§ MEZZOGIORNO E MOVIMENTO CONTADINO

Il vento del Sud (6)




Maria Rosaria Pascali



Il fascismo al potere interrompe la discussione sulla questione meridionale. Il programma di espansione coloniale e le "grandi opere pubbliche" sono la risposta che il regime da alla parte "barbara" del Paese. A detta di Mussolini, le due Italie non esistono più. Tutti gli antagonismi sono stati superati. Ma che le cose non stiano proprio in questo modo appare evidente subito dopo la seconda guerra mondiale. Dalle macerie post-belliche riemergono le condizioni di inferiorità del Sud. Riprende, in questo periodo, il dibattito sul Mezzogiorno. Ed è voglia di verità, voglia di smascherare lo stato di soggezione in cui le genti meridionali continuano ad essere tenute, voglia di confronto con l'altra Italia, più distante che mai, "l'Italia delle Alpi, dei laghi, dei fiumi [ ... ], l'Italia verdeggiante di colture, ricca di strade, di ville, di casolari [ ... ], l'Italia della borghesia operosa, della piccola borghesia e del proletariato... " (R. Ciasca, dal vol. XXIII dell'Enciclopedia italiana).
Due furono le correnti del meridionalismo prefascista: quella - da Franchetti a Sonnino a Nitti - che vedeva la questione come un "mito del buongoverno", secondo la quale, quindi, il problema andava discusso e risolto solo in sede legislativa e parlamentare; e quella - da Salvemini a Dorso a Gramsci - che vedeva nella rivoluzione una componente essenziale per abbattere le vecchie strutture del Sud. In virtù di quest'ultima tesi, la battaglia meridionalistica doveva essere combattuta a livello partitico, in modo da coinvolgere l'intera società. le due correnti, nettamente opposte, erano tuttavia accomunate dall'idea che la questione meridionale rispecchiasse il fallimento dell'Italia unificata. Il problema del Mezzogiorno era, dunque, il problema di una nazione che si trascinava dietro i cadaveri del passato e che, quindi, mai si adattava al ruolo che i nuovi tempi le imponevano.
Con la caduta del fascismo, il dibattito riprende. Tornano in auge le tesi prefasciste, alle quali, però, il vecchio meridionalismo non riesce ad apportare alcun elemento di novità o di revisione. Solo Salvemini, guardando alla propria esperienza passata, ammette di avere peccato di presunzione: quel Sud, che egli credeva avesse potuto "fare da sé", in realtà, non sarebbe mai stato in grado - da solo - di spezzare il suo tragico destino. Per il resto, le nuove idee provengono da altri fronti. Si distingue, in questi anni, tutta una corrente letteraria - con Carlo Levi in prima fila - che riscopre il mito della "civiltà contadina". Il popolo meridionale torna ad essere protagonista, questa volta come depositario di valori e tradizioni che la desolazione e la miseria non sono riuscite a intaccare. Si tratta di una corrente di pensiero molto alta, ma che, in concreto, dà pochi contributi alla questione.
Di maggior rilievo è, invece, l'articolazione del nuovo meridionalismo nelle due correnti di sinistra e democratica.
Per quanto riguarda il meridionalismo di sinistra, questo, muovendosi lungo le direttive dettate da Gramsci, giunge a considerare la classe operaia l'unica forza veramente in grado di sollevare il mondo contadino alla rivolta. Sull'azione di guida del proletariato il comunismo pone un'enfasi maggiore di quella che si può riscontrare nel l'insegnamento gramsciano. Contemporaneamente, è una politica che, nell'alleanza di quelle classi sopraffatte dal potere monopolistico e agrario, vede un momento essenziale per superare lo stato di debolezza e di isolamento delle lotte popolari. Un'alleanza, dunque, "non soltanto con i contadini poveri del Mezzogiorno e delle Isole, ma con i grandi strati intermedi delle città e delle campagne [ ... ] e anche col gruppi di borghesia produttiva del Mezzogiorno [ ... ] schiacciati dai gruppi monopolistici ed agrari" (G. Galasso, da Passato e presente del meridionalismo).
Una delle maggiori correnti del meridionalismo democratico è quella che ruota intorno alla figura di Manlio Rossi Doria. Secondo l'intellettuale, la tradizionale impostazione del problema agrario deve essere profondamente rivista. Senza dubbio, il Sud ha fatto qualche passo avanti, ma ciò non toglie che la situazione resti ancora drammatica. Il motivo fondamentale va individuato "nella problematica interna delle strutture fondiarie e sociali": ossia nell'esistenza, da un lato, di una proprietà borghese che ha ormai perso di vista il suo ruolo produttivo, divenendo col tempo assenteista e parassitaria: dall'altro, di "un pauroso frazionamento delle imprese [ ... ] nel doppio aspetto della prevalenza di unità produttive troppo piccole e della frammentazione interna delle stesse", con conseguente impossibilità di porre in essere un qualunque processo di ammodernamento e di razionalizzazione. Dato questo stato di cose, la riforma agraria dovrebbe costituire un preciso obbligo da parte del governo, volto a dare uno smacco decisivo alla borghesia agraria. Ma, secondo Rossi Doria, non bisogna credere che tale riforma sia sufficiente per risolvere la questione meridionale. Per essere valida, essa va inserita in un più ampio contesto di misure di ristrutturazione e di risanamento fondiario: "I progressi dell'agricoltura meridionale non sono tanto da attendersi - come si è creduto finora -dagli investimenti fondiari, quanto dall'aumento della produttività e valorizzazione del prodotti e dalla creazione di una moderna organizzazione della produzione e del mercati; da cose, cioè, in larghissima parte dipendenti dall'efficiente funzionamento del servizi agricoli e dall'efficienza delle persone cui essi vengono affidati". Ma perché tutto questo accada, è necessario che nel Mezzogiorno si crei "una classe politica modernamente preparata", alla quale affidare il compito "di rendere esplicito quel che implicitamente già esiste, di aiutare la maturazione di situazioni sociali e politiche che in profondità si sono già formate o si formeranno". E questo significa "affrettare la liquidazione, di fatto inevitabile, della vecchia struttura del rapporti fondiari e dar vita ad una nuova fase di movimento contadino".
E' importante, a questo punto, chiarire il motivo per cui il comunismo - che come corrente rivoluzionaria e antifascista trova immediati e ampi consensi nella massa rurale del Mezzogiorno - finisce, a partire dal '53, col perdere terreno, fino ad essere sopraffatto dalla corrente moderata di destra. Gli anni dal '44 al '48 sono anni di forza per il Pci. Ma l'adesione del popolo meridionale al partito non deriva da una corretta valutazione della politica comunista. Nasce, piuttosto, come reazione al fascismo e trova nella piattaforma del Pci quella componente rivoluzionaria che più si adatta agli stati d'animo del periodo. Il comunismo post-fascista è, in effetti, il solo a portare avanti e, anzi, ad alimentare le pretese del popolo. Un motivo questo che, se all'inizio servirà per egemonizzare il movimento contadino, in seguito segnerà la condanna per il partito stesso. Il Pci, infatti, compie l'errore di esasperare le tensioni del mondo rurale, e di sollevare in modo irresponsabile le attese dello stesso. Seguono rivendicazioni esagerate. Ed è a questo punto che la situazione sfugge di mano ai comunisti. Il Pci non ha quel potere politico necessario a soddisfare le pretese del popolo. il gioco passa così all'opposizione. Acquietatosi io spirito rivoluzionario, la massa contadina trova nella politica clientelare della Dc l'espressione più bassa, ma più proficua, di quella riforma solo teorizzata dalla sinistra. La resurrezione del popolo meridionale fallisce ancora, in modo banale, se vogliamo. Ma il popolo è lontano dagli insegnamenti gramsciani. Soprattutto, è saturo di parole.
L'accusa maggiore che il Pci fa alla Democrazia cristiana è, dunque, quella di aver preso in mano una situazione che esso solo ha voluto e determinato. Nel commentare l'azione e gli errori commessi dai comunisti, Manlio Rossi Doria così si esprime: "... Certamente la forza contrattuale che il partito comunista ha conquistato con questa sua azione nelle campagne ha molto influito nel determinare quell'azione: tuttavia, sarebbe in errore colui che volesse cercare una spiegazione puramente politica ed elettorale di questa vasta azione. E' perché le campagne erano in movimento che la forza politica del partito comunista si è sviluppata e non perché l'azione politica è stata intensa che le compagne si sono messe in movimento". E ancora, "se un punto debole c'è stato e c'è, specialmente oggi, mi sembra rappresentato da una certa tendenza anziché a voler concludere e consolidare su basi realistiche le conquiste di volta in volta possibili [ ... ] a prolungare uno stato di agitazione, forse nella speranza di poter più largamente influenzare gli strati contadini" (Discorso tenuto al 2° Congresso del Partito d'Azione in Roma, il 2 aprile 1947).
La Dc conquista, così, l'immeritato compito di dare soluzioni alla questione meridionale, accaparrandosi quel mondo contadino che prima ruotava intorno al Pci. E non può essere altrimenti. la svolta è inevitabile. Dal 1948, la Dc è diventata partito di maggioranza. Come quella maggioranza sia stata ottenuta, è storia, ormai. Già con il secondo Gabinetto De Gasperi, tutti i partiti minori erano stati neutralizzati. Il clima non era del migliori. I diritti democratici venivano costantemente calpestati; i rappresentanti dei partiti proletari erano stati esclusi dai vari ministeri. Il Paese viveva in un contesto paternalistico e clientelare. Da parte loro, gli americani pretendevano, in cambio degli aiuti economici, la garanzia di un governo stabile. E ciò significava restaurazione nei postichiave dei vecchi uomini del regime. Contro questa politica governativa nasce nel '48, sotto il simbolo di Garibaldi, il Fronte Popolare, al quale aderiscono tutte le forze rimaste fedeli alla Costituzione. Nasce in vista delle elezioni, allo scopo di scongiurare il pericolo di una vittoria democristiana. Ma è un'impresa ardua. La Dc ha due potenti alleati: gli americani, che minacciano di sospendere gli aiuti del Piano Marshall in caso di vittoria del Fronte; e il Vaticano che, tramite Pio XII, minaccia di scomunica tutti coloro che non voteranno Dc. E il gioco è fatto. Da quel momento si mette in moto un ampio processo di restaurazione del potere borghese; un processo che ha nel tentato assassinio di P. Togliatti (14 luglio 1948), leader del partito comunista, la sua espressione più sanguinosa. Il proletariato ègonfio di sdegno. le tensioni si inaspriscono. Operai e contadini abbandonano i posti di lavoro. Nel Nord, una fitta rete di scioperi paralizza l'attività produttiva. Nel Sud, il movimento di occupazione delle terre incolte fa vacillare il potere agrario. Per un momento il Paese sembra veramente sull'orlo della rivoluzione. Ma la reazione riprende, più agguerrita che mai, sotto forma di arresti e di rappresaglie. La protesta, tuttavia, non accenna a spegnersi. Il governo è costretto a dare risposte di carattere legislativo alle classi popolari.
La vittoria moderata porta, dunque, alla ricostituzione del potere agrario. Ma all'opera di restaurazione, nel Sud, dei vecchi equilibri sociali deve essere data una motivazione ben più ampia della semplice simpatia che Dc e Vaticano possono nutrire verso la reazione. Ciò che sfugge al movimento operaio e contadino dei periodo è proprio la considerazione che la politica agraria moderata è parte integrante del modello di sviluppo in moto dalla Dc a livello nazionale, al fine di ristrutturare l'economia del Paese. Un modello di sviluppo che si basa sul potenziamento, nel Nord, dell'industria capitalistica, quale unico vero settore trainante dell'economia. In questo quadro, la scelta della ruralità per il Mezzogiorno diventa un passo obbligato. l'aumento della capacità produttiva nell'industria non si accompagna, infatti, ad un corrispondente aumento dell'occupazione. Anzi. Nella maggior parte del casi, ristrutturare significa espellere mano d'opera. Da qui la necessità di un "settore-spugna", in grado di assorbire la forza lavoro in soprannumero. E la scelta non può che ricadere sul l'agricoltura. E in considerazione di questo disegno che possiamo comprendere appieno l'interesse della classe politica dominante perché nel Sud permango il vecchio stato di cose, con i vecchi padroni, con l'arretratezza feudale dei metodi di produzione. Proprio quell'arretratezza avrebbe consentito al settore di assorbire una quota della popolazione attiva di gran lunga superiore al necessario. Lo sfruttamento del mondo rurale a salari irrisori è, quindi, la posta da pagare per il "progresso" del Paese. I disegni di spesa pubblica riguardanti l'agricoltura rientrano in questo contesto, servono per coprire questo piano iniquo e per placare il malcontento popolare. Il 12 maggio 1950, viene presentato il primo disegno di legge fondiaria: la cosiddetta "Legge Silana", atta a regolare la redistribuzione delle terre nel comprensorio calabrese. Segue la "Legge stralcio" del 21 ottobre 1950, che prevede l'esproprio di oltre 700 mila ettari di terra, attraverso enti di riforma appositamente creati nei "territori suscettibili di trasformazione fondiaria o agraria". Sempre nel 1950, nasce la Cassa per il Mezzogiorno, con il compito - almeno per i primi cinque anni di attività - di sostenere la debole agricoltura meridionale, tramite piani di bonifica, di irrigazione, di acquedotti, di rimboschimenti, di strade. Non bastava, infatti, espropriare le terre e assegnarle ai contadini: "I legislatori [ ... ] sapevano che quella che si ripartiva non era ricchezza, ma miseria, la grande miseria di un ettaro di pietre e deserto" (Aldo Bello, Terzo Sud).
Questa prima fase della politica meridionalistica governativa viene denominata della "preindustrializzazione". la Cassa, infatti, ha anche il compito di intervenire nel campo delle infrastrutture civili, allo scopo di gettare le basi per un futuro decentramento dell'industria dal Nord al Sud. Quello che l'istituto ha fatto è noto a tutti. Quello che forse è meno noto è che, per la realizzazione degli interventi, essa ha dato lavoro a centinaia di uomini, abituandoli ad un salario decente, una vita migliore. Solo che - terminati i lavori - quegli uomini non sono più disposti a sottostare allo sfruttamento degli agrari. Il ritorno nei campi diventa sempre più difficile.
Riforma agraria e Cassa per il Mezzogiorno sono, quindi, la risposta che il governo centrista dà alla massa crescente di rivendicazioni popolari. Si tratta, senza dubbio, di interventi che mettono in crisi l'assetto latifondistico della società meridionale. Ma non per questo ne migliorano la struttura. Sono piuttosto una risposta contingente, un rimedio di emergenza, tendente solo a placare la fame di terra del mondo contadino.
Scrive Renzo Stefanelli: "L'intervento nell'agricoltura venne visto come un canale della spesa pubblica (bonifiche, rimboschimenti, irrigazione) tendente a rafforzare per quanto possibile la domanda interna [ ... ] Le strutture agricole sono considerate soprattutto dal punto di vista del loro riassetto, della moderazione dei fenomeni di disgregazione e di esodo, della compatibilità, con l'equilibrio sociale, dei processi che vi si verificano: tutti punti di vista che possono offrire vari appigli positivi, ma che escludono un ruolo propulsore delle attività agricole nello sviluppo del sistema economico... ".
Quel ruolo propulsore presuppone una riforma agraria "generale", che, oltre al latifondo, spezzi anche la vecchia concezione del diritto di proprietà: "Nelle condizioni della Riforma agraria generale la proprietà cessa di essere un capitale liberamente utilizzabile, un titolo di rendita, interesse e profitto, per presentarsi essenzialmente come capitale strumentale, la cui valutazione è strettamente connessa alla realizzazione della produzione" (R. Stefanelli, in Lotte agrarie e modello di sviluppo 1947-1967).
Posta in termini diversi, l'azione pubblica si riduce ad un intervento paternalistico e di carattere straordinario, che di Riforma conserva solo il nome. In pratica, la questione si impernia sul nesso esistente tra "titolarità del diritto di proprietà e potere di destinazione del bene".
L'uso produttivo della terre deve condizionare il diritto di proprietà. Solo così le rendite parassitarie potranno essere eliminate. Ma il governo va in direzione contraria, come dimostra l'esito della battaglia per "l'imponibile" di mano d'opera. L'imponibile aveva una duplice finalità: assicurare la stabilità del lavoro nei campi, e migliorare la terra attraverso una produzione più razionale. Sul significato e sulla funzione dell'imponibile, riportiamo uno stralcio del documento pubblicato dalla Confederterra e dalla Federbraccianti, in occasione del secondo Congresso nazionale (1949): "Si tratta per i lavoratori di aumentare le giornate di occupazione, quindi di guadagnare di più; per gli agrari di spendere una parte del loro guadagni per fare nuovi investimenti nelle aziende * per coltivare in modo razionale le terre * vantaggio del disoccupati e della produzione. Ciò spiega la resistenza ad oltranza degli agrari di fronte ad ogni richiesta di imponibile, e le loro manovre e speculazioni per sottrarvisi quando esso sia stabilito per legge o per accordo sindacale. In un periodo della storia, quale quello che attraversiamo, in cui i grandi proprietari della terra ed i grandi conduttori capitalisti hanno perduto ogni preoccupazione produttivistica e si preoccupano solo di rubare alla terra ed ai contadini tutto ciò che è possibile; in un periodo di regresso e di stagnazione dell'agricoltura, la lotta per l'imponibile è una delle lotte fondamentali che I braccianti e salariati agricoli debbono condurre non solo nel loro interesse, ma nell'interesse generale dell'economia agricola... ".
Con una sentenza pubblicata il 30 dicembre 1958, la Corte costituzionale annulla gli imponibili di mano d'opera, perché considerati in contrasto con gli articoli 38-41-42-44-23 e 3 della Costituzione. I punti sui quali si impernia la dichiarazione di illegittimità sono i seguenti:
a) Con l'imponibile, l'assistenza ai disoccupati viene fatta pesare sull'azienda agricola, quando, invece, dovrebbe essere fornita da appositi organi statali. Inoltre,
b) la libera iniziativa economica dei conduttori delle aziende agricole viene di fatto limitata dai vincoli dell'imponibile in materia di assunzione di mano d'opera e di interruzione del rapporto di lavoro.
Nell'interpretazione della Corte è chiara la volontà di ridare piena autonomia alla proprietà privata, sganciandola da scopi produttivistici ed occupazionali. E questo in linea con la politica di "laissez-faire", ma in aperto contrasto sia con il dettato costituzionale, la dove sancisce il diritto al lavoro per ogni cittadino, sia con il perseguimento di una riforma agraria che sia veramente "generale".
D'altra parte, lo stesso modo di condurre gli espropri limita la portata generale che l'intervento dovrebbe assumere. Secondo l'art. XI° della Carta nazionale dei braccianti e salariati (Bologna, 15-18 ottobre 1952), "una profonda Riforma agraria, orientata nella direzione del rispetto dei principi sociali sanciti dalla Costituzione, deve portare alla fissazione di un limite generale e permanente della proprietà terriera, alla distribuzione della terra espropriata ai contadini senza o con poca terra e alla riforma dei contratti agrari". In realtà (Art. XII° Carta nazionale), "a quasi due soli mesi di distanza dai termini stabiliti dalle leggi, gli espropri non superano i 250 mila ettari, dei quali solo 80 mila assegnati... ".
Infatti, "nell'assegnazione delle terre, gli enti procedono con grave ritardo e in genere essi puntano a liberare le terre da coloro che attualmente le coltivano per fare un unico "monte terra" da redistribuire a gruppi ristretti di assegnatari, "selezionati" con criteri di discriminazione politica". L'assegnazione delle terre, in pratica, lungi dal concretizzarsi in un diritto di tutti i contadini, in linea con il dettato costituzionale, viene utilizzata dalla Dc come arma di sotto-governo per aumentare i consensi di una parte del mondo rurale e per smembrare, al tempo stesso, l'unità della controffensiva popolare. Alla resa dei conti, anche la situazione degli assegnatari "privilegiati" non èdelle migliori. Essi vivono in uno stato altamente precario e devono sottostare ai contratti strozzineschi imposti dagli Enti di Riforma. Inoltre, numerosi poderi vengono illecitamente quotizzati al di sotto della "minima unità colturale" e danno redditi del tutto inadeguati per la sussistenza della famiglia colonica.
"La buona novella / l'aspettammo sempre / mirando stelle e pietre / ed alberi malati / Ogni giorno con zappe ed aratri / coltivammo cuori di rocce / raccogliemmo piante bruciate / raccogliemmo raggi di sole / Ovunque andiamo il Sud ci accora / terre assetate, piante piegate / uomini che non sanno più amare / Neppure l'aria puoi dire che è tua / le case si frantumano al sole" (Lucio Romano, Lamento del contadino).
Nel "nuovo" Mezzogiorno si consuma, così, il dramma di un'altra generazione. I miglioramenti - circoscritti - restano, per il resto del Sud, solo parvenza, amara parvenza. I contadini guardano attoniti e non sanno più da che parte stare. Le forze del potere hanno scoperto il proprio gioco. Il destino è quello di sempre. L'alternativa una sola: abbandonare la terra, spezzare la maledizione. Scelta sofferta ma inevitabile, ormai. "... Oh il Sud è stanco di trascinare morti / in riva alle paludi di malaria / è stanco di solitudine, stanco di catene / è stanco nella sua bocca / delle bestemmie di tutte le razze / che hanno urlato morte con l'eco dei suoi pozzi / che hanno bevuto il sangue dei suo cuore / ... Più nessuno mi porterò del Sud ... " (S. Quasimodo, Lamento per il Sud).
Esodo come espressione di una politica fallimentare. Esodo come ultima protesta: la protesta - informe e silenziosa - di un popolo di vinti. Vanno lontano: in Europa o in America. Anche il Nord li attende, per alleggerire. il peso contrattuale degli operai. E li chiamano "terroni", questi uomini rozzi, raggrinziti dal sole. Portano appresso storie di pietre e di catene. E il soffio testardo del vento del Sud.

(Fine)


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