sguardo non secondario va rivolto pure ai cosiddetti investimenti incrociati, cioè a partecipazioni reciproche di capitali di vari Paesi a processi produttivi che si svolgono in altri. E' il caso, oggi tanto all'ordine del giorno, delle società cosiddette planetarie, internazionali, transnazionali, supernazionali, anazionali, ecc., che vedremo in progressiva necessaria crescita, con tutte le semplificazioni e correntezza indispensabili, ma anche con la più trasparente chiarezza dei singoli disegni e della mappa complessiva.

L'evoluzione della dottrina
Le cose sono dunque, a grandi linee, a questo punto; ma con quale evoluzione segnata in parte significativa pure dalla dottrina?
C'è l'incontrastata prevalenza della funzione del mercato, rispetto alle ipotesi e agli sbocchi di ordine collettivistico; come c'è la sempre più diffusa convinzione che il mercato stesso debba sprigionare i suoi impulsi in sfere equilibrate, il cui retto funzionamento deve essere garantito dalla supervisione pubblica.
Dice Einaudi che "il re del mondo economico, in un libero mercato, è il consumatore ed egli ha, ministro ubbidiente, esecutore fedele dei suoi ordini il prezzo. L'imprenditore, il quale non interpreta bene i desideri presenti dei consumatori o non riesce ad intuirne i desideri futuri, e produce la merce od i servizi non richiesti dai consumatori o richiesti in una quantità minore di quella per errore prodotta ed offerta, perde ed alla lunga deve abbandonare la partita". Meccanismo automatico del mercato, dunque; però, bisogna aggiungere, con il corrispondente funzionamento dell'apparato riequilibratore, sul quale il potere pubblico deve vigilare, con tutta la strumentazione di cui dispone, perché la legge del mercato stesso, e cioè la concorrenza, sia garantita.
Una significativa rappresentazione di questa concorrenza è fornita dallo Schumpeter, secondo il quale l'essenza della legge concorrenziale è da ricercare nel processo di continuo rinnovamento, nella distruzione creativa. Scriveva Schumpeter che "gli economisti stanno uscendo dallo stadio in cui non vedevano che una forma di concorrenza, quella dei prezzi. Nella realtà capitalistica in quanto distinta dalla sua immagine scolastica quel che conto non è questo tipo di concorrenza, ma la concorrenza creata dalla nuova legge, dalla nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo tipo organizzativo (per esempio la grande unità di controllo) che condiziono un vantaggio decisivo di costo e di qualità ed incide, non sui margini del profitto e sulla produzione delle ditte esistenti, ma sulle loro stesse fondamenta, sulla loro vita".
Ci sono naturalmente le deviazioni da questa linea, ed esse sono rappresentate dalla patologia monopolistica, riassorbita spesso dagli assalti della concorrenza, ma indubbiamente bisognosa, oltre che delle capacità di risanamento naturale, anche dell'appropriata terapia costituita dal contesto nel quale i singoli fenomeni sorgono e maturano, perché quelli negativi risultino marginali e possano essere più agevolmente asportati dal quadro.
In queste condizioni, come c'è stata una mistica assoluta del mercato, come c'è stata una demistificazione del mercato, come c'è una patologia del mercato, così ci sono i limiti del mercato.
Si possono citare a quest'ultimo riguardo tre nomi emblematici, e cioè Keynes, Einaudi e Bresciani Turroni, secondo i quali il mercato non può e non deve risolvere tutti i problemi economici e sociali; ha bisogno dell'appoggio di altri sistemi integrativi anche per risolvere quei particolari problemi che gli competono, ma, seppure insufficiente, è necessario e lo resterà finché non si dimostri il contrario, sperimentando qualche nuovo sistema che lo sostituisca con vantaggio. E questa ricerca, come si sa, è stata effettuata, con tutti i ripensamenti che ne sono derivati, anche nei Paesi socialisti. D'altra parte, si sa, il mercato non è un sistema immutabile, come dimostrano i cambiamenti intervenuti dal 1838, allorché fu fondata a Manchester la lega liberista con tutti gli ideali di allora mutati nel corso del tempo.
Keynes, è noto, è stato uno dei più rigorosi critici del mercato, ma non ne ha mai smentita la matrice, tant'è che afferma che "la teoria classica moderna ha essa stessa richiamato l'attenzione sulle diverse condizioni nelle quali il libero gioco delle forze economiche deve venire moderato e guidato. Ma rimarrà ancora gran campo all'esercizio delle iniziative e delle responsabilità individuali. Entro questo campo i vantaggi tradizionali dell'individualismo varranno ancora". Nella determinazione di questo campo, occorre evitare le digressioni ideologiche, perché, sottolinea sempre Keynes, "presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male". E questa è certamente una filosofia politica, prima ancora che economica, che dovrebbe costituire certamente una misura più accreditata e praticata di quanto non lo sia oggi.
Più perentorio è Einaudi quando afferma che "alle eccezioni bisogna porre mano solo se sono una eccezione vera. L'eccezione può anche diventare imponente senza abolire la regola della libertà degli uomini di indirizzare la propria domanda nel senso preferito individualmente da ciascuno di noi. Se diventasse regola, ciò vorrebbe dire che noi accettiamo il principio che gli uomini non possono più decidere essi quei che vogliono acquistare, ma deciderebbe sempre qualcun altro. E' probabile invece che la grande maggioranza degli uomini desideri spendere i mezzi che possiede come meglio crede, senza lasciarsi dettare la legge da nessun altro, ossia desideri la continuità del mercato, unico mezzo finora scoperto per ottenere lo scopo. Ciò non esclude, ma comporta un'attitudine pubblica attenta e pronto nell'intervenire, quando il mercato si presenta con fenomeni e comportamenti patologici, e comunque non coincidenti con l'interesse generale".
Afferma, ad esempio, Bresciani Turroni che non sempre i costi ed i valori dal punto di vista individuale sono gli stessi di quelli considerati dal punto di vista sociale. "Spesso il costo di una merce dal punto di vista sociale è maggiore o minore del costo dal punto di vista individuale o a parità di costi il valore sociale diverge più o meno dal valore dal punto di vista individuale. Quando una tale divergenza si verifica, la distribuzione delle risorse del Paese fra i vari impieghi non è la migliore dal punto di vista sociale, e perciò il prodotto sociale non è il massimo possibile". Ma nessuna enfasi è da cogliere in questa espressione del pensiero, tant'è che Bresciani Turroni conclude che "resta il fatto confermato dal grande aumento della ricchezza durante il XIX secolo che la iniziativa privata, quantunque guardi anzitutto al profitto individuale, ha anche potentemente contribuito alla prosperità generale. Compito dello Stato è quello di correggere possibilmente le imperfezioni del mercato, quando si verificano, senza sopprimerne il funzionamento".
Secondo Keynes, che ha avuto come sfondo di suoi significativi interventi gli anni della grande crisi, bisogna chiamare in causa per risolvere i grandi problemi la sfera privata e quella pubblica, da manovrare con attività, coraggio ed iniziativa, per riuscire a sfruttare pienamente le risorse, non avendo trovato sbocco al grande incremento del potenziale produttivo ed alle energie nuove. Tutto ciò costituisce un panorama generalmente diffuso, ma che in Italia trova punte notevolmente emergenti, da risolvere in termini di crescenti applicazioni ed innovazioni tecnologiche, di nuove forme di produrre, di nuove e sempre più articolate allocazioni, in un generale disegno di progresso che la normativa stessa è chiamata a secondare e garantire. Di qui la circospezione ed anche la prontezza necessarie in ogni intervento che abbia come punto di riferimento o come sbocco il mercato, e ciò soprattutto quando il mercato stesso si accinge ad assumere dimensioni sempre più vaste, culminando nel mercato unico integrato ed essendo sempre condizionato dai vincoli e dai metri internazionali.
Oggi come oggi abbiamo a che fare, anche nei Paesi più industrializzati, con un sistema misto, nel quale il controllo economico è esercitato di fatto dalle istituzioni pubbliche come da quelle private.
Scrive Samuelson che "il solo funzionamento del sistema economico è una prova già di per sé convincente che un sistema di concorrenza di mercati e prezzi -qualunque esso sia e per quanto imperfettamente possa funzionare - non è un sistema di caos o di anarchia. Vi sono in esso un certo ordine ed una regolarità. Esso lavora. Il sistema di concorrenza è un meccanismo elaborato di un coordinamento inconscio attraverso il sistema dei prezzi e dei mercati, un espediente per mettere in comune il sapere e le attività di milioni di individui diversi. Senza una guida centrale esso risolve uno dei più complessi problemi che si possa immaginare, che comporta migliaia di incognite e relazioni. Si è formato da sé ed è mutevole come l'umana natura; ma almeno supera la prima prova di ogni organizzazione sociale e riesce a sopravvivere".
Non si ha tuttavia a che fare con un'economia pura dei prezzi, ma con un sistema misto nel quale gli elementi del controllo governativo sono mescolati agli elementi del mercato, nell'organizzare la produzione ed il consumo.
C'è pertanto la necessità di uno schema, nel quale l'iniziativa privata può e deve funzionare, con la conseguenza che Samuelson riassume nella seguente proposizione: "insieme alla spesa pubblica ed all'imposizione i decreti servono da completamento al sistema dei prezzi per determinare le condizioni economiche di un Paese". Una funzione, dunque, concorrente e non schiacciante nel comune finalismo del raggiungimento dello sviluppo economico, come conclude lo stesso Samuelson, per il quale sarebbe inutile cercare di stabilire se sia più importante l'iniziativa privata o quella pubblica, avendo quest'ultima una serie preminente di responsabilità che non sempre riesce - come il nostro panorama anche conferma - a disimpegnare.
E fin qui abbiamo cercato di richiamare alcuni punti di riferimento che ci vengono da qualificate espressioni del pensiero economico d'oggi a valere per la determinazione del comportamento pubblico, anche nella particolare angolazione della difesa della concorrenza e delle definizioni che di essa darà pure la nostra normativa.
Un altro presupposto vincolante è quelle dell'ancoraggio alla nascente normativa comunitaria che discende dalle precise formulazioni al riguardo del Trattato di Roma. la dialettica ha quindi un ampio campo di fronte a sé, che è di confronti, di richiami, di verifiche, perché il ruolo delle parti, pubblica e privata, non sia alterato, nei contenuti e nei finalismi loro propri e che non possono, non devono non coincidere.
La legge sulla difesa della concorrenza sarà pertanto un banco di prova per un assetto che, per le ragioni ora dette, va oltre la materia fin qui considerata o che ne forma lo specifico oggetto.


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