In una breve intervista
apparsa di recente sul settimanale "Milano Finanza", l'Amministratore
Delegato del Credito Italiano, Lucio Rondelli, nell'affrontare i problemi
legati al fenomeno della disintermediazione bancaria, afferma fra
le altre cose: "[ ... ] alle grandi imprese, sempre più
autonome per quel che riguarda la gestione di tesoreria e nei confronti
delle quali le banche hanno minore forza contrattuale nella definizione
dei tassi d'interesse sui prestiti, (le banche) stanno preferendo
le piccole e medie imprese..." (1).Senza nulla nascondere dietro
inutili sofismi letterari, Rondelli ammette ufficialmente che c'è
aria di divorzio fra la grande impresa e la banca, o, meglio, fra
la grande impresa, ristrutturata profondamente e tornata al profitto,
e il modo tradizionale di fare banca.
Questa posizione, d'altra parte, trova facile riscontro nelle analisi,
nei dibattiti e nelle strategie di gran parte del mondo bancario,
pubblico o privato che sia. Il fenomeno denunciato, del resto, è
sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare la particolare dinamica
del rapporto tra il credito bancario accordato e il credito utilizzato,
l'irrompere sulla scena del cosiddetto "tasso Fiat", inferiore
a quello che ormai solo per tradizione si continua a chiamare "prime
rate", ma soprattutto il manifestarsi di una forte spinta dell'industria
ad acquisire partecipazioni in intermediari finanziari già
esistenti ed a crearne di nuovi.
Sono fatti che parlano chiaro: nella grande impresa è entrato
in gioco, con un ruolo sempre più prepotentemente decisivo,
il fattore "Finanza", o fattore "F", come preferisce
abbreviare D. Taino. In un servizio per Mondo Economico l'autore ricorda,
in apertura, la storiella che si raccontava ai tempi di Raffaele Mattioli
sull'ambulante che vendeva caldarroste in Piazza della Scala, davanti
alla sede della Comit. Ad un amico che gli chiedeva un prestito di
mille lire rispondeva di non potere. L'amico ribatteva: "non
è che non puoi. La verità è che non vuoi".
"Non posso proprio - spiegava il venditore - Ho firmato un patto
con Raffaele Mattioli: lui si è impegnato a non vendere castagne
ed io a non prestare denaro". La storiella fa ridere ancora oggi,
nota l'autore, "...ma soprattutto perché è terribilmente
datata". Oggi, "... le banche si sono messe a vendere castagne
ed i caldarrostai a raccogliere, gestire e prestare denaro" (2).
Il cambiamento è importante, fondamentale ed avviato su basi
ormai solide, fra le quali l'innovazione finanziaria e lo sviluppo
della finanza d'impresa occupano un ruolo sicuramente di primo piano
e intorno alle quali credo sia opportuno svolgere alcune considerazioni.
L'innovazione finanziaria ha tratto forza propulsiva per il proprio
sviluppo da alcuni importanti cambiamenti prodottisi negli ultimi
anni nei mercati finanziari. Tra questi, i più importanti sono
comunemente indicati come volatilità, deregolamentazione, integrazione,
innovazione tecnologica, disintermediazione bancaria (3).
La "volatilità" è riferita innanzitutto ai
tassi di cambio. la crisi prima (fino al 1971) e lo scardinamento
poi (dal 1971 al 1973) del "gold exchange standard", provocarono,
infatti, il passaggio da un regime di cambi (troppo) fissi ad un regime
di cambi (troppo) flessibili. Il fatto fu accolto da numerosi economisti
come un progresso importante nelle relazioni economiche internazionali.
Tuttavia, alla luce di oltre un decennio di esperienza, la flessibilità,
contrariamente a quanto lasciassero sperare i suoi sostenitori, è
stata accompagnata da grande instabilità sul mercato dei cambi.
Gli stessi tassi di cambio hanno conosciuto movimenti molto più
ampi di quelli che le tendenze economiche di fondo e le differenze
nei tassi d'inflazione dei diversi Paesi avrebbero potuto giustificare.
Per quanto riguarda più direttamente gli operatori commerciali
e coloro che operano nel campo degli investimenti, a difficoltà
di prevedere con sufficiente certezza le diverse direzioni e l'ampiezza
dei movimenti di cambio nelle circostanze che abbiamo conosciuto dopo
il 1973, li costringe a sacrificare una parte delle loro risorse nel
tentativo di prevedere l'andamento dei tassi di cambio, a tutto svantaggio
delle risorse destinate a nuovi investimenti e alla ricerca di nuovi
mercati. La volatilità è riferita anche ai tassi d'interesse,
essenzialmente a causa delle difficoltà di coordinamento delle
politiche economiche nazionali dei principali Paesi industrializzati,
difficoltà che i numerosi summit economici dell'Occidente stentano
ad affrontare in maniera efficacemente risolutiva. E' riferita, infine,
alle quotazioni dei titoli, fenomeno quest'ultimo favorito dalla tendenza
all'internazionalizzazione dei portafogli mobiliari, all'accresciuta
mobilità dei capitali fra le principali piazze finanziarie
del mondo, ed alla rapidità di cambiamento delle decisioni
degli investitori istituzionali al variare delle aspettative sui diversi
mercati.
Il processo di "deregolamentazione" ha avuto luogo a partire
dai primi anni '60, coinvolgendo nella liberalizzazione sia gli intermediari
finanziari, sia le imprese, sia gli investitori. insieme alla crescente
integrazione economica ed alla internazionalizzazione degli intermediari
finanziari, la deregulation ha favorito lo sviluppo di un processo
di graduale "integrazione" dei mercati finanziari. Tale
integrazione, tuttavia, non è ancora universale: sono molte
le Nazioni che presentano tuttora delle misure volte a isolare i mercati
finanziari domestici. L'integrazione parziale dei mercati genera delle
opportunità e, al contempo, delle minacce per la concorrenza
fra le imprese dovute a possibili disparità di dimensione e
costo dei mezzi finanziari raccolti.
"L'innovazione tecnologica", attraverso lo sviluppo di moderni
sistemi di trasmissione e trattamento elettronico dei dati, se da
una parte ha favorito la messa a punto di nuovi prodotti e tecniche
di gestione, dall'altra ha consentito il collegamento e la circolazione
delle informazioni tra i diversi mercati a velocità e costi
molto ridotti rispetto al passato. Ciò ha favorito di conseguenza
la formazione di un unico mercato mondiale delle negoziazioni internazionali,
i cui rischi sono stati violentemente sottoposti all'attenzione del
mondo intero nell'ormai famoso "lunedì nero" delle
borse mondiali, il 19 ottobre 1987. Sono in molti a ritenere che la
globalizzazione dei mercati e l'utilizzo delle nuove tecnologie nei
programmi automatici di vendite e soprattutto nella trasmissione in
tempo reale delle informazioni finanziarie, abbiano favorito la diffusione
del panico e del ribasso in tutto il mondo. Il crollo del 1929 a Wall
Street aveva impiegato un anno prima di arrivare con i suoi effetti
in Europa. Nell'ottobre 1987 ci ha messo solo 12 ore (4).

Quello della "disintermediazione bancaria" è un fenomeno
ampiamente e da più parti dibattuto per le profonde implicazioni
che da esso derivano. Esso consiste, da un lato, in una graduale sostituzione
degli intermediari bancari con altri intermediari finanziari specializzati.
Basti pensare alla nascita e allo sviluppo di società di leasing
e di factoring, il cui numero e i cui volumi sono cresciuti negli
ultimi anni a ritmi vertiginosi; alle gestioni fiduciarie, che pure
hanno conosciuto una crescita dimensionale senza precedenti; ai fondi
comuni di investimento mobiliare, istituiti dalla legge n' 77 dell'83
e letteralmente esplosi con il boom borsistico iniziato nella seconda
metà dell'84. Dall'altro lato, la disintermediazione bancaria
consiste in un progressivo avvicinamento delle imprese prenditrici
di fondi agli investitori, favorito soprattutto dalla cosiddetta "securitisation"
(mobiliarizzazione) del credito che ha reso possibili transazioni
in cui i maggiori rischi comportati da accordi internazionali, a livello
di valuta, tassi di interesse e credito, possono essere disaggregati
e affrontati separatamente. Si verifica, di conseguenza, una trasformazione
del rapporto di intermediazione depositi impieghi in una funzione
di intermediazione mobiliare.
Secondo una schematizzazione fornita dalla Banca dei Regolamenti Internazionali,
l'innovazione finanziaria mira a soddisfare le seguenti esigenze:
trasferimento a terzi del rischio di credito; copertura del rischio
di prezzo e di tasso; miglioramento della gestione della liquidità;
minimizzazione del costo della raccolta ed aumento delle possibilità
di accedere al credito; miglioramento, infine, della struttura del
passivo elevando i mezzi propri delle imprese. A volte, però,
l'innovazione finanziaria, più intensa in periodi di forte
turbolenza ambientale, mira più semplicemente a soddisfare
l'esigenza di aggirare regolamentazioni restrittive in materia fiscale,
valutaria e monetaria.
Il secondo fattore rilevante nel cambiamento del rapporto banca/impresa
è rappresentato dalla crescita e dal nuovo ruolo assunto dalla
"finanza d'impresa" (5).
Negli anni che hanno preceduto la prima crisi petrolifera del 1973/74,
il ruolo della finanza aziendale era sicuramente secondario nell'ambito
delle gestioni d'impresa. Infatti, cambi stabili e tassi d'interesse
bassi e sostanzialmente costanti, legati ad un'inflazione molto ridotta,
rendevano l'ambiente in cui l'impresa operava trasparente e prevedibile.
La crisi petrolifera, voluta dall'OPEC, provocò una brusca
impennata del costo delle materie prime e dell'inflazione, portando
di conseguenza ad una generalizzata applicazione di politiche monetarie
restrittive, con rincari massicci del costo del denaro ed effetti
dirompenti ed imprevedibili nel rapporto di cambio delle monete. Le
imprese si accorsero che una insufficiente attenzione finanziaria
ad alcuni problemi aziendali, essenzialmente legati alla gestione
del denaro, divenuto improvvisamente una risorsa rara e costosa, poteva
costituire la differenza decisiva tra utile e perdita di gestione.
Insieme ad altre importanti funzioni aziendali, quali la produzione,
la finanza d'impresa è stata sicuramente una delle aree dove
maggiormente si sono manifestate quelle che G. Galateri, amministratore
delegato dell'IFIL, ha definito "rivoluzioni efficenziali"
(6) e che hanno determinato l'uscita delle imprese industriali dal
tunnel della crisi nel quale erano state spinte dai difficili anni
'70. Ma non solo. Oggi, molte imprese hanno intuito l'importanza strategica
che può avere la finanza se utilizzata come strumento a supporto
delle ordinarie attività di acquisto e di vendita, entrando
in diretta concorrenza con i tradizionali operatori finanziari. La
disponibilità del bene, abbinata alla facilità di ottenere
il finanziamento, fa premio sul costo dello stesso (7). In obbedienza
a questo principio, per fare un esempio, la Fiat e l'Olivetti hanno
costituito apposite società di leasing, di factoring e di credito
al consumo, ottenendo il doppio risultato di immettere "cash
in the pipeline" per facilitare le vendite di beni durevoli e
di largo consumo, e di diversificare in funzione anticiclica la produzione
di Utili (8). Su un diverso versante, per fare un altro esempio, la
Pirelli e la Montedison hanno messo a punto strutture autonome di
tesoreria altamente sofisticate, che possono considerarsi delle vere
e proprie banche, operanti all'interno dei rispettivi gruppi industriali,
in quanto autonomamente in grado di intermediare flussi finanziari
fra le loro società controllate o di operare sui mercati monetari.
I processi evolutivi ora richiamati evidenziano l'irreversibilità
delle trasformazioni in atto nel rapporto banca/impresa. la banca
deve adeguare organizzazione, strutture e strategie alla tendenza
del settore imprese a riqualificare le proprie esigenze finanziarie
e a sviluppare una domanda sempre più diversificata, specialistica
ed esigente e sempre meno espressione di una controparte sostanzialmente
indistinta, bensì di una controparte caratterizzata al proprio
interno da esigenze, strutture ed obiettivi diversi.
E' evidente il processo in atto di ridefinizione e riqualificazione
del ruolo dell'intermediario all'interno dei circuiti di finanziamento,
che valorizza ma non subisce i contenuti tradizionali dell'intermediazione.
La reazione dei singoli sistemi bancari nazionali alle sollecitazioni
provenienti dal settore imprese si è finora dimostrata non
univoca. L'esempio americano è forse quello più pregnante
dal punto di vista dello sviluppo di nuovi servizi, mentre l'esempio
giapponese è quello più interessante dal punto di vista
della filosofia dei rapporti fra banca e impresa. Questi due soggetti
economici hanno raggiunto un grado di integrazione sconosciuto agli
altri Paesi industrializzati, che si manifesta in molti aspetti, di
cui quello più importante è rappresentato dalla globalità
del supporto offerto dalla banca all'attività dell'impresa.
La situazione del sistema bancario italiano, per quanto concerne questi
aspetti, è generalmente giudicata carente dal mondo delle imprese,
anche se le ragioni di questa carenza risiedono probabilmente nelle
specificità istituzionali in cui il nostro sistema bancario
si trova ad operare (9).
La trasformazione di cultura, di strategia e di organizzazione aziendale
necessarie alla banca per rispondere alle sfide in atto, costituisce
un tema di grandissima attualità e di notevole interesse. Tuttavia,
per ovvi motivi di spazio, non è possibile occuparsene in questa
sede. Seguendo l'originaria impostazione del discorso, invece, dopo
aver indicato le principali linee evolutive del processo di avvicinamento
tra grande impresa e risparmio e di allontanamento tra la prima e
la banca, qualche ulteriore riflessione va a quella parte del settore
impresa che Rondelli (ma non solo lui!) ha indicato quale elemento
centrale della strategia di risposta ai cambiamenti descritti: la
media e la piccola impresa.
Ebbene, se è vero che l'innovazione finanziaria e lo sviluppo
della finanza azienda le sono fenomeni da riferire essenzialmente
alla grande impresa, sempre più autonoma dal credito bancario
come eloquentemente dimostrato dalle frequenti statistiche della Banca
d'Italia, va detto, tuttavia, che la media e piccola impresa è
anch'essa interessato da alcuni profili dell'innovazione finanziaria
che mirano a favorirne la nascita, lo sviluppo, il finanziamento con
capitale di rischio. Intendo riferirmi al ventur capital, al recente
provvedimento del CICR sul merchant banking, ai progetti di legge
per l'istituzione nel nostro Paese dei Fondi di investimento mobiliare
"chiusi", alla riforma del mercato Ristretto. Il riferimento
non è, naturalmente, esaustivo e si limita a richiamare quegli
aspetti dell'innovazione finanziaria di maggiore interesse delle imprese
minori, almeno nelle potenzialità che essi esprimono.
Il "ventur capital" è un investimento, a carattere
temporaneo e minoritario, in piccole e medie imprese o in nuove iniziative,
con caratteristiche innovative e ad alto potenziale di crescita. L'obiettivo
è quello di realizzare un elevato profitto all'atto del disinvestimento.
Il carattere forse più distintivo delle società di ventur
capital è dato dall'enfasi posta sul contenuto innovativo dell'impresa
finanziata, contenuto che ne garantirebbe in buono misura il successo
(10).
La capacità innovativa è più frequentemente di
tipo tecnologico e legata alla ricerca, ma può trattarsi anche
di un'innovazione commerciale ed organizzativa che crea le condizioni
per vendere in modo diverso o più efficiente prodotti già
noti. E' evidente l'importanza che ha nel nostro sistema industriale,
basato su un gran numero di medie e piccole imprese, lo sviluppo di
questo tipo di investimento che, oltre a favorire l'allargamento della
base produttiva del Paese, ne promuove anche lo sviluppo tecnologico.
L'esperienza italiana nel settore non è, tuttavia, soddisfacente,
per ragioni legate sia alla domanda che all'offerta e probabilmente
riassumibili nella considerazione che l'attività finanziaria,
come la natura, "non facit saltus", nel senso che lo sviluppo
di un'istituzione avanzata come le società di ventur capital
è ipotizzabile seriamente soltanto in un ambiente che sia altrettanto
avanzato e ricco di strumenti e istituzioni concorrenti e complementari.
Per ora, in Italia, il ventur capital è ancora in una fase
embrionale del proprio sviluppo e, soprattutto, quasi del tutto assente
dagli investimenti in cui più elevato è la sua utilità
specifica, vale a dire la fase di "start up" di nuove aziende,
ovvero la fase durante la quale l'idea iniziale si trasforma in una
vera azienda (11).
In questo settore è tuttavia presente anche la grande impresa,
quella tecnologicamente avanzata, che pratica il "captive ventur
capital", dove l'investimento in questa forma ha lo scopo di
esercitare un certo controllo sulle iniziative innovative che appaiono
nel proprio settore.
L'attività di "merchant banking" di derivazione bancaria
ha ottenuto il via libera grazie ad una recente delibera del CICR
(6/2/87) e ad un successivo regolamento della Banca d'Italia (11/3/87).
Questi provvedimenti sono stati sollecitati dalle banche di credito
ordinario, allo scopo di eliminare un loro "stato d'inferiorità"
rispetto a quanto era già prima concesso agli Istituti di credito
speciale e giungono dopo anni di dibattiti e vani tentativi per fissare
una disciplina legislativa della materia in questione.
Sul piano operativo, punto centrale dell'attività delle merchant
banks è la possibilità di assumere partecipazioni societarie
di minoranza, che non comportino comunque il controllo dell'impresa,
a carattere temporaneo e finalizzate al loro classamento, anche mediante
l'ingresso delle imprese emittenti nei mercati ufficiali dei capitali.
Esse possono svolgere altresì attività di consulenza
e assistenza rivolta all'area delle problematiche economico/finanziarie
d'impresa e, inoltre, organizzare operazioni per il reperimento di
fondi a titolo di capitale di credito e/o di rischio.
Mentre le società di ventur capital indirizzano i propri investimenti
in imprese di nuova costituzione o che comunque abbiano di recente
introdotto prodotti e processi innovativi che lascino sperare in un
rapido sviluppo, come più avanti ricordato, le merchant banks
preferiscono, invece, assumere partecipazioni in imprese già
di una certa dimensione e collaudate anche dal punto di vista produttivo
e della posizione di mercato. In un certo senso, quindi, l'attività
di questi due tipi di investitori è complementare e non concorrenziale.
Infatti, spesso le società di ventur capital trovano nelle
merchant banks un canale di disinvestimento delle partecipazioni che,
per aver terminato la fase di crescita rapida, non sono più
considerate interessanti, ma che per la maggiore consistenza patrimoniale
o finanziaria raggiunta cominciano ad esserlo per le merchant banks.
Ancora aperto è, invece, il dibattito sull'istituzione nel
nostro Paese dei Fondi Chiusi. uno strumento che al di fuori dei nostri
confini, negli USA, in Inghilterra, in Francia, opera ormai da parecchio
tempo. In Parlamento esistono in proposito tre diverse proposte di
legge, di diversa matrice politica, una DC, una PSI, una PCI. Obiettivo
comune è quello di disciplinare la nascita di un nuovo tipo
di Fondi comuni, che a differenza di quelli esistenti possano investire
in società non quotate e in particolare nelle piccole e medie
imprese, escluse dal mercato azionario. Si punta, cioè, a creare
un canale attraverso il quale dirigere una componente del risparmio
delle famiglie verso imprese di piccole e medie dimensioni che, esclude
dal circuito finanziario della Borsa, presentano rapporti medi di
indebitamento elevati rispetto ai mezzi propri. Gli investimenti saranno
pertanto effettuati con il denaro raccolto attraverso l'emissione
di quote. Poiché le emissioni sono limitate, i Fondi si definiranno
chiusi.
Negli orientamenti prevalenti in questa fase delle discussioni parlamentari,
i nuovi strumenti di investimento dovranno essere quotati in Borsa
e le quote potranno essere liberamente scambiate. I certificati di
partecipazione non potranno però essere presentati alla società
gerente per il rimborso, per cui il sottoscrittore che intende liquidare
il proprio investimento dovrà vendere i certificati sui mercati
(Borsa o Ristretto) dove saranno trattati ufficialmente.
Pertanto, considerando che le società di ventur capital non
hanno, nel nostro Paese, sufficienti incentivi per investire in piccole
imprese prive di specifici connotati innovativi e che le merchant
banks puntano, da parte loro, su una fascia medio/grande d'imprese,
meno rischiose e quotabili in tempi relativamente brevi, è
necessario che i Fondi chiusi, per avere un loro specifico ruolo nel
mercato finanziario, si orientino ad investire in quella fascia residua
di piccole imprese che non rientra negli obiettivi tipici di altri
investitori istituzionali. Ciò è importante per evitare
inutili doppioni negli strumenti di intervento a favore delle medie
e piccole imprese, ed inoltre per evitare che parte di una delle forze
più dinamiche della nostra economia resti tagliata fuori da
questo importante processo di innovazione finanziaria. Salvo, naturalmente,
il ruolo svolto in questo senso dalle banche, soprattutto quelle locali,
come più avanti vedremo.
A proposito della riforma del Ristretto, avviata operativamente il
1° luglio '87, non è eccessivo affermare che, se grandi
furono le speranze, altrettanto grandi sono state le delusioni.
I punti centrali della riforma sono stati i seguenti: le operazioni,
da settimanali, diventano quotidiane; la negoziazione dei titoli avviene
col sistema del contante a termine (10 giorni); per essere ammessa
al Ristretto è sufficiente che una società abbia un
capitale di un miliardo (prima erano 10), possa esibire l'ultimo bilancio
in utile (prima ci si riferiva agli ultimi tre) e abbia collocato
fra il pubblico almeno il 10% delle azioni (prima il 25%). l'obiettivo,
nelle parole del Presidente del Comitato del Ristretto, L. Gaudenzi,
era quello di offrire una grande occasione alle piccole imprese, accogliendo
i loro titoli nel listino e mettendo a loro disposizione un luogo
al quale rivolgersi per raccogliere capitali a basso costo (12).
Ebbene, ad un anno di distanza dall'avvio della riforma, si può
ragionevolmente affermare che, se è vero che c'è, la
riforma, sicuramente non si vede: il "mercatino" non va,
non riesce a decollare nonostante tutto. L'obiettivo di quotare e
finanziare con capitale di rischio le imprese medio/piccole non è
stato raggiunto, almeno per questa via.
Probabilmente, tale insuccesso è legato a problemi di concentrazione
degli scambi nei mercati ufficiali e di trasparenza delle operazioni
non ancora risolti; di scarse possibilità di scelta offerte
agli investitori da un listino che, lui sì, è veramente
"ristretto"; di eccessiva presenza di titoli di banche Popolari,
non trasferibili per girata e con pesanti limiti nei quantitativi
detenibili dai singoli soci. Sicuramente, però, in molti casi
vi è ancora un problema di cultura, più mercantile che
imprenditoriale, degli imprenditori locali, di loro chiusura verso
l'esterno, di difficoltà, da parte di molti di essi, ad accettare
novità finanziarie che in fin dei conti si risolvono in un'imposizione
a rendere pubblici i bilanci ed a creare un flottante che li espropria
di una parte del potere personale sulla propria azienda.
In altri sistemi finanziari, più avanzati sotto il profilo
dell'articolazione degli intermediari, la creazione di mercati simili
al nostro Ristretto si è rivelata uno strumento indispensabile
per lo sviluppo di nuove figure di investitori istituzionali (merchant
banks, Fondi chiusi) in quanto consentono lo smobilizzo delle partecipazioni
e l'indispensabile turnover dei loro portafogli di attività.
In conclusione delle considerazioni sin qui svolte, possiamo dire
che dato caratterizzante degli ultimi anni è stato, nel panorama
finanziario, il ruolo fondamentale svolto dalla grande impresa nel
modificare i termini qualitativi e quantitativi della tradizionale
attività di intermediazione finanziaria. La media e piccola
impresa non ha saputo e potuto fare altrettanto, ma, in compenso,
è riuscita ad attirare intorno a sé un gran numero ed
una notevole varietà di pretendenti, desiderosi di assisterla
in tutte le fasi del proprio sviluppo, dalla nascita alla quotazione
in Borsa. Questo significa, per riprendere l'iniziale affermazione
di Rondelli, che nella corsa alla media e piccola impresa la banca
non è sola. Il suo compito, pertanto, non è facile.
La concorrenza è numerosa, qualificata ed in aumento.
La banca avanza alla media/piccola impresa offerte di "matrimonio".
Dico offerte per non dire promesse: il termine riecheggia difficoltà
di manzoniana memoria. Battuta a parte, non mi pare azzardato aggiungere
che, tra i tanti pretendenti, la media e piccola impresa possa trovare
il proprio partner finanziario ideale proprio nelle banche locali.
In futuro, infatti, le banche dovranno offrire alle imprese una gamma
di servizi sempre più completa ed a carattere innovativo, ma
soprattutto dovranno offrire una più incisiva attività
di consulenza finanziaria. Se questo è vero, come è
vero, diventa di importanza cruciale il ruolo svolto dalle banche
locali, istituzionalmente più vicine alle esigenze delle piccole
e medie imprese.
L'affermazione trova autorevole conforto negli interventi e nelle
conclusioni del convegno svoltosi ad Assisi il 10/11 ottobre 1986
sul tema "Innovazione finanziaria, Banche locali e Imprese minori",
organizzato dalla Facoltà di Economia -e Commercio dell'Università
degli Studi di Perugia. Considerati gli interessanti spunti che offrono
per ulteriori approfondimenti sull'argomento affrontato in questa
sede, vorrei ricordare, soprattutto, alcune importanti riflessioni
svolte nell'occasione dal Prof. Sergio Corallini, Ordinario di Tecnica
Bancaria e Professionale nell'Università di Perugia.
Egli evidenzia anzitutto come per alcune banche locali di piccole
dimensioni si ponga la necessità di una crescita dimensionale
che consenta loro di acquisire potenzialità strutturali ed
organizzative capaci di mantenerle ancorate al cambiamento dei mercati
ed al processo di sviluppo dell'economia locale, notando, tuttavia,
come deregulation e despecializzazione favoriscano le necessarie spinte
aggreganti, nel senso che attenuano alcune ragioni di esasperato e
malinteso localismo. Superati i problemi dimensionali, il ruolo delle
banche locali uscirà esaltato dal processo evolutivo in atto,
anche perché, continua lo studioso, se è vero che determinate
aree di attività sono precluse alle banche al di sotto di una
dimensione minima, è altrettanto vero che l'attuazione di strategie
di segmentazione verso determinate categorie di operatori e tipi di
operazioni, nonché di differenziazione del prodotto, sono precluse
a livello di dimensioni elevate.
Tali strategie costituiscono per le banche minori una scelta da non
abbandonare, ma anzi da accentuare in un mix adeguato alle mutevoli
condizioni di mercato. Esse potranno dare buoni risultati soprattutto
nei servizi personalizzati ad alta qualità e ad elevato "contenuto
umano". Nell'ambito degli sforzi tesi ad offrire una gamma completa
di servizi personalizzati alle stesse condizioni di prezzo dei servizi
standard ed a rendere effettivamente trasparente a tutti i livelli
il rapporto con il cliente, accrescendone la portata fiduciaria; nel
quadro più generale di un mercato che si sta evolvendo in un
"mercato del compratore", dove costi e qualità dei
servizi offerti, trasparenza dei prezzi, personalizzazione del servizio
e più in generale dell'intero rapporto diventeranno sempre
più di importanza strategica, la banca locale beneficia, secondo
il parere del Prof. Corallini, di spazi e possibilità maggiori
rispetto alle grandi banche.
Anche il radicale cambiamento di "geografia delle imprese"
e la nascita di nuovi poli di sviluppo in aree diverse da quelle tradizionali
sembrano privilegiare le banche locali, le quali -in fase di liberalizzazione
dell'attività bancaria in chiave imprenditoriale - possono
dare risposte efficaci alla domanda sia di credito commerciale che
di servizi e in generale di consulenza. Concludendo, l'autore proietta
la propria analisi sino ai cruciali anni '90, che beneficeranno di
un assetto bancario meno frammentario, più evoluto e efficiente,
poggiato su una molteplicità di aziende, in larga parte locali,
di dimensioni minime accresciute rispetto alle attuali. In tale contesto,
le banche locali rimarranno protagoniste ed amplieranno il loro -ruolo
fondamentale a vantaggio delle economie in cui operano (13).
Note
1) TAMBURELLO S., "Parla Rondelli: parola d'ordine diversificare",
in Milano Finanza, 25/30 aprile 1988, n. 17, p. 13.
2) TAINO D., "Il fattore "F" nelle imprese", in
Mondo Economico, 4 maggio 1987, n. 17, pp. 80-83.
3) BOMBONATO C., BAROZZI E., TERZI V., "L'innovazione finanziaria
tra impresa e banca", in L'Impresa, n. 3/1987, pp. 45-53.
4) CECCHINI M., SECCHI G., "E quel lunedì andò
in crisi il villaggio globale", in Milano Finanza, 11/16 aprile
1988, n. 14, p. 60.
5) RUOZI R., ALBERICI A., CORIGLIANO R., DE LAURENTIS G., PREDA S.,
CARRETTA A., PREVIATI D., BASILE E., PONTIGGIA C., CLARIZIA R., "Nuova
finanza -rapporto mese", in Mondo Economico, 12 maggio 1986,
pp. 43-72, n. 18.
6) GALATERI G., "Obiettivo: efficienza finanziaria", in
L'Impresa, n. 3/87, pp. 17-22.
7) PLATERO M., "In USA sette su dieci fanno compere senza soldi",
in Mondo Economico, 1 dicembre 1986, n° 47, pp. 85-86.
8) Cfr. nota n. 3.
9) CASSESE S., "E' ancora attuale la legge bancaria del 1936?",
La Nuova Italia Scientifica, Roma, maggio 1987, p. 11 e segg.
10) BONESCHI M., "Il triangolo d'oro del Ventur Capital",
Italia Oggi, 27 aprile 1987.
11) PREDA S., "Vita dura per il ventur capital in Italia",
in L'Impresa, n° 3/87, pp. 56-60.
12) GUADALUPI E., "Una grande occasione per le piccole imprese
(intervista a Leonida Gaudenzi)", in Mondo Economico, 6 luglio
87, n. 26, pp. 76-77.
13) CORALLINI S., "Le banche locali nel processo di innovazione
finanziaria", relazione al Convegno citato nel testo.