§ Banca & impresa

Divorzio in atto matrimonio in vista




Donato Carbone



In una breve intervista apparsa di recente sul settimanale "Milano Finanza", l'Amministratore Delegato del Credito Italiano, Lucio Rondelli, nell'affrontare i problemi legati al fenomeno della disintermediazione bancaria, afferma fra le altre cose: "[ ... ] alle grandi imprese, sempre più autonome per quel che riguarda la gestione di tesoreria e nei confronti delle quali le banche hanno minore forza contrattuale nella definizione dei tassi d'interesse sui prestiti, (le banche) stanno preferendo le piccole e medie imprese..." (1).Senza nulla nascondere dietro inutili sofismi letterari, Rondelli ammette ufficialmente che c'è aria di divorzio fra la grande impresa e la banca, o, meglio, fra la grande impresa, ristrutturata profondamente e tornata al profitto, e il modo tradizionale di fare banca.
Questa posizione, d'altra parte, trova facile riscontro nelle analisi, nei dibattiti e nelle strategie di gran parte del mondo bancario, pubblico o privato che sia. Il fenomeno denunciato, del resto, è sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare la particolare dinamica del rapporto tra il credito bancario accordato e il credito utilizzato, l'irrompere sulla scena del cosiddetto "tasso Fiat", inferiore a quello che ormai solo per tradizione si continua a chiamare "prime rate", ma soprattutto il manifestarsi di una forte spinta dell'industria ad acquisire partecipazioni in intermediari finanziari già esistenti ed a crearne di nuovi.
Sono fatti che parlano chiaro: nella grande impresa è entrato in gioco, con un ruolo sempre più prepotentemente decisivo, il fattore "Finanza", o fattore "F", come preferisce abbreviare D. Taino. In un servizio per Mondo Economico l'autore ricorda, in apertura, la storiella che si raccontava ai tempi di Raffaele Mattioli sull'ambulante che vendeva caldarroste in Piazza della Scala, davanti alla sede della Comit. Ad un amico che gli chiedeva un prestito di mille lire rispondeva di non potere. L'amico ribatteva: "non è che non puoi. La verità è che non vuoi". "Non posso proprio - spiegava il venditore - Ho firmato un patto con Raffaele Mattioli: lui si è impegnato a non vendere castagne ed io a non prestare denaro". La storiella fa ridere ancora oggi, nota l'autore, "...ma soprattutto perché è terribilmente datata". Oggi, "... le banche si sono messe a vendere castagne ed i caldarrostai a raccogliere, gestire e prestare denaro" (2).
Il cambiamento è importante, fondamentale ed avviato su basi ormai solide, fra le quali l'innovazione finanziaria e lo sviluppo della finanza d'impresa occupano un ruolo sicuramente di primo piano e intorno alle quali credo sia opportuno svolgere alcune considerazioni.
L'innovazione finanziaria ha tratto forza propulsiva per il proprio sviluppo da alcuni importanti cambiamenti prodottisi negli ultimi anni nei mercati finanziari. Tra questi, i più importanti sono comunemente indicati come volatilità, deregolamentazione, integrazione, innovazione tecnologica, disintermediazione bancaria (3).
La "volatilità" è riferita innanzitutto ai tassi di cambio. la crisi prima (fino al 1971) e lo scardinamento poi (dal 1971 al 1973) del "gold exchange standard", provocarono, infatti, il passaggio da un regime di cambi (troppo) fissi ad un regime di cambi (troppo) flessibili. Il fatto fu accolto da numerosi economisti come un progresso importante nelle relazioni economiche internazionali. Tuttavia, alla luce di oltre un decennio di esperienza, la flessibilità, contrariamente a quanto lasciassero sperare i suoi sostenitori, è stata accompagnata da grande instabilità sul mercato dei cambi. Gli stessi tassi di cambio hanno conosciuto movimenti molto più ampi di quelli che le tendenze economiche di fondo e le differenze nei tassi d'inflazione dei diversi Paesi avrebbero potuto giustificare. Per quanto riguarda più direttamente gli operatori commerciali e coloro che operano nel campo degli investimenti, a difficoltà di prevedere con sufficiente certezza le diverse direzioni e l'ampiezza dei movimenti di cambio nelle circostanze che abbiamo conosciuto dopo il 1973, li costringe a sacrificare una parte delle loro risorse nel tentativo di prevedere l'andamento dei tassi di cambio, a tutto svantaggio delle risorse destinate a nuovi investimenti e alla ricerca di nuovi mercati. La volatilità è riferita anche ai tassi d'interesse, essenzialmente a causa delle difficoltà di coordinamento delle politiche economiche nazionali dei principali Paesi industrializzati, difficoltà che i numerosi summit economici dell'Occidente stentano ad affrontare in maniera efficacemente risolutiva. E' riferita, infine, alle quotazioni dei titoli, fenomeno quest'ultimo favorito dalla tendenza all'internazionalizzazione dei portafogli mobiliari, all'accresciuta mobilità dei capitali fra le principali piazze finanziarie del mondo, ed alla rapidità di cambiamento delle decisioni degli investitori istituzionali al variare delle aspettative sui diversi mercati.
Il processo di "deregolamentazione" ha avuto luogo a partire dai primi anni '60, coinvolgendo nella liberalizzazione sia gli intermediari finanziari, sia le imprese, sia gli investitori. insieme alla crescente integrazione economica ed alla internazionalizzazione degli intermediari finanziari, la deregulation ha favorito lo sviluppo di un processo di graduale "integrazione" dei mercati finanziari. Tale integrazione, tuttavia, non è ancora universale: sono molte le Nazioni che presentano tuttora delle misure volte a isolare i mercati finanziari domestici. L'integrazione parziale dei mercati genera delle opportunità e, al contempo, delle minacce per la concorrenza fra le imprese dovute a possibili disparità di dimensione e costo dei mezzi finanziari raccolti.
"L'innovazione tecnologica", attraverso lo sviluppo di moderni sistemi di trasmissione e trattamento elettronico dei dati, se da una parte ha favorito la messa a punto di nuovi prodotti e tecniche di gestione, dall'altra ha consentito il collegamento e la circolazione delle informazioni tra i diversi mercati a velocità e costi molto ridotti rispetto al passato. Ciò ha favorito di conseguenza la formazione di un unico mercato mondiale delle negoziazioni internazionali, i cui rischi sono stati violentemente sottoposti all'attenzione del mondo intero nell'ormai famoso "lunedì nero" delle borse mondiali, il 19 ottobre 1987. Sono in molti a ritenere che la globalizzazione dei mercati e l'utilizzo delle nuove tecnologie nei programmi automatici di vendite e soprattutto nella trasmissione in tempo reale delle informazioni finanziarie, abbiano favorito la diffusione del panico e del ribasso in tutto il mondo. Il crollo del 1929 a Wall Street aveva impiegato un anno prima di arrivare con i suoi effetti in Europa. Nell'ottobre 1987 ci ha messo solo 12 ore (4).


Quello della "disintermediazione bancaria" è un fenomeno ampiamente e da più parti dibattuto per le profonde implicazioni che da esso derivano. Esso consiste, da un lato, in una graduale sostituzione degli intermediari bancari con altri intermediari finanziari specializzati. Basti pensare alla nascita e allo sviluppo di società di leasing e di factoring, il cui numero e i cui volumi sono cresciuti negli ultimi anni a ritmi vertiginosi; alle gestioni fiduciarie, che pure hanno conosciuto una crescita dimensionale senza precedenti; ai fondi comuni di investimento mobiliare, istituiti dalla legge n' 77 dell'83 e letteralmente esplosi con il boom borsistico iniziato nella seconda metà dell'84. Dall'altro lato, la disintermediazione bancaria consiste in un progressivo avvicinamento delle imprese prenditrici di fondi agli investitori, favorito soprattutto dalla cosiddetta "securitisation" (mobiliarizzazione) del credito che ha reso possibili transazioni in cui i maggiori rischi comportati da accordi internazionali, a livello di valuta, tassi di interesse e credito, possono essere disaggregati e affrontati separatamente. Si verifica, di conseguenza, una trasformazione del rapporto di intermediazione depositi impieghi in una funzione di intermediazione mobiliare.
Secondo una schematizzazione fornita dalla Banca dei Regolamenti Internazionali, l'innovazione finanziaria mira a soddisfare le seguenti esigenze: trasferimento a terzi del rischio di credito; copertura del rischio di prezzo e di tasso; miglioramento della gestione della liquidità; minimizzazione del costo della raccolta ed aumento delle possibilità di accedere al credito; miglioramento, infine, della struttura del passivo elevando i mezzi propri delle imprese. A volte, però, l'innovazione finanziaria, più intensa in periodi di forte turbolenza ambientale, mira più semplicemente a soddisfare l'esigenza di aggirare regolamentazioni restrittive in materia fiscale, valutaria e monetaria.
Il secondo fattore rilevante nel cambiamento del rapporto banca/impresa è rappresentato dalla crescita e dal nuovo ruolo assunto dalla "finanza d'impresa" (5).
Negli anni che hanno preceduto la prima crisi petrolifera del 1973/74, il ruolo della finanza aziendale era sicuramente secondario nell'ambito delle gestioni d'impresa. Infatti, cambi stabili e tassi d'interesse bassi e sostanzialmente costanti, legati ad un'inflazione molto ridotta, rendevano l'ambiente in cui l'impresa operava trasparente e prevedibile.
La crisi petrolifera, voluta dall'OPEC, provocò una brusca impennata del costo delle materie prime e dell'inflazione, portando di conseguenza ad una generalizzata applicazione di politiche monetarie restrittive, con rincari massicci del costo del denaro ed effetti dirompenti ed imprevedibili nel rapporto di cambio delle monete. Le imprese si accorsero che una insufficiente attenzione finanziaria ad alcuni problemi aziendali, essenzialmente legati alla gestione del denaro, divenuto improvvisamente una risorsa rara e costosa, poteva costituire la differenza decisiva tra utile e perdita di gestione.
Insieme ad altre importanti funzioni aziendali, quali la produzione, la finanza d'impresa è stata sicuramente una delle aree dove maggiormente si sono manifestate quelle che G. Galateri, amministratore delegato dell'IFIL, ha definito "rivoluzioni efficenziali" (6) e che hanno determinato l'uscita delle imprese industriali dal tunnel della crisi nel quale erano state spinte dai difficili anni '70. Ma non solo. Oggi, molte imprese hanno intuito l'importanza strategica che può avere la finanza se utilizzata come strumento a supporto delle ordinarie attività di acquisto e di vendita, entrando in diretta concorrenza con i tradizionali operatori finanziari. La disponibilità del bene, abbinata alla facilità di ottenere il finanziamento, fa premio sul costo dello stesso (7). In obbedienza a questo principio, per fare un esempio, la Fiat e l'Olivetti hanno costituito apposite società di leasing, di factoring e di credito al consumo, ottenendo il doppio risultato di immettere "cash in the pipeline" per facilitare le vendite di beni durevoli e di largo consumo, e di diversificare in funzione anticiclica la produzione di Utili (8). Su un diverso versante, per fare un altro esempio, la Pirelli e la Montedison hanno messo a punto strutture autonome di tesoreria altamente sofisticate, che possono considerarsi delle vere e proprie banche, operanti all'interno dei rispettivi gruppi industriali, in quanto autonomamente in grado di intermediare flussi finanziari fra le loro società controllate o di operare sui mercati monetari.
I processi evolutivi ora richiamati evidenziano l'irreversibilità delle trasformazioni in atto nel rapporto banca/impresa. la banca deve adeguare organizzazione, strutture e strategie alla tendenza del settore imprese a riqualificare le proprie esigenze finanziarie e a sviluppare una domanda sempre più diversificata, specialistica ed esigente e sempre meno espressione di una controparte sostanzialmente indistinta, bensì di una controparte caratterizzata al proprio interno da esigenze, strutture ed obiettivi diversi.
E' evidente il processo in atto di ridefinizione e riqualificazione del ruolo dell'intermediario all'interno dei circuiti di finanziamento, che valorizza ma non subisce i contenuti tradizionali dell'intermediazione. La reazione dei singoli sistemi bancari nazionali alle sollecitazioni provenienti dal settore imprese si è finora dimostrata non univoca. L'esempio americano è forse quello più pregnante dal punto di vista dello sviluppo di nuovi servizi, mentre l'esempio giapponese è quello più interessante dal punto di vista della filosofia dei rapporti fra banca e impresa. Questi due soggetti economici hanno raggiunto un grado di integrazione sconosciuto agli altri Paesi industrializzati, che si manifesta in molti aspetti, di cui quello più importante è rappresentato dalla globalità del supporto offerto dalla banca all'attività dell'impresa. La situazione del sistema bancario italiano, per quanto concerne questi aspetti, è generalmente giudicata carente dal mondo delle imprese, anche se le ragioni di questa carenza risiedono probabilmente nelle specificità istituzionali in cui il nostro sistema bancario si trova ad operare (9).
La trasformazione di cultura, di strategia e di organizzazione aziendale necessarie alla banca per rispondere alle sfide in atto, costituisce un tema di grandissima attualità e di notevole interesse. Tuttavia, per ovvi motivi di spazio, non è possibile occuparsene in questa sede. Seguendo l'originaria impostazione del discorso, invece, dopo aver indicato le principali linee evolutive del processo di avvicinamento tra grande impresa e risparmio e di allontanamento tra la prima e la banca, qualche ulteriore riflessione va a quella parte del settore impresa che Rondelli (ma non solo lui!) ha indicato quale elemento centrale della strategia di risposta ai cambiamenti descritti: la media e la piccola impresa.
Ebbene, se è vero che l'innovazione finanziaria e lo sviluppo della finanza azienda le sono fenomeni da riferire essenzialmente alla grande impresa, sempre più autonoma dal credito bancario come eloquentemente dimostrato dalle frequenti statistiche della Banca d'Italia, va detto, tuttavia, che la media e piccola impresa è anch'essa interessato da alcuni profili dell'innovazione finanziaria che mirano a favorirne la nascita, lo sviluppo, il finanziamento con capitale di rischio. Intendo riferirmi al ventur capital, al recente provvedimento del CICR sul merchant banking, ai progetti di legge per l'istituzione nel nostro Paese dei Fondi di investimento mobiliare "chiusi", alla riforma del mercato Ristretto. Il riferimento non è, naturalmente, esaustivo e si limita a richiamare quegli aspetti dell'innovazione finanziaria di maggiore interesse delle imprese minori, almeno nelle potenzialità che essi esprimono.
Il "ventur capital" è un investimento, a carattere temporaneo e minoritario, in piccole e medie imprese o in nuove iniziative, con caratteristiche innovative e ad alto potenziale di crescita. L'obiettivo è quello di realizzare un elevato profitto all'atto del disinvestimento. Il carattere forse più distintivo delle società di ventur capital è dato dall'enfasi posta sul contenuto innovativo dell'impresa finanziata, contenuto che ne garantirebbe in buono misura il successo (10).
La capacità innovativa è più frequentemente di tipo tecnologico e legata alla ricerca, ma può trattarsi anche di un'innovazione commerciale ed organizzativa che crea le condizioni per vendere in modo diverso o più efficiente prodotti già noti. E' evidente l'importanza che ha nel nostro sistema industriale, basato su un gran numero di medie e piccole imprese, lo sviluppo di questo tipo di investimento che, oltre a favorire l'allargamento della base produttiva del Paese, ne promuove anche lo sviluppo tecnologico.
L'esperienza italiana nel settore non è, tuttavia, soddisfacente, per ragioni legate sia alla domanda che all'offerta e probabilmente riassumibili nella considerazione che l'attività finanziaria, come la natura, "non facit saltus", nel senso che lo sviluppo di un'istituzione avanzata come le società di ventur capital è ipotizzabile seriamente soltanto in un ambiente che sia altrettanto avanzato e ricco di strumenti e istituzioni concorrenti e complementari.
Per ora, in Italia, il ventur capital è ancora in una fase embrionale del proprio sviluppo e, soprattutto, quasi del tutto assente dagli investimenti in cui più elevato è la sua utilità specifica, vale a dire la fase di "start up" di nuove aziende, ovvero la fase durante la quale l'idea iniziale si trasforma in una vera azienda (11).
In questo settore è tuttavia presente anche la grande impresa, quella tecnologicamente avanzata, che pratica il "captive ventur capital", dove l'investimento in questa forma ha lo scopo di esercitare un certo controllo sulle iniziative innovative che appaiono nel proprio settore.
L'attività di "merchant banking" di derivazione bancaria ha ottenuto il via libera grazie ad una recente delibera del CICR (6/2/87) e ad un successivo regolamento della Banca d'Italia (11/3/87). Questi provvedimenti sono stati sollecitati dalle banche di credito ordinario, allo scopo di eliminare un loro "stato d'inferiorità" rispetto a quanto era già prima concesso agli Istituti di credito speciale e giungono dopo anni di dibattiti e vani tentativi per fissare una disciplina legislativa della materia in questione.
Sul piano operativo, punto centrale dell'attività delle merchant banks è la possibilità di assumere partecipazioni societarie di minoranza, che non comportino comunque il controllo dell'impresa, a carattere temporaneo e finalizzate al loro classamento, anche mediante l'ingresso delle imprese emittenti nei mercati ufficiali dei capitali. Esse possono svolgere altresì attività di consulenza e assistenza rivolta all'area delle problematiche economico/finanziarie d'impresa e, inoltre, organizzare operazioni per il reperimento di fondi a titolo di capitale di credito e/o di rischio.
Mentre le società di ventur capital indirizzano i propri investimenti in imprese di nuova costituzione o che comunque abbiano di recente introdotto prodotti e processi innovativi che lascino sperare in un rapido sviluppo, come più avanti ricordato, le merchant banks preferiscono, invece, assumere partecipazioni in imprese già di una certa dimensione e collaudate anche dal punto di vista produttivo e della posizione di mercato. In un certo senso, quindi, l'attività di questi due tipi di investitori è complementare e non concorrenziale. Infatti, spesso le società di ventur capital trovano nelle merchant banks un canale di disinvestimento delle partecipazioni che, per aver terminato la fase di crescita rapida, non sono più considerate interessanti, ma che per la maggiore consistenza patrimoniale o finanziaria raggiunta cominciano ad esserlo per le merchant banks.
Ancora aperto è, invece, il dibattito sull'istituzione nel nostro Paese dei Fondi Chiusi. uno strumento che al di fuori dei nostri confini, negli USA, in Inghilterra, in Francia, opera ormai da parecchio tempo. In Parlamento esistono in proposito tre diverse proposte di legge, di diversa matrice politica, una DC, una PSI, una PCI. Obiettivo comune è quello di disciplinare la nascita di un nuovo tipo di Fondi comuni, che a differenza di quelli esistenti possano investire in società non quotate e in particolare nelle piccole e medie imprese, escluse dal mercato azionario. Si punta, cioè, a creare un canale attraverso il quale dirigere una componente del risparmio delle famiglie verso imprese di piccole e medie dimensioni che, esclude dal circuito finanziario della Borsa, presentano rapporti medi di indebitamento elevati rispetto ai mezzi propri. Gli investimenti saranno pertanto effettuati con il denaro raccolto attraverso l'emissione di quote. Poiché le emissioni sono limitate, i Fondi si definiranno chiusi.
Negli orientamenti prevalenti in questa fase delle discussioni parlamentari, i nuovi strumenti di investimento dovranno essere quotati in Borsa e le quote potranno essere liberamente scambiate. I certificati di partecipazione non potranno però essere presentati alla società gerente per il rimborso, per cui il sottoscrittore che intende liquidare il proprio investimento dovrà vendere i certificati sui mercati (Borsa o Ristretto) dove saranno trattati ufficialmente.
Pertanto, considerando che le società di ventur capital non hanno, nel nostro Paese, sufficienti incentivi per investire in piccole imprese prive di specifici connotati innovativi e che le merchant banks puntano, da parte loro, su una fascia medio/grande d'imprese, meno rischiose e quotabili in tempi relativamente brevi, è necessario che i Fondi chiusi, per avere un loro specifico ruolo nel mercato finanziario, si orientino ad investire in quella fascia residua di piccole imprese che non rientra negli obiettivi tipici di altri investitori istituzionali. Ciò è importante per evitare inutili doppioni negli strumenti di intervento a favore delle medie e piccole imprese, ed inoltre per evitare che parte di una delle forze più dinamiche della nostra economia resti tagliata fuori da questo importante processo di innovazione finanziaria. Salvo, naturalmente, il ruolo svolto in questo senso dalle banche, soprattutto quelle locali, come più avanti vedremo.
A proposito della riforma del Ristretto, avviata operativamente il 1° luglio '87, non è eccessivo affermare che, se grandi furono le speranze, altrettanto grandi sono state le delusioni.
I punti centrali della riforma sono stati i seguenti: le operazioni, da settimanali, diventano quotidiane; la negoziazione dei titoli avviene col sistema del contante a termine (10 giorni); per essere ammessa al Ristretto è sufficiente che una società abbia un capitale di un miliardo (prima erano 10), possa esibire l'ultimo bilancio in utile (prima ci si riferiva agli ultimi tre) e abbia collocato fra il pubblico almeno il 10% delle azioni (prima il 25%). l'obiettivo, nelle parole del Presidente del Comitato del Ristretto, L. Gaudenzi, era quello di offrire una grande occasione alle piccole imprese, accogliendo i loro titoli nel listino e mettendo a loro disposizione un luogo al quale rivolgersi per raccogliere capitali a basso costo (12).
Ebbene, ad un anno di distanza dall'avvio della riforma, si può ragionevolmente affermare che, se è vero che c'è, la riforma, sicuramente non si vede: il "mercatino" non va, non riesce a decollare nonostante tutto. L'obiettivo di quotare e finanziare con capitale di rischio le imprese medio/piccole non è stato raggiunto, almeno per questa via.
Probabilmente, tale insuccesso è legato a problemi di concentrazione degli scambi nei mercati ufficiali e di trasparenza delle operazioni non ancora risolti; di scarse possibilità di scelta offerte agli investitori da un listino che, lui sì, è veramente "ristretto"; di eccessiva presenza di titoli di banche Popolari, non trasferibili per girata e con pesanti limiti nei quantitativi detenibili dai singoli soci. Sicuramente, però, in molti casi vi è ancora un problema di cultura, più mercantile che imprenditoriale, degli imprenditori locali, di loro chiusura verso l'esterno, di difficoltà, da parte di molti di essi, ad accettare novità finanziarie che in fin dei conti si risolvono in un'imposizione a rendere pubblici i bilanci ed a creare un flottante che li espropria di una parte del potere personale sulla propria azienda.
In altri sistemi finanziari, più avanzati sotto il profilo dell'articolazione degli intermediari, la creazione di mercati simili al nostro Ristretto si è rivelata uno strumento indispensabile per lo sviluppo di nuove figure di investitori istituzionali (merchant banks, Fondi chiusi) in quanto consentono lo smobilizzo delle partecipazioni e l'indispensabile turnover dei loro portafogli di attività.
In conclusione delle considerazioni sin qui svolte, possiamo dire che dato caratterizzante degli ultimi anni è stato, nel panorama finanziario, il ruolo fondamentale svolto dalla grande impresa nel modificare i termini qualitativi e quantitativi della tradizionale attività di intermediazione finanziaria. La media e piccola impresa non ha saputo e potuto fare altrettanto, ma, in compenso, è riuscita ad attirare intorno a sé un gran numero ed una notevole varietà di pretendenti, desiderosi di assisterla in tutte le fasi del proprio sviluppo, dalla nascita alla quotazione in Borsa. Questo significa, per riprendere l'iniziale affermazione di Rondelli, che nella corsa alla media e piccola impresa la banca non è sola. Il suo compito, pertanto, non è facile. La concorrenza è numerosa, qualificata ed in aumento.
La banca avanza alla media/piccola impresa offerte di "matrimonio". Dico offerte per non dire promesse: il termine riecheggia difficoltà di manzoniana memoria. Battuta a parte, non mi pare azzardato aggiungere che, tra i tanti pretendenti, la media e piccola impresa possa trovare il proprio partner finanziario ideale proprio nelle banche locali. In futuro, infatti, le banche dovranno offrire alle imprese una gamma di servizi sempre più completa ed a carattere innovativo, ma soprattutto dovranno offrire una più incisiva attività di consulenza finanziaria. Se questo è vero, come è vero, diventa di importanza cruciale il ruolo svolto dalle banche locali, istituzionalmente più vicine alle esigenze delle piccole e medie imprese.
L'affermazione trova autorevole conforto negli interventi e nelle conclusioni del convegno svoltosi ad Assisi il 10/11 ottobre 1986 sul tema "Innovazione finanziaria, Banche locali e Imprese minori", organizzato dalla Facoltà di Economia -e Commercio dell'Università degli Studi di Perugia. Considerati gli interessanti spunti che offrono per ulteriori approfondimenti sull'argomento affrontato in questa sede, vorrei ricordare, soprattutto, alcune importanti riflessioni svolte nell'occasione dal Prof. Sergio Corallini, Ordinario di Tecnica Bancaria e Professionale nell'Università di Perugia.
Egli evidenzia anzitutto come per alcune banche locali di piccole dimensioni si ponga la necessità di una crescita dimensionale che consenta loro di acquisire potenzialità strutturali ed organizzative capaci di mantenerle ancorate al cambiamento dei mercati ed al processo di sviluppo dell'economia locale, notando, tuttavia, come deregulation e despecializzazione favoriscano le necessarie spinte aggreganti, nel senso che attenuano alcune ragioni di esasperato e malinteso localismo. Superati i problemi dimensionali, il ruolo delle banche locali uscirà esaltato dal processo evolutivo in atto, anche perché, continua lo studioso, se è vero che determinate aree di attività sono precluse alle banche al di sotto di una dimensione minima, è altrettanto vero che l'attuazione di strategie di segmentazione verso determinate categorie di operatori e tipi di operazioni, nonché di differenziazione del prodotto, sono precluse a livello di dimensioni elevate.
Tali strategie costituiscono per le banche minori una scelta da non abbandonare, ma anzi da accentuare in un mix adeguato alle mutevoli condizioni di mercato. Esse potranno dare buoni risultati soprattutto nei servizi personalizzati ad alta qualità e ad elevato "contenuto umano". Nell'ambito degli sforzi tesi ad offrire una gamma completa di servizi personalizzati alle stesse condizioni di prezzo dei servizi standard ed a rendere effettivamente trasparente a tutti i livelli il rapporto con il cliente, accrescendone la portata fiduciaria; nel quadro più generale di un mercato che si sta evolvendo in un "mercato del compratore", dove costi e qualità dei servizi offerti, trasparenza dei prezzi, personalizzazione del servizio e più in generale dell'intero rapporto diventeranno sempre più di importanza strategica, la banca locale beneficia, secondo il parere del Prof. Corallini, di spazi e possibilità maggiori rispetto alle grandi banche.
Anche il radicale cambiamento di "geografia delle imprese" e la nascita di nuovi poli di sviluppo in aree diverse da quelle tradizionali sembrano privilegiare le banche locali, le quali -in fase di liberalizzazione dell'attività bancaria in chiave imprenditoriale - possono dare risposte efficaci alla domanda sia di credito commerciale che di servizi e in generale di consulenza. Concludendo, l'autore proietta la propria analisi sino ai cruciali anni '90, che beneficeranno di un assetto bancario meno frammentario, più evoluto e efficiente, poggiato su una molteplicità di aziende, in larga parte locali, di dimensioni minime accresciute rispetto alle attuali. In tale contesto, le banche locali rimarranno protagoniste ed amplieranno il loro -ruolo fondamentale a vantaggio delle economie in cui operano (13).


Note
1) TAMBURELLO S., "Parla Rondelli: parola d'ordine diversificare", in Milano Finanza, 25/30 aprile 1988, n. 17, p. 13.
2) TAINO D., "Il fattore "F" nelle imprese", in Mondo Economico, 4 maggio 1987, n. 17, pp. 80-83.
3) BOMBONATO C., BAROZZI E., TERZI V., "L'innovazione finanziaria tra impresa e banca", in L'Impresa, n. 3/1987, pp. 45-53.
4) CECCHINI M., SECCHI G., "E quel lunedì andò in crisi il villaggio globale", in Milano Finanza, 11/16 aprile 1988, n. 14, p. 60.
5) RUOZI R., ALBERICI A., CORIGLIANO R., DE LAURENTIS G., PREDA S., CARRETTA A., PREVIATI D., BASILE E., PONTIGGIA C., CLARIZIA R., "Nuova finanza -rapporto mese", in Mondo Economico, 12 maggio 1986, pp. 43-72, n. 18.
6) GALATERI G., "Obiettivo: efficienza finanziaria", in L'Impresa, n. 3/87, pp. 17-22.
7) PLATERO M., "In USA sette su dieci fanno compere senza soldi", in Mondo Economico, 1 dicembre 1986, n° 47, pp. 85-86.
8) Cfr. nota n. 3.
9) CASSESE S., "E' ancora attuale la legge bancaria del 1936?", La Nuova Italia Scientifica, Roma, maggio 1987, p. 11 e segg.
10) BONESCHI M., "Il triangolo d'oro del Ventur Capital", Italia Oggi, 27 aprile 1987.
11) PREDA S., "Vita dura per il ventur capital in Italia", in L'Impresa, n° 3/87, pp. 56-60.
12) GUADALUPI E., "Una grande occasione per le piccole imprese (intervista a Leonida Gaudenzi)", in Mondo Economico, 6 luglio 87, n. 26, pp. 76-77.
13) CORALLINI S., "Le banche locali nel processo di innovazione finanziaria", relazione al Convegno citato nel testo.


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