Una
disciplina garante della concorrenza e più semplicemente definita
anti-trust trova due immediati riscontri, da una parte, nella normativa
che è allo studio nel nostro Paese per essere varata in tempi
brevi, e dall'altra nell'assetto cui è destinata la materia nell'ambito
della CEE.
I pilastri che la disciplina italiana prevede si riassumono nei seguenti
principii:
- la legge nazionale non deve sovrapporsi, ma armonizzarsi con la normativa
CEE. In sostanza, in materia di applicazione delle regole di concorrenza
del Trattato di Roma, si tratta di vedere controllate dal relativo regolamento
le concentrazioni oggetto di esso in via esclusiva dalle Autorità
comunitarie, senza la possibilità che la valutazione delle stesse
possa essere contraddetta da valutazioni e posizioni delle Autorità
nazionali. L'obiettivo, chiarito in documenti ufficiali, è quello
di realizzare in pieno la certezza del diritto per le imprese ed, una
uniformità anche giurisprudenziale. Tutto ciò ovviamente
nella logica del mercato unico, per il quale l'equilibrata situazione
delle imprese è fondamentale, anzi preliminare nelle concatenazioni
pure di produttività e di efficienza.
D'altra parte un riflesso di una tale condizione è evidenziato
dal processo di internazionalizzazione in otto anche nella nostra economia,
che spinge le imprese ad acquisizioni ed accordi sui mercati internazionali,
con ripercussioni dirette, il più delle volte giudicate positive
per la concorrenza nell'ambito nazionale. Ne discende che emanazione
del regolamento comunitario e disciplina nazionale devono non solo conciliarsi,
ma integrarsi, nella combinazione delle due ottiche e dei presupposti
da cui esse derivano.
- la normativa nazionale in materia dovrà servire a rimuovere
tutti gli ostacoli (amministrativi, normativi, legislativi) alla libera
concorrenza. Il problema è anche per questa materia quello di
conseguire una vera e propria deregulation, che poi è la condizione
prima perché lo Stato realizzi quell'efficienza e quella puntualizzazione
dei suoi interventi realmente nei settori e nelle maniere necessari.
Sennonché questa deregulation sta avendo un iter da noi particolarmente
travagliato, rappresentando un'aspirazione ed un'attesa ancora aggirate
spesso da un prepotere burocratico duro a morire.
- non dovranno essere ostacolate le concentrazioni in quanto tali, ma
solo se ed in quanto determinino abuso di posizione dominante e risultino
lesive della libera concorrenza. Il principio, come si vede, è
chiaro, comportando una verifica che sia effettiva, e non alterata da
interpretazioni politiche o peggio ideologiche, o peggio ancora dalle
posizioni di potere politico, anche partitico, che possono derivarne.
- l'applicazione della nuova legge nazionale dovrà essere affidata
ad un'Alta Autorità ad alto tasso di imparzialità e di
indipendenza dal potere politico.
Questi in sostanza i principali intendimenti espressi, che denunciano
un finalismo ineccepibile in sede di principii, di difficile però
enucleazione concreta e di ancor più difficile applicazione.
Per chiarire l'intero quadro, c'è stata un'indagine conoscitiva
del Senato, c'è stato ancora lo studio approfondito svolto da
un'apposita Commissione istituita presso il Ministero dell'industria,
c'è poi una proposta di legge anti-trust della Sinistra indipendente,
c'è infine il disegno di legge governativo. In forza di questo
disegno, la legge italiana non dovrebbe interferire sulle concentrazioni,
il cui controllo rientra nelle competenze della CEE, mentre dovrebbe
coprire gli spazi sottratti alla normativa europea. In concreto, al
di sopra di una certa soglia, per fatturato e quote di mercato, le concentrazioni
verrebbero regolate dalla normativa CEE e al di sotto di tale soglia
dalla legge italiana. Stabilire la dimensione delle due fasce costituirà
indubbiamente un'impresa, non facile nell'individuazione cioè
dei riflessi e delle situazioni che ne potranno derivare o che sono
a monte.
Comunque, il disegno di legge governativo propone queste dimensioni
inquadrandole in una logica dell'intero provvedimento, che è
quella dell'introduzione di controlli diretti a prevenire gli abusi,
senza interferenze su fenomeni economici che appartengono alla logica
del mercato, quale oggi è intesa. Si riafferma al riguardo che
concetto fondamentale è quello di posizione dominante di un'impresa
o di azione che tende a falsare la concorrenza nel mercato nazionale.
Le relative situazioni vengono valutate tenendo conto delle possibilità
di scelta di fornitori ed utilizzatori di beni e servizi, della posizione
sul mercato delle imprese interessate, dell'accesso alle fonti di approvvigionamento,
della concorrenza internazionale, delle barriere all'arrivo di concorrenti.
L'ingerenza
del potere politico
Fin qui i propositi, che non possono non essere recepiti nella loro
filosofia del rispetto della visuale del 1992, della considerazione
che grandi fenomeni di concentrazione industriale, specie se sostenuti
da privilegi legislativi e burocratici, possono provocare abusi a
danno del consumatore. Il che comporta una precisa puntualizzazione
dei mezzi di verifica, in modo da evitarne l'esorbitanza e soprattutto
senza creare nuovi strumenti ed occasioni di burocratizzazione. Dicono
al riguardo gli operatori di essere decisamente contrari a controlli
preventivi, poiché accettandoli significherebbe arrogare un
potere di decisione politico svincolato da qualsiasi elemento certo
di giudizio. Ma la garanzia perché ciò non avvenga è
costituita soprattutto dalla rispondenza dell'ispirazione della nostra
normativa a quella stessa di natura comunitaria, nella salvaguardia
appunto del mercato unico e delle condizioni unitarie con le quali
esso può realmente operare.
In conclusione, per quanto ci riguarda, una delle condizioni da rispettare
con assoluto rigore è quella di impedire l'invadenza del potere
politico nella vita delle imprese. Un banco di prova, questo, nel
quale certamente il travaglio non sarà agevole e dovrà
trarre frutto dalle esperienze finora compiute, come quelle dell'editoria
o da compiere, come è il caso della cosiddetta opzione zero
nel campo dell'informazione e delle comunicazioni radio-televisive,
con dosaggi di interventi non certo facili, anche perché vedono
spesso in agguato l'ingerenza del potere politico.
L'esegesi dottrinaria
Ed ora due domande interessanti.
Come questa problematica si inserisce nella sistematica dottrinaria
della materia e come con essa si è misurata una parte qualificata
del pensiero economico moderno?
Nella loro forma classica i trusts sono sindacati industriali di origine
americana. I loro amministratori hanno il compito di fissare le relative
strategie, anche contro il parere delle imprese coalizzate, private
così della propria autonomia giuridica per conservare solo
quella tecnica. I trusts possono essere orizzontali, se comprendono
imprese che producono lo stesso bene, e verticali se raccolgono invece
imprese esercenti attività diverse, ma tutte concorrenti alla
produzione dello stesso bene. Ma quando da queste situazioni così
configurate possono discendere quelle caratterizzate dal monopolio
e dall'oligopolio?
Si ha il primo caso, quando l'offerta di un bene o di un servizio
è concentrata nelle mani di un solo operatore. Alla base vi
è l'improducibilità da parte di terzi di quanto viene
offerto al mercato. Varie ne sono le forme pratiche.
Vi è così il monopolio legale, quando è la legge
che lo istituisce, affidandone la gestione generale allo Stato. E'
il caso delle poste e telegrafo. Vi è poi il monopolio naturale,
che si verifica quando è la natura stessa a creare una situazione
di vantaggio per il soggetto. il caso evidentemente non si limita
solo alla sua causale naturale, ma si estende, dovrebbe estendersi,
a tutti i casi nei quali la realtà crea anche artificiosamente
situazioni siffatte. Si pensi alla condizione di comportamenti di
categorie, anche di dipendenti, che provocano situazioni impositive
indebitamente per le utenze. Altro tipo di monopolio è quello
convenzionale, dovuto ad un accordo fra i produttori, i quali rinunciano
alla concorrenza, ma stabiliscono modalità di comportamento
unitarie nei confronti del mercato. Vi è altresì il
monopolio pubblico, gestito direttamente dallo Stato o da altro ente
pubblico, che si distingue in monopolio fiscale (diretto a creare
un'entrata all'Erario) ed in monopolio sociale, avente lo scopo di
assicurare a tutti l'utenza di un determinato servizio. Molti interventi
pubblici sono nati con questa motivazione, ma all'atto pratico non
si sono constatati i vantaggi che avrebbero dovuto derivare dalla
pubblicizzazione. E' questo il caso della nazionalizzazione dell'energia
elettrica, voluta a suo tempo per causali politiche, che (poi si è
riconosciuto da parte stessa di chi la nazionalizzazione aveva voluto)
avrebbero potuto ben diversamente essere conseguite. Si pensi a questo
riguardo al potere della leva fiscale, a quello della leva creditizia,
a quello della normativa amministrativa, con gli ampi spazi Che ciascuna
di esse viene a dischiudere a garanzia dell'interesse pubblico.
Fin qui abbiamo parlato di una situazione in cui il detentore dell'offerta
è rappresentato da un solo operatore. Al duopolio invece è
legata un'offerta di bene o di servizio determinata da due sole imprese,
il cui comportamento pur definitivo è sempre soggetto a differenziazioni,
così frequenti nella realtà da far ritenere questo modello
più che altro di carattere teorico. Comunque, qualche tendenza
in questa direzione può essere riscontrata nelle aziende cosiddette
miste, che si tentano oggi con i "poli", che in realtà
sono portate a realizzare una posizione se non sempre esclusiva, certo
sempre determinante sul mercato.
Diverso è il quadro offerto dal cosiddetto oligopolio, che
riflette con la presenza di poche imprese sul mercato un'offerta diretta
a soddisfare l'intera domanda del prodotto. Si ha invece un oligopolio
parziale, quando accanto alle grandi imprese ne operano altre di minore
dimensione, che sono concorrenti nell'acquisizione di quote restanti
di mercato. Sia l'oligopolio, sia il duopolio sono portati ad acquisire
dimensioni sempre più ampie fino a tradursi in veri e propri
monopoli. Fin qui il disegno teorico che questa materia trae con sé.
In realtà, i veri monopoli sono ora costituiti da quelli gestiti
dallo Stato. Per questi vi è oggi la tendenza a trasformarli
in vere e proprie imprese, come è nell'odierna vocazione dell'IRI,
fra l'altro a seguito anche della privatizzazione di alcune sue aziende.
Altrettanto dicasi per le Ferrovie dello Stato'. Ma purtroppo in questa
direzione non mancano le incertezze ed i ritorni di fiamma, che tuttavia
non riescono a scalfire il principio che le gestioni devono essere
sempre naturalmente sane, quale ne possa essere il titolare.
Per contro, si allarga la sfera delle intese, a misura della dimensione
internazionale di varie delle nostre grandi imprese. Orbene, è
di questa dimensione e di questa prospettiva, che è il mercato
stesso a richiedere, che bisogna si faccia carico ogni normativa in
questo campo. E' questo un fatto irreversibile, che le leggi in atto
od in preparazione devono garantire non solo nelle loro implicazioni
sui mercati, ma anche per quanto concerne la condizione tecnico-gestionale
con la quale le imprese sono chiamate ad affrontare il loro ciclo
produttivo. E' quanto dovrebbe essere recepito anche dal nostro legislatore,
sulla base di quanto prescrive il disegno di legge di cui prima abbiamo
detto, secondo il quale possono essere autorizzate intese e concentrazioni
che contribuiscono a migliorare la produzione e la distribuzione,
o a promuovere la ricerca tecnologica o il progresso tecnico ed economico.
Sennonché, all'atto pratico, non mancano da parte pubblica
le remore ed i distinguo, che ritardano queste combinazioni o le compromettono.
E ciò anche perché a monte di questa tematica c'è
tutta una politica industriale da disegnare e da determinare nelle
dimensioni e nei campi del pubblico e del privato.
Sono sottoposti oggi alle alternative che ne derivano i cosiddetti
poli che sorgono, o tentano di sorgere, nell'incontro fra due o più
grandi imprese. C'è il precedente nel campo elettronico, nel
coinvolgimento di un'impresa IRI e della Fiat; c'è il travaglio
di analoga convergenza, nel campo chimico, fra Montedison ed Enichem;
c'è l'obiettivo della costituzione di un polo ferroviario,
e così via. L'appuntamento del 1992 poi vedrò confluire
in queste nuove formazioni anche grosse imprese di Paesi comunitari,
come non mancano di annunciare vari prodromi, che fra l'altro hanno
a che fare con il comparto assicurativo. Evidentemente anche questa
è materia da considerare alla luce della tematica fin qui presa
in esame, perché non ne derivino esorbitanze rispetto al reale
assetto che discenderò dalle normative sia nazionali sia comunitarie.
Un punto fondamentale
di partenza
Nell'affrontare questa problematica, Luigi Einaudi, nel suo aureo
volume "Lezioni di Politica Sociale", fissa questo punto
di partenza per la sua, come sempre, acuta e chiara disamina: mentre
il mercato in concorrenza è benefico e rende servigio, il mercato
in monopolio è dannoso e rende disservizi alla generalità
degli uomini. Ne consegue, sempre per Einaudi, che la lotta contro
i monopoli deve essere considerata come uno dei principali scopi della
legislazione di uno Stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere
dei più e non intendano curare gli interessi dei meno. Chiara
ed incontrovertibile affermazione di principio, che comporta una misura
precisamente calibrata, sgombra da ogni pretesa più o meno
demagogica, rispettosa di leggi ineludibili, non soggetta alla prevaricazione
di questa o quella ideologia.
La battaglia contro i monopoli può essere condotta, secondo
Einaudi, lungo due direttive. Ci sono dei monopoli dovuti ad una legge
dello Stato. Il problema è quello di ripensarne le motivazioni,
di verificarne gli effetti, di stabilirne le compatibilità,
ed a questa luce determinare la possibilità, anzi la necessità,
di percorrere il cammino inverso rispetto a quello da cui è
nato il monopolio.
In altri casi il monopolio è dovuto a fattori indipendenti
dalla legge, trovando spesso una causalità di ordine tecnico.
Si tratta, ad esempio, dell'esercizio di determinati servizi, come
può essere quello dei trasporti, della fornitura dell'acqua
o del latte, ecc., che provocano situazioni locali a carattere più
o meno monopolistico. In questi casi l'intento pubblico non può
essere eluso, ma deve operare con determinazione e prontezza, con
riguardo alla definizione del genere dei servizi, delle tariffe massime,
e così via. Non di rado, però, lo Stato ha profittato
di queste occasioni per trarne motivo di propri interventi diretti
di gestione e di surrogazione dell'impresa privata. Ricorda emblematicamente
Einaudi che quando si introdusse in Europa la foglia di tabacco, alcuni
Stati dissero di voler esercitare essi quell'industria a tutela dei
consumatori: è finito come tutti sanno, con prezzi moltiplicatori
di decine di volte del costo di produzione, in forza di un fiscalismo
che è sotto gli occhi dei consumatori, per la sua esosità
ed inesauribile agibilità.
Ciò porta in primo piano il problema della trasparenza e della
chiarezza in merito alle varie situazioni che si determinano, ed occorre
controllare. Einaudi fa appello a questo riguardo "alla vigile
illuminata opinione pubblica, capace di scoprire la verità
in mezzo all'imbroglio di pretesti o di frasi fatte con cui si riesce
ad ingannarla". Il che coinvolge in via preliminare proprio la
classe politica, con la sagacia delle verifiche, con la prontezza
degli interventi, con il rigore tecnico delle scelte, con i ripensamenti
necessari.
Il tutto nella salvaguardia del principio essenziale per Einaudi,
secondo il quale "chi non voglia trasformare la società
intera in una immensa caserma od in reclusorio, deve riconoscere che
il mercato, il quale raggiunge automaticamente il risultato di indirizzare
la produzione e di soddisfare alla domanda effettiva dei consumatori,
è un meccanismo che merita di essere attentamente studiato
per essere a poco a poco perfezionato". E questa indagine con
i relativi aggiustamenti non potrà non investire tutta la logica
di formazione e di attitudini di prezzi e costi, con implicazioni
che vengono anche a riguardare l'aspetto sindacate: salari, fondamenti
e modi di essere dell'associazionismo, esercizio del diritto di sciopero.
Anche queste materie hanno a che fare con il controllo delle posizioni
dominanti, di cui quella d'ordine produttivo non è certo la
sola ad avere valore preminente.
Le posizioni
dominanti
Abbiamo parlato di posizioni dominanti. Ma come la dottrina ha reagito
di fronte ad esse? Gli autori classici si erano ancorati al presupposto
che i soggetti economici presenti sul mercato fossero uguali ed avevano
interpretato i rapporti fra di loro come essenzialmente contrattuali.
La realtà, come si sa, è ben diversa, e non da oggi;
sennonché solo recentemente, come avvertono gli storici del
pensiero economico moderno, si è avviata con una nuova consapevolezza
una vera rivoluzione teorica.
Uno dei maggiori studiosi a questo riguardo è, come è
noto, e come non abbiamo mancato di sottolineare su questa rivista
in precedenti occasioni, François Perroux, che ha scritto sull'argomento
due studi di particolare rilievo, e cioè "L'esquisse d'une
théorie de l'economie dominante" e "Les macrodécisions".
La realtà economica in sostanza è rappresentata, alla
luce di queste interpretazioni, da un complesso di rapporti, palesi
o dissimulati fra dominanti e dominati. Da questo discendono alcune
verità:
- l'impresa o l'economia dominante può sul mercato costringere
gli altri ad adattarsi, invece di adattarsi essa stessa.
- essendo particolarmente sviluppata, l'impresa dominante richiede
relativamente meno, avendo riguardo all'ammontare della sua produzione,
di quanto richiedano le imprese concorrenti, perché essa produce
da sola nei propri stabilimenti a produzione integrata una parte delle
proprie materie prime.
- l'impresa dominante penetra nella distribuzione del credito, facendo
credito al proprio acquirente, penetrando finanziariamente nelle imprese
concorrenti più deboli, agendo sui grandi organismi distributori
del credito. In queste condizioni può agire anche su mercati
diversi da quello dove essa vende le proprie merci.
- l'impresa dominante agisce sulle condizioni alle quali si realizza
l'equilibrio del mercato. E questo a sua volta è stabilito
al livello di prezzo e di produzione che l'impresa dominante giudica
favorevole ai propri interessi.
- ogni equilibrio dovuto all'azione dell'impresa dominante diventa
una deviazione duratura e cumulativa in paragone all'equilibrio del
puro scambio: non si incontrano mai le condizioni necessarie ad un'eliminazione
o ad una correzione di questa deviazione.
- il laissez faire non è più libertà di tutti,
ma solo l'affrancamento delle imprese dominanti.
- la costrizione esercitata da gruppi privati è meno appariscente
di quella degli Stati, ma non è certo meno efficace. Quasi
in ciascun settore le macrodecisioni di gruppi o dello Stato impongono
alle imprese giuridicamente indipendenti una certa disciplina. Ne
discende la necessità della ricostruzione di una teoria generale
nuova in cui la teoria delle posizioni dominanti abbia tutto il posto
che essa merita.
- i punti focali di questa ricostruzione dovrebbero essere: studio
dell'origine diversa del potere che alcune unità economiche
possono esercitare rispetto ad altre, precisazione del comportamento
delle unità dominanti, analisi degli scopi perseguiti, dei
procedimenti di espressione della volontà relativa, dei mezzi
di accrescimento del potere, degli strumenti di resistenza dei dominati,
della razionalità delle macrodecisioni.
- riguardo a queste ultime constatazioni si può fortemente
dubitare che i gruppi privati che utilizzano il potere di costrizione
pongano in essere dei piani sempre razionali, come non può
non esprimersi il dubbio che le stesse autorità pubbliche,
quando pongono in essere dei piani ispirati all'interesse generale,
non commettano errori di orientamento.
- gli errori stessi non sono sottoposti a delle pronte rettifiche,
come potrebbero esserlo, nell'ipotesi di concorrenza perfetta, le
microdecisioni di piccole unità concorrenti.
Questi sono in sostanza i germi di una dottrina che sta ampliando
il proprio raggio d'azione, nello sforzo di determinazione dei binari
lungo i quali devono muoversi i grandi raggruppamenti, nelle loro
esigenze crescenti di espansione fisiologica, ma anche nel rispetto
dei limiti e dei vincoli che ne devono condizionare e dirigere lo
svolgimento. il fatto è che oggi come oggi non vi sono in economia
principii astratti da esaltare o da contestare, né sulla strada
della libertà di mercato, né su quella del suo contenimento
pregiudiziale o peggio della sua eliminazione; vi sono, al contrario,
gli imperativi di un progresso e di uno sviluppo da promuovere, nella
norma di una sana fisiologia e della salvaguardia dell'interesse generale.
l'una e l'altra coinvolgenti la responsabilità e l'iniziativa
dello Stato, che deve concretizzare le proprie scelte nel campo delle
relazioni e delle sinergie con le aziende di grande dimensione.
L'approccio con questa tematica non può non essere improntato,
da parte dei privati, ma anche dello Stato, alla consapevolezza dei
propri limiti e dei margini anche di possibili errori ai quali si
può andare incontro.
Ma c'è anche un altro aspetto di cui non si potrà non
tenere conto, e cioè della dimensione crescente del nostro
spazio operativo, delle nuove forme e dei nuovi strumenti che caratterizzano
il mondo economico, dell'ampiezza dei fronti di incontro e di scontro
negli ambiti interni ed in quelli internazionali, ecc. Anche nella
terminologia qualche cosa sta passando di moda ed è surrogata
da altre denominazioni. Una parola sulla via del tramonto è
quella dei cartelli, di cui non risultano oggi molte esplicite dichiarazioni.
Restano i sottintesi.
Abbiamo parlato di cartelli, che rappresentano organizzazioni economiche
di origine tedesca, a fronte del termine Kartell, che in tedesco significa
accordo, convenzione. Le imprese che partecipano conservano ognuna
la propria individualità economica, amministrativa e giuridica,
per cui possono - pur essendo tenute a rispettare i termini dell'accordo
- sempre farsi una certa concorrenza. Vari sono i cartelli organizzati
sul piano internazionale, talvolta come risultanti di tanti cartelli
nazionali. Ed il 1992 costituisce un incentivo in questa direzione,
ma indipendentemente da detta scadenza queste implicazioni che vengono
da siffatti vincoli esterni sono tante, anche e si può dire
a cominciare da talune branche fondamentali, come ad esempio è
quella energetica. In questi casi, la nostra garanzia può venire,
prima ancora che dalle normative, dagli indirizzi che sapremo imprimere
alle nostre specifiche politiche. E qui i nostri riferimenti vanno
fra l'altro alla politica energetica, che costituisce un altro capitolo
delle scelte che dobbiamo compiere, come risultante di una strategia
che deve saper essere, oltre che vincolante, sanamente propulsiva.
Con quest'ottica uno sguardo non secondario va rivolto pure ai cosiddetti
investimenti incrociati, cioè a partecipazioni reciproche di
capitali di vari Paesi a processi produttivi che si svolgono in altri.
E' il caso, oggi tanto all'ordine del giorno, delle società
cosiddette planetarie, internazionali, transnazionali, supernazionali,
anazionali, ecc., che vedremo in progressiva necessaria crescita,
con tutte le semplificazioni e correntezza indispensabili, ma anche
con la più trasparente chiarezza dei singoli disegni e della
mappa complessiva.
L'evoluzione
della dottrina
Le cose sono dunque, a grandi linee, a questo punto; ma con quale
evoluzione segnata in parte significativa pure dalla dottrina?
C'è l'incontrastata prevalenza della funzione del mercato,
rispetto alle ipotesi e agli sbocchi di ordine collettivistico; come
c'è la sempre più diffusa convinzione che il mercato
stesso debba sprigionare i suoi impulsi in sfere equilibrate, il cui
retto funzionamento deve essere garantito dalla supervisione pubblica.
Dice Einaudi che "il re del mondo economico, in un libero mercato,
è il consumatore ed egli ha, ministro ubbidiente, esecutore
fedele dei suoi ordini il prezzo. L'imprenditore, il quale non interpreta
bene i desideri presenti dei consumatori o non riesce ad intuirne
i desideri futuri, e produce la merce od i servizi non richiesti dai
consumatori o richiesti in una quantità minore di quella per
errore prodotta ed offerta, perde ed alla lunga deve abbandonare la
partita". Meccanismo automatico del mercato, dunque; però,
bisogna aggiungere, con il corrispondente funzionamento dell'apparato
riequilibratore, sul quale il potere pubblico deve vigilare, con tutta
la strumentazione di cui dispone, perché la legge del mercato
stesso, e cioè la concorrenza, sia garantita.
Una significativa rappresentazione di questa concorrenza è
fornita dallo Schumpeter, secondo il quale l'essenza della legge concorrenziale
è da ricercare nel processo di continuo rinnovamento, nella
distruzione creativa. Scriveva Schumpeter che "gli economisti
stanno uscendo dallo stadio in cui non vedevano che una forma di concorrenza,
quella dei prezzi. Nella realtà capitalistica in quanto distinta
dalla sua immagine scolastica quel che conto non è questo tipo
di concorrenza, ma la concorrenza creata dalla nuova legge, dalla
nuova tecnica, dalla nuova fonte di approvvigionamento, dal nuovo
tipo organizzativo (per esempio la grande unità di controllo)
che condiziono un vantaggio decisivo di costo e di qualità
ed incide, non sui margini del profitto e sulla produzione delle ditte
esistenti, ma sulle loro stesse fondamenta, sulla loro vita".
Ci sono naturalmente le deviazioni da questa linea, ed esse sono rappresentate
dalla patologia monopolistica, riassorbita spesso dagli assalti della
concorrenza, ma indubbiamente bisognosa, oltre che delle capacità
di risanamento naturale, anche dell'appropriata terapia costituita
dal contesto nel quale i singoli fenomeni sorgono e maturano, perché
quelli negativi risultino marginali e possano essere più agevolmente
asportati dal quadro.
In queste condizioni, come c'è stata una mistica assoluta del
mercato, come c'è stata una demistificazione del mercato, come
c'è una patologia del mercato, così ci sono i limiti
del mercato.
Si possono citare a quest'ultimo riguardo tre nomi emblematici, e
cioè Keynes, Einaudi e Bresciani Turroni, secondo i quali il
mercato non può e non deve risolvere tutti i problemi economici
e sociali; ha bisogno dell'appoggio di altri sistemi integrativi anche
per risolvere quei particolari problemi che gli competono, ma, seppure
insufficiente, è necessario e lo resterà finché
non si dimostri il contrario, sperimentando qualche nuovo sistema
che lo sostituisca con vantaggio. E questa ricerca, come si sa, è
stata effettuata, con tutti i ripensamenti che ne sono derivati, anche
nei Paesi socialisti. D'altra parte, si sa, il mercato non è
un sistema immutabile, come dimostrano i cambiamenti intervenuti dal
1838, allorché fu fondata a Manchester la lega liberista con
tutti gli ideali di allora mutati nel corso del tempo.
Keynes, è noto, è stato uno dei più rigorosi
critici del mercato, ma non ne ha mai smentita la matrice, tant'è
che afferma che "la teoria classica moderna ha essa stessa richiamato
l'attenzione sulle diverse condizioni nelle quali il libero gioco
delle forze economiche deve venire moderato e guidato. Ma rimarrà
ancora gran campo all'esercizio delle iniziative e delle responsabilità
individuali. Entro questo campo i vantaggi tradizionali dell'individualismo
varranno ancora". Nella determinazione di questo campo, occorre
evitare le digressioni ideologiche, perché, sottolinea sempre
Keynes, "presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti,
che sono pericolose sia in bene che in male". E questa è
certamente una filosofia politica, prima ancora che economica, che
dovrebbe costituire certamente una misura più accreditata e
praticata di quanto non lo sia oggi.
Più perentorio è Einaudi quando afferma che "alle
eccezioni bisogna porre mano solo se sono una eccezione vera. L'eccezione
può anche diventare imponente senza abolire la regola della
libertà degli uomini di indirizzare la propria domanda nel
senso preferito individualmente da ciascuno di noi. Se diventasse
regola, ciò vorrebbe dire che noi accettiamo il principio che
gli uomini non possono più decidere essi quei che vogliono
acquistare, ma deciderebbe sempre qualcun altro. E' probabile invece
che la grande maggioranza degli uomini desideri spendere i mezzi che
possiede come meglio crede, senza lasciarsi dettare la legge da nessun
altro, ossia desideri la continuità del mercato, unico mezzo
finora scoperto per ottenere lo scopo. Ciò non esclude, ma
comporta un'attitudine pubblica attenta e pronto nell'intervenire,
quando il mercato si presenta con fenomeni e comportamenti patologici,
e comunque non coincidenti con l'interesse generale".
Afferma, ad esempio, Bresciani Turroni che non sempre i costi ed i
valori dal punto di vista individuale sono gli stessi di quelli considerati
dal punto di vista sociale. "Spesso il costo di una merce dal
punto di vista sociale è maggiore o minore del costo dal punto
di vista individuale o a parità di costi il valore sociale
diverge più o meno dal valore dal punto di vista individuale.
Quando una tale divergenza si verifica, la distribuzione delle risorse
del Paese fra i vari impieghi non è la migliore dal punto di
vista sociale, e perciò il prodotto sociale non è il
massimo possibile". Ma nessuna enfasi è da cogliere in
questa espressione del pensiero, tant'è che Bresciani Turroni
conclude che "resta il fatto confermato dal grande aumento della
ricchezza durante il XIX secolo che la iniziativa privata, quantunque
guardi anzitutto al profitto individuale, ha anche potentemente contribuito
alla prosperità generale. Compito dello Stato è quello
di correggere possibilmente le imperfezioni del mercato, quando si
verificano, senza sopprimerne il funzionamento".
Secondo Keynes, che ha avuto come sfondo di suoi significativi interventi
gli anni della grande crisi, bisogna chiamare in causa per risolvere
i grandi problemi la sfera privata e quella pubblica, da manovrare
con attività, coraggio ed iniziativa, per riuscire a sfruttare
pienamente le risorse, non avendo trovato sbocco al grande incremento
del potenziale produttivo ed alle energie nuove. Tutto ciò
costituisce un panorama generalmente diffuso, ma che in Italia trova
punte notevolmente emergenti, da risolvere in termini di crescenti
applicazioni ed innovazioni tecnologiche, di nuove forme di produrre,
di nuove e sempre più articolate allocazioni, in un generale
disegno di progresso che la normativa stessa è chiamata a secondare
e garantire. Di qui la circospezione ed anche la prontezza necessarie
in ogni intervento che abbia come punto di riferimento o come sbocco
il mercato, e ciò soprattutto quando il mercato stesso si accinge
ad assumere dimensioni sempre più vaste, culminando nel mercato
unico integrato ed essendo sempre condizionato dai vincoli e dai metri
internazionali.
Oggi come oggi abbiamo a che fare, anche nei Paesi più industrializzati,
con un sistema misto, nel quale il controllo economico è esercitato
di fatto dalle istituzioni pubbliche come da quelle private.
Scrive Samuelson che "il solo funzionamento del sistema economico
è una prova già di per sé convincente che un
sistema di concorrenza di mercati e prezzi -qualunque esso sia e per
quanto imperfettamente possa funzionare - non è un sistema
di caos o di anarchia. Vi sono in esso un certo ordine ed una regolarità.
Esso lavora. Il sistema di concorrenza è un meccanismo elaborato
di un coordinamento inconscio attraverso il sistema dei prezzi e dei
mercati, un espediente per mettere in comune il sapere e le attività
di milioni di individui diversi. Senza una guida centrale esso risolve
uno dei più complessi problemi che si possa immaginare, che
comporta migliaia di incognite e relazioni. Si è formato da
sé ed è mutevole come l'umana natura; ma almeno supera
la prima prova di ogni organizzazione sociale e riesce a sopravvivere".
Non si ha tuttavia a che fare con un'economia pura dei prezzi, ma
con un sistema misto nel quale gli elementi del controllo governativo
sono mescolati agli elementi del mercato, nell'organizzare la produzione
ed il consumo.
C'è pertanto la necessità di uno schema, nel quale l'iniziativa
privata può e deve funzionare, con la conseguenza che Samuelson
riassume nella seguente proposizione: "insieme alla spesa pubblica
ed all'imposizione i decreti servono da completamento al sistema dei
prezzi per determinare le condizioni economiche di un Paese".
Una funzione, dunque, concorrente e non schiacciante nel comune finalismo
del raggiungimento dello sviluppo economico, come conclude lo stesso
Samuelson, per il quale sarebbe inutile cercare di stabilire se sia
più importante l'iniziativa privata o quella pubblica, avendo
quest'ultima una serie preminente di responsabilità che non
sempre riesce - come il nostro panorama anche conferma - a disimpegnare.
E fin qui abbiamo cercato di richiamare alcuni punti di riferimento
che ci vengono da qualificate espressioni del pensiero economico d'oggi
a valere per la determinazione del comportamento pubblico, anche nella
particolare angolazione della difesa della concorrenza e delle definizioni
che di essa darà pure la nostra normativa.
Un altro presupposto vincolante è quelle dell'ancoraggio alla
nascente normativa comunitaria che discende dalle precise formulazioni
al riguardo del Trattato di Roma. la dialettica ha quindi un ampio
campo di fronte a sé, che è di confronti, di richiami,
di verifiche, perché il ruolo delle parti, pubblica e privata,
non sia alterato, nei contenuti e nei finalismi loro propri e che
non possono, non devono non coincidere.
La legge sulla difesa della concorrenza sarà pertanto un banco
di prova per un assetto che, per le ragioni ora dette, va oltre la
materia fin qui considerata o che ne forma lo specifico oggetto.
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