Il fascismo al
potere interrompe la discussione sulla questione meridionale. Il programma
di espansione coloniale e le "grandi opere pubbliche" sono
la risposta che il regime da alla parte "barbara" del Paese.
A detta di Mussolini, le due Italie non esistono più. Tutti
gli antagonismi sono stati superati. Ma che le cose non stiano proprio
in questo modo appare evidente subito dopo la seconda guerra mondiale.
Dalle macerie post-belliche riemergono le condizioni di inferiorità
del Sud. Riprende, in questo periodo, il dibattito sul Mezzogiorno.
Ed è voglia di verità, voglia di smascherare lo stato
di soggezione in cui le genti meridionali continuano ad essere tenute,
voglia di confronto con l'altra Italia, più distante che mai,
"l'Italia delle Alpi, dei laghi, dei fiumi [ ... ], l'Italia
verdeggiante di colture, ricca di strade, di ville, di casolari [
... ], l'Italia della borghesia operosa, della piccola borghesia e
del proletariato... " (R. Ciasca, dal vol. XXIII dell'Enciclopedia
italiana).
Due furono le correnti del meridionalismo prefascista: quella - da
Franchetti a Sonnino a Nitti - che vedeva la questione come un "mito
del buongoverno", secondo la quale, quindi, il problema andava
discusso e risolto solo in sede legislativa e parlamentare; e quella
- da Salvemini a Dorso a Gramsci - che vedeva nella rivoluzione una
componente essenziale per abbattere le vecchie strutture del Sud.
In virtù di quest'ultima tesi, la battaglia meridionalistica
doveva essere combattuta a livello partitico, in modo da coinvolgere
l'intera società. le due correnti, nettamente opposte, erano
tuttavia accomunate dall'idea che la questione meridionale rispecchiasse
il fallimento dell'Italia unificata. Il problema del Mezzogiorno era,
dunque, il problema di una nazione che si trascinava dietro i cadaveri
del passato e che, quindi, mai si adattava al ruolo che i nuovi tempi
le imponevano.
Con la caduta del fascismo, il dibattito riprende. Tornano in auge
le tesi prefasciste, alle quali, però, il vecchio meridionalismo
non riesce ad apportare alcun elemento di novità o di revisione.
Solo Salvemini, guardando alla propria esperienza passata, ammette
di avere peccato di presunzione: quel Sud, che egli credeva avesse
potuto "fare da sé", in realtà, non sarebbe
mai stato in grado - da solo - di spezzare il suo tragico destino.
Per il resto, le nuove idee provengono da altri fronti. Si distingue,
in questi anni, tutta una corrente letteraria - con Carlo Levi in
prima fila - che riscopre il mito della "civiltà contadina".
Il popolo meridionale torna ad essere protagonista, questa volta come
depositario di valori e tradizioni che la desolazione e la miseria
non sono riuscite a intaccare. Si tratta di una corrente di pensiero
molto alta, ma che, in concreto, dà pochi contributi alla questione.
Di maggior rilievo è, invece, l'articolazione del nuovo meridionalismo
nelle due correnti di sinistra e democratica.
Per quanto riguarda il meridionalismo di sinistra, questo, muovendosi
lungo le direttive dettate da Gramsci, giunge a considerare la classe
operaia l'unica forza veramente in grado di sollevare il mondo contadino
alla rivolta. Sull'azione di guida del proletariato il comunismo pone
un'enfasi maggiore di quella che si può riscontrare nel l'insegnamento
gramsciano. Contemporaneamente, è una politica che, nell'alleanza
di quelle classi sopraffatte dal potere monopolistico e agrario, vede
un momento essenziale per superare lo stato di debolezza e di isolamento
delle lotte popolari. Un'alleanza, dunque, "non soltanto con
i contadini poveri del Mezzogiorno e delle Isole, ma con i grandi
strati intermedi delle città e delle campagne [ ... ] e anche
col gruppi di borghesia produttiva del Mezzogiorno [ ... ] schiacciati
dai gruppi monopolistici ed agrari" (G. Galasso, da Passato e
presente del meridionalismo).
Una delle maggiori correnti del meridionalismo democratico è
quella che ruota intorno alla figura di Manlio Rossi Doria. Secondo
l'intellettuale, la tradizionale impostazione del problema agrario
deve essere profondamente rivista. Senza dubbio, il Sud ha fatto qualche
passo avanti, ma ciò non toglie che la situazione resti ancora
drammatica. Il motivo fondamentale va individuato "nella problematica
interna delle strutture fondiarie e sociali": ossia nell'esistenza,
da un lato, di una proprietà borghese che ha ormai perso di
vista il suo ruolo produttivo, divenendo col tempo assenteista e parassitaria:
dall'altro, di "un pauroso frazionamento delle imprese [ ...
] nel doppio aspetto della prevalenza di unità produttive troppo
piccole e della frammentazione interna delle stesse", con conseguente
impossibilità di porre in essere un qualunque processo di ammodernamento
e di razionalizzazione. Dato questo stato di cose, la riforma agraria
dovrebbe costituire un preciso obbligo da parte del governo, volto
a dare uno smacco decisivo alla borghesia agraria. Ma, secondo Rossi
Doria, non bisogna credere che tale riforma sia sufficiente per risolvere
la questione meridionale. Per essere valida, essa va inserita in un
più ampio contesto di misure di ristrutturazione e di risanamento
fondiario: "I progressi dell'agricoltura meridionale non sono
tanto da attendersi - come si è creduto finora -dagli investimenti
fondiari, quanto dall'aumento della produttività e valorizzazione
del prodotti e dalla creazione di una moderna organizzazione della
produzione e del mercati; da cose, cioè, in larghissima parte
dipendenti dall'efficiente funzionamento del servizi agricoli e dall'efficienza
delle persone cui essi vengono affidati". Ma perché tutto
questo accada, è necessario che nel Mezzogiorno si crei "una
classe politica modernamente preparata", alla quale affidare
il compito "di rendere esplicito quel che implicitamente già
esiste, di aiutare la maturazione di situazioni sociali e politiche
che in profondità si sono già formate o si formeranno".
E questo significa "affrettare la liquidazione, di fatto inevitabile,
della vecchia struttura del rapporti fondiari e dar vita ad una nuova
fase di movimento contadino".
E' importante, a questo punto, chiarire il motivo per cui il comunismo
- che come corrente rivoluzionaria e antifascista trova immediati
e ampi consensi nella massa rurale del Mezzogiorno - finisce, a partire
dal '53, col perdere terreno, fino ad essere sopraffatto dalla corrente
moderata di destra. Gli anni dal '44 al '48 sono anni di forza per
il Pci. Ma l'adesione del popolo meridionale al partito non deriva
da una corretta valutazione della politica comunista. Nasce, piuttosto,
come reazione al fascismo e trova nella piattaforma del Pci quella
componente rivoluzionaria che più si adatta agli stati d'animo
del periodo. Il comunismo post-fascista è, in effetti, il solo
a portare avanti e, anzi, ad alimentare le pretese del popolo. Un
motivo questo che, se all'inizio servirà per egemonizzare il
movimento contadino, in seguito segnerà la condanna per il
partito stesso. Il Pci, infatti, compie l'errore di esasperare le
tensioni del mondo rurale, e di sollevare in modo irresponsabile le
attese dello stesso. Seguono rivendicazioni esagerate. Ed è
a questo punto che la situazione sfugge di mano ai comunisti. Il Pci
non ha quel potere politico necessario a soddisfare le pretese del
popolo. il gioco passa così all'opposizione. Acquietatosi io
spirito rivoluzionario, la massa contadina trova nella politica clientelare
della Dc l'espressione più bassa, ma più proficua, di
quella riforma solo teorizzata dalla sinistra. La resurrezione del
popolo meridionale fallisce ancora, in modo banale, se vogliamo. Ma
il popolo è lontano dagli insegnamenti gramsciani. Soprattutto,
è saturo di parole.
L'accusa maggiore che il Pci fa alla Democrazia cristiana è,
dunque, quella di aver preso in mano una situazione che esso solo
ha voluto e determinato. Nel commentare l'azione e gli errori commessi
dai comunisti, Manlio Rossi Doria così si esprime: "...
Certamente la forza contrattuale che il partito comunista ha conquistato
con questa sua azione nelle campagne ha molto influito nel determinare
quell'azione: tuttavia, sarebbe in errore colui che volesse cercare
una spiegazione puramente politica ed elettorale di questa vasta azione.
E' perché le campagne erano in movimento che la forza politica
del partito comunista si è sviluppata e non perché l'azione
politica è stata intensa che le compagne si sono messe in movimento".
E ancora, "se un punto debole c'è stato e c'è,
specialmente oggi, mi sembra rappresentato da una certa tendenza anziché
a voler concludere e consolidare su basi realistiche le conquiste
di volta in volta possibili [ ... ] a prolungare uno stato di agitazione,
forse nella speranza di poter più largamente influenzare gli
strati contadini" (Discorso tenuto al 2° Congresso del Partito
d'Azione in Roma, il 2 aprile 1947).
La Dc conquista, così, l'immeritato compito di dare soluzioni
alla questione meridionale, accaparrandosi quel mondo contadino che
prima ruotava intorno al Pci. E non può essere altrimenti.
la svolta è inevitabile. Dal 1948, la Dc è diventata
partito di maggioranza. Come quella maggioranza sia stata ottenuta,
è storia, ormai. Già con il secondo Gabinetto De Gasperi,
tutti i partiti minori erano stati neutralizzati. Il clima non era
del migliori. I diritti democratici venivano costantemente calpestati;
i rappresentanti dei partiti proletari erano stati esclusi dai vari
ministeri. Il Paese viveva in un contesto paternalistico e clientelare.
Da parte loro, gli americani pretendevano, in cambio degli aiuti economici,
la garanzia di un governo stabile. E ciò significava restaurazione
nei postichiave dei vecchi uomini del regime. Contro questa politica
governativa nasce nel '48, sotto il simbolo di Garibaldi, il Fronte
Popolare, al quale aderiscono tutte le forze rimaste fedeli alla Costituzione.
Nasce in vista delle elezioni, allo scopo di scongiurare il pericolo
di una vittoria democristiana. Ma è un'impresa ardua. La Dc
ha due potenti alleati: gli americani, che minacciano di sospendere
gli aiuti del Piano Marshall in caso di vittoria del Fronte; e il
Vaticano che, tramite Pio XII, minaccia di scomunica tutti coloro
che non voteranno Dc. E il gioco è fatto. Da quel momento si
mette in moto un ampio processo di restaurazione del potere borghese;
un processo che ha nel tentato assassinio di P. Togliatti (14 luglio
1948), leader del partito comunista, la sua espressione più
sanguinosa. Il proletariato ègonfio di sdegno. le tensioni
si inaspriscono. Operai e contadini abbandonano i posti di lavoro.
Nel Nord, una fitta rete di scioperi paralizza l'attività produttiva.
Nel Sud, il movimento di occupazione delle terre incolte fa vacillare
il potere agrario. Per un momento il Paese sembra veramente sull'orlo
della rivoluzione. Ma la reazione riprende, più agguerrita
che mai, sotto forma di arresti e di rappresaglie. La protesta, tuttavia,
non accenna a spegnersi. Il governo è costretto a dare risposte
di carattere legislativo alle classi popolari.
La vittoria moderata porta, dunque, alla ricostituzione del potere
agrario. Ma all'opera di restaurazione, nel Sud, dei vecchi equilibri
sociali deve essere data una motivazione ben più ampia della
semplice simpatia che Dc e Vaticano possono nutrire verso la reazione.
Ciò che sfugge al movimento operaio e contadino dei periodo
è proprio la considerazione che la politica agraria moderata
è parte integrante del modello di sviluppo in moto dalla Dc
a livello nazionale, al fine di ristrutturare l'economia del Paese.
Un modello di sviluppo che si basa sul potenziamento, nel Nord, dell'industria
capitalistica, quale unico vero settore trainante dell'economia. In
questo quadro, la scelta della ruralità per il Mezzogiorno
diventa un passo obbligato. l'aumento della capacità produttiva
nell'industria non si accompagna, infatti, ad un corrispondente aumento
dell'occupazione. Anzi. Nella maggior parte del casi, ristrutturare
significa espellere mano d'opera. Da qui la necessità di un
"settore-spugna", in grado di assorbire la forza lavoro
in soprannumero. E la scelta non può che ricadere sul l'agricoltura.
E in considerazione di questo disegno che possiamo comprendere appieno
l'interesse della classe politica dominante perché nel Sud
permango il vecchio stato di cose, con i vecchi padroni, con l'arretratezza
feudale dei metodi di produzione. Proprio quell'arretratezza avrebbe
consentito al settore di assorbire una quota della popolazione attiva
di gran lunga superiore al necessario. Lo sfruttamento del mondo rurale
a salari irrisori è, quindi, la posta da pagare per il "progresso"
del Paese. I disegni di spesa pubblica riguardanti l'agricoltura rientrano
in questo contesto, servono per coprire questo piano iniquo e per
placare il malcontento popolare. Il 12 maggio 1950, viene presentato
il primo disegno di legge fondiaria: la cosiddetta "Legge Silana",
atta a regolare la redistribuzione delle terre nel comprensorio calabrese.
Segue la "Legge stralcio" del 21 ottobre 1950, che prevede
l'esproprio di oltre 700 mila ettari di terra, attraverso enti di
riforma appositamente creati nei "territori suscettibili di trasformazione
fondiaria o agraria". Sempre nel 1950, nasce la Cassa per il
Mezzogiorno, con il compito - almeno per i primi cinque anni di attività
- di sostenere la debole agricoltura meridionale, tramite piani di
bonifica, di irrigazione, di acquedotti, di rimboschimenti, di strade.
Non bastava, infatti, espropriare le terre e assegnarle ai contadini:
"I legislatori [ ... ] sapevano che quella che si ripartiva non
era ricchezza, ma miseria, la grande miseria di un ettaro di pietre
e deserto" (Aldo Bello, Terzo Sud).
Questa prima fase della politica meridionalistica governativa viene
denominata della "preindustrializzazione". la Cassa, infatti,
ha anche il compito di intervenire nel campo delle infrastrutture
civili, allo scopo di gettare le basi per un futuro decentramento
dell'industria dal Nord al Sud. Quello che l'istituto ha fatto è
noto a tutti. Quello che forse è meno noto è che, per
la realizzazione degli interventi, essa ha dato lavoro a centinaia
di uomini, abituandoli ad un salario decente, una vita migliore. Solo
che - terminati i lavori - quegli uomini non sono più disposti
a sottostare allo sfruttamento degli agrari. Il ritorno nei campi
diventa sempre più difficile.
Riforma agraria e Cassa per il Mezzogiorno sono, quindi, la risposta
che il governo centrista dà alla massa crescente di rivendicazioni
popolari. Si tratta, senza dubbio, di interventi che mettono in crisi
l'assetto latifondistico della società meridionale. Ma non
per questo ne migliorano la struttura. Sono piuttosto una risposta
contingente, un rimedio di emergenza, tendente solo a placare la fame
di terra del mondo contadino.
Scrive Renzo Stefanelli: "L'intervento nell'agricoltura venne
visto come un canale della spesa pubblica (bonifiche, rimboschimenti,
irrigazione) tendente a rafforzare per quanto possibile la domanda
interna [ ... ] Le strutture agricole sono considerate soprattutto
dal punto di vista del loro riassetto, della moderazione dei fenomeni
di disgregazione e di esodo, della compatibilità, con l'equilibrio
sociale, dei processi che vi si verificano: tutti punti di vista che
possono offrire vari appigli positivi, ma che escludono un ruolo propulsore
delle attività agricole nello sviluppo del sistema economico...
".
Quel ruolo propulsore presuppone una riforma agraria "generale",
che, oltre al latifondo, spezzi anche la vecchia concezione del diritto
di proprietà: "Nelle condizioni della Riforma agraria
generale la proprietà cessa di essere un capitale liberamente
utilizzabile, un titolo di rendita, interesse e profitto, per presentarsi
essenzialmente come capitale strumentale, la cui valutazione è
strettamente connessa alla realizzazione della produzione" (R.
Stefanelli, in Lotte agrarie e modello di sviluppo 1947-1967).
Posta in termini diversi, l'azione pubblica si riduce ad un intervento
paternalistico e di carattere straordinario, che di Riforma conserva
solo il nome. In pratica, la questione si impernia sul nesso esistente
tra "titolarità del diritto di proprietà e potere
di destinazione del bene".
L'uso produttivo della terre deve condizionare il diritto di proprietà.
Solo così le rendite parassitarie potranno essere eliminate.
Ma il governo va in direzione contraria, come dimostra l'esito della
battaglia per "l'imponibile" di mano d'opera. L'imponibile
aveva una duplice finalità: assicurare la stabilità
del lavoro nei campi, e migliorare la terra attraverso una produzione
più razionale. Sul significato e sulla funzione dell'imponibile,
riportiamo uno stralcio del documento pubblicato dalla Confederterra
e dalla Federbraccianti, in occasione del secondo Congresso nazionale
(1949): "Si tratta per i lavoratori di aumentare le giornate
di occupazione, quindi di guadagnare di più; per gli agrari
di spendere una parte del loro guadagni per fare nuovi investimenti
nelle aziende * per coltivare in modo razionale le terre * vantaggio
del disoccupati e della produzione. Ciò spiega la resistenza
ad oltranza degli agrari di fronte ad ogni richiesta di imponibile,
e le loro manovre e speculazioni per sottrarvisi quando esso sia stabilito
per legge o per accordo sindacale. In un periodo della storia, quale
quello che attraversiamo, in cui i grandi proprietari della terra
ed i grandi conduttori capitalisti hanno perduto ogni preoccupazione
produttivistica e si preoccupano solo di rubare alla terra ed ai contadini
tutto ciò che è possibile; in un periodo di regresso
e di stagnazione dell'agricoltura, la lotta per l'imponibile è
una delle lotte fondamentali che I braccianti e salariati agricoli
debbono condurre non solo nel loro interesse, ma nell'interesse generale
dell'economia agricola... ".
Con una sentenza pubblicata il 30 dicembre 1958, la Corte costituzionale
annulla gli imponibili di mano d'opera, perché considerati
in contrasto con gli articoli 38-41-42-44-23 e 3 della Costituzione.
I punti sui quali si impernia la dichiarazione di illegittimità
sono i seguenti:
a) Con l'imponibile, l'assistenza ai disoccupati viene fatta pesare
sull'azienda agricola, quando, invece, dovrebbe essere fornita da
appositi organi statali. Inoltre,
b) la libera iniziativa economica dei conduttori delle aziende agricole
viene di fatto limitata dai vincoli dell'imponibile in materia di
assunzione di mano d'opera e di interruzione del rapporto di lavoro.
Nell'interpretazione della Corte è chiara la volontà
di ridare piena autonomia alla proprietà privata, sganciandola
da scopi produttivistici ed occupazionali. E questo in linea con la
politica di "laissez-faire", ma in aperto contrasto sia
con il dettato costituzionale, la dove sancisce il diritto al lavoro
per ogni cittadino, sia con il perseguimento di una riforma agraria
che sia veramente "generale".
D'altra parte, lo stesso modo di condurre gli espropri limita la portata
generale che l'intervento dovrebbe assumere. Secondo l'art. XI°
della Carta nazionale dei braccianti e salariati (Bologna, 15-18 ottobre
1952), "una profonda Riforma agraria, orientata nella direzione
del rispetto dei principi sociali sanciti dalla Costituzione, deve
portare alla fissazione di un limite generale e permanente della proprietà
terriera, alla distribuzione della terra espropriata ai contadini
senza o con poca terra e alla riforma dei contratti agrari".
In realtà (Art. XII° Carta nazionale), "a quasi due
soli mesi di distanza dai termini stabiliti dalle leggi, gli espropri
non superano i 250 mila ettari, dei quali solo 80 mila assegnati...
".
Infatti, "nell'assegnazione delle terre, gli enti procedono con
grave ritardo e in genere essi puntano a liberare le terre da coloro
che attualmente le coltivano per fare un unico "monte terra"
da redistribuire a gruppi ristretti di assegnatari, "selezionati"
con criteri di discriminazione politica". L'assegnazione delle
terre, in pratica, lungi dal concretizzarsi in un diritto di tutti
i contadini, in linea con il dettato costituzionale, viene utilizzata
dalla Dc come arma di sotto-governo per aumentare i consensi di una
parte del mondo rurale e per smembrare, al tempo stesso, l'unità
della controffensiva popolare. Alla resa dei conti, anche la situazione
degli assegnatari "privilegiati" non èdelle migliori.
Essi vivono in uno stato altamente precario e devono sottostare ai
contratti strozzineschi imposti dagli Enti di Riforma. Inoltre, numerosi
poderi vengono illecitamente quotizzati al di sotto della "minima
unità colturale" e danno redditi del tutto inadeguati
per la sussistenza della famiglia colonica.
"La buona novella / l'aspettammo sempre / mirando stelle e pietre
/ ed alberi malati / Ogni giorno con zappe ed aratri / coltivammo
cuori di rocce / raccogliemmo piante bruciate / raccogliemmo raggi
di sole / Ovunque andiamo il Sud ci accora / terre assetate, piante
piegate / uomini che non sanno più amare / Neppure l'aria puoi
dire che è tua / le case si frantumano al sole" (Lucio
Romano, Lamento del contadino).
Nel "nuovo" Mezzogiorno si consuma, così, il dramma
di un'altra generazione. I miglioramenti - circoscritti - restano,
per il resto del Sud, solo parvenza, amara parvenza. I contadini guardano
attoniti e non sanno più da che parte stare. Le forze del potere
hanno scoperto il proprio gioco. Il destino è quello di sempre.
L'alternativa una sola: abbandonare la terra, spezzare la maledizione.
Scelta sofferta ma inevitabile, ormai. "... Oh il Sud è
stanco di trascinare morti / in riva alle paludi di malaria / è
stanco di solitudine, stanco di catene / è stanco nella sua
bocca / delle bestemmie di tutte le razze / che hanno urlato morte
con l'eco dei suoi pozzi / che hanno bevuto il sangue dei suo cuore
/ ... Più nessuno mi porterò del Sud ... " (S.
Quasimodo, Lamento per il Sud).
Esodo come espressione di una politica fallimentare. Esodo come ultima
protesta: la protesta - informe e silenziosa - di un popolo di vinti.
Vanno lontano: in Europa o in America. Anche il Nord li attende, per
alleggerire. il peso contrattuale degli operai. E li chiamano "terroni",
questi uomini rozzi, raggrinziti dal sole. Portano appresso storie
di pietre e di catene. E il soffio testardo del vento del Sud.
(Fine)