Dal
corpo sociale italiano vanno emergendo fatti che provocano la nostra
indignazione o la nostra preoccupazione politica. Si tratta di episodi
di violenza o di manifestazioni di separatezza, la definizione che immediatamente
li accomuna è quella di razzismo. Razzismo è la negazione
della legittimità di essere "altri", l'asserzione di
un primato che ci ferisce, la proclamazione di una graduatoria di qualità
intrinseche che premia alcuni a danno di altri. Le scritte sui muri,
i temi in classe, le spedizioni punitive, le lettere ai giornali, gli
atteggiamenti aberranti degli assertori di razze più o meno pure,
o di intelligenze più o meno superiori, i proclami idioti di
leghe e di lighe, turbano, infastidiscono, e possono destare uguali
reazioni, sola mutate di segno, ma altrettanto inaccettabili. E' evidente
che siamo attraversati dalla divisione, dal dissenso, dal rifiuto. Il
figlio non vuole il padre (è più facile che essergli competitivo),
il sesso non vuoi essere distinto ab antiquo, il Nord taccia il Sud
di invadenza e di maleducazione e di invasione e di sprechi, e via interminabilmente
elencando. Più in alto, si fanno declinare le ideologie, i classici
vengono coperti di funeree lenzuola, la storia è dissipata nella
cronaca, l'immagine crede di poter rompere con la parola, il quotidiano
non vuoi più essere un riverbero dell'eterno. E' (o sembra) l'età
del particolare trionfante, dello slogan che sostituisce l'argomentazione,
dell'effetto che non tiene in alcun conto la causa, dell'attimo che
non fugge più ma si camuffa da atemporalità. Non più
passioni, ma pretesti; non più odii e amori, ma relazioni sentimentali
a tempo. Anche la scienza è messa in dubbio, e le "magnifiche
sorti e progressive" non sono la certezza di nessuno.
Lo slalom tra i valori, la caduta delle ideologie, hanno dilavato il
cemento connettiva, messo il silenzio alle trombe, fatto ammainare le
bandiere. Tutto ciò che era stato unito "in nome di",
viene sottoposto a critica sommaria e gettato tra le masserizie in soffitta.
Niente incute paura, niente può pretendere obbedienza. Rispetto,
cortesia, costume, forme di qualche cosa sono maschere abbandonate.
Si diffonde il "tu" che parifica e spinge a non togliersi
il cappello. Gli anziani non fanno più testo, la gioventù
arrembante li mette in clinch e ogni esperienza vuoi cominciare dall'"io".Dalle
radici si è passati alla radicalità.
Ma, curiosamente, è l'ufficialità del sociale -largamente
inteso - ad essere depennata. Se si strappano parole d'ordine e costumanze,
è per togliere una pellicola avvolgente. Si vuole aprire il regalo
di una civiltà impacchettata e normalistica, per vedere meglio
di che cosa è fatta lei e come eravamo noi, per riconoscere come
potremmo essere. Ci vogliamo rifare secondo nuove ipotesi.
Ecco il motivo per cui certi episodi sono indicativi di fenomeni che
esigono meno moralistico commento e più metodica osservazione.
Intanto, rallegriamoci di vivere un'età di crisi. Niente di meglio
dei cosiddetti (stupidamente) "secoli bui". In questi secoli
fermenta il nuovo, si delineano movimenti e assetti, nascono nuove culture.
Sono i secoli nel corso dei quali si prende posizione, si è chiamati
a scegliere, e il destino di essere uomini non è elargito perla
nostra, sonnolenza, ma vuoi essere misura di una dignità e di
un impegno. Sono i tempi del magma, del dubbio, dell'esplorazione e
della formulazione. Tutto viene rimestato, tutto è confusione
e soprattutto lotta, corsa verso un futuro che è dietro l'angolo,
fuor di vista. Allora, può essere che il fiume trasporti relitti,
che oro e fango provvisoriamente si amalgamino, che voci di falsi profeti
si levino a disturbare i maestri. Ma è anche storia viva, in
quei momenti.
Viviamo noi, ora, questo tipo di storia, che vuole Inventare, e classificarsi
diversamente? Siamo a un passaggio, a uno snodo di liberazione di cose
vecchie e rotte? Stiamo seppellendo, o riscoprendo?
Di botti, senza dubbio, risuona il mando. Stiamo smettendo gli abiti
del conformismo di ieri: che non è poi detto che vengano sostituiti,
se non da un conformismo che l'industria propone (o impone) forse di
minor gusto. Ma tenendo fuori dall'uscio ogni indignazione o tentennamento,
per sforzarci di capire la motivazione di certi umori o rigurgiti, proviamo
a leggere la realtà con occhi indifferenti, in buona atarassia.
Troviamo un minimo comune denominatore, che è un atteggiamento
di difesa, sotteso all'apparente aggressività. In effetti, spesso
l'egoismo nasconde la paura, e il molieriano Avaro ne è esempio,
in commedia e fuori.
Che tipo di paura? Quella di essere emarginati, di andare fuori gioco,
di essere a rischio, di perdere identità. Assistiamo a un ritorno
della memoria e, attraverso di essa, della storia. E memoria di tribù
e di municipii e di lingue proprie e di corporazioni, quando era più
facile e necessaria stare insieme e riconoscersi in comunità
e darsi coraggio di fronte a nemici palesi. Adesso, il nemico è
impalpabile, sospeso, infiltrato ovunque, non ferisce di spada, ma arriva
con radiazioni e con cellule guaste. Sembra essere in atto una specie
di recupero di fisionomie e di suoni perduti. Più volte repressi,
sembrano risollevarsi e ricomporsi connotati autoctoni, culture private,
segni dell'individuo. Certe crisi politiche sono crisi del concetto
di massa, che è così prossimo a quello di orda, che va
tenuta assieme da miti e promesse di paradisi "oltre" e da
discipline aggreganti. Rispunta dunque l'antico tessuto italico, fatto
di campanili e comuni, rustici o no, di ducati e di torri, di dialetti
differenziati, di quartieri e di contrade, e di storie più tragiche
che grandi.
Il revival del municipio, se significa (e, al fondo delle cose, lo significa)
recupero di origini, salvaguardia di cultura, approfondimento dell'"io"
e dei "come" specifici, è rianimazione di una individualità
sociale, disattesa dal rullo compressore dei mass media, anche mediante
una restaurazione del linguaggio come espressione fertile di fantasia,
autonomia e poesia; se tale ripresa è collocamento in una storia
magari piccola e pur gloriosa, è dunque ricerca e ritrovamento
dei Padri, è risanamento, anzi ricostituzione etica, civile,
culturale: essa dev'essere accolta come un'indicazione positiva di virtualità
non inaridite. Ma queste sillabe non debbono portare a un riflusso,
all'operazione falsa di una separazione che tuttavia non esita a fruire
dei beni materiali abbondantemente messi a disposizione. Ora non ci
si allea o ci si combatte con un vicino che è appena al di là
del fiume. Le parole, le armi, le idee ci girano sul capo. Il problema
è di accordare l'universale col particolare, senza cadere nel
generico o nel partigiano: l'uno e l'altro, due totalitarismi.
Si può persino ipotizzare un senso tolemaico dell'uomo posto
al centro, ossia si può supporre un inconscio riconoscimento
di una primogenitura entro cicli più sicuri e chiari di questo,
penetrato dai satelliti occhiuti e offensivi. Lambiti dall'angoscia
esistenziale, inconsapevolmente cerchiamo qualche sicurezza prima derisa.
Ma la violenza che esclude e divide allontana in assoluto il "progetto,
uomo", che è progetto di uomini contati ad uno ad uno, ma
tutti uguali e tutti solidali. Certi gruppi o leghe o corporazioni sono
politicamente ambigui e moralmente di bassissimo profilo. E certe azioni
soltanto delitti. Con l'attenuante, se non dell'infermità mentale,
dell'ignoranza. Sciupano un'eredità ancestrale, il loro primordiale
sigillo, adoperando una "cultura" come e per un potere, anziché
per un dialogo creativo.
Roma capoccia
Il sindaco della
capitale chiede scusa in televisione ad Ametee Debretzion, la signora
di colore insultata in un autobus. Porgendo i fiori alla profuga eritrea,
oggi cittadina italiana con regolare passaporto, il sindaco dice che
l'episodio è ignobile, certamente un fatto isolato. Roma, aggiunge,
non è una città razzista. Il sindaco è informato
male. Oppure sa di mentire. Ecco alcuni episodi emblematici.
Un giornalista della Rai. Ha in casa un domestico indiano. Una mattina
bussa alla porta un ragazzo che dal vicino supermarket porta la spesa.
E' giovedì, giorno di riposo per il domestico. Il ragazzo dice:
"Dotto', vedo che ha aumentato le ordinazioni delle banane, sono
per lo scimmione che avete in casa?".
Una salsamenteria alla Balduina. Un ragazzo di colore portava nelle
case dei clienti le ordinazioni fatte per telefono. I clienti del
quartiere hanno protestato: "Non vogliamo che le nostre cibarie
siano sfiorate dalle mani di un negro". Il proprietario della
salsamenteria è costretto a licenziare il ragazzo di colore.
Gli viene chiesto di denunciare l'accaduto in tv: "Mi volete
rovinare, perderei tutta la clientela e sarei minacciato dagli altri
negozianti della zona: già ce l'hanno con me perché
ho dato lavoro a un negro".
Una pizzeria nei pressi di piazza del Popolo. Un gruppo di giovani.
Uno racconta questa barzelletta: "Una mosca entra in uno scompartimento
ferroviario, dove siedono un inglese, un nero e un marocchino. L'inglese
la allontana con un gesto sdegnoso, il nero cerca di mangiarla, il
marocchino l'afferra e dice: "Vu' cumprà?". Tutti
ridono. Il ragazzo che ha raccontato la storia dice: "E' la più
bella barzelletta che ho sentito alla televisione". Una professoressa
di un liceo romano. "Dobbiamo preservare la nostra identità
etnica da questa invasione dei popoli del Terzo Mondo". In altre
parole, è la difesa della razza. Simili a queste, le risposte
di altri insegnanti: hanno fatto seguito alle dichiarazioni degli
studenti che nelle interviste non hanno saputo distinguere eritrei,
somali, marocchini, filippini, tutti confusamente identificati come
"marocchini". Ladispoli. Ormai è quasi una frazione
di Roma, ed è in subbuglio. Molti vorrebbero che la gente di
colore fosse allontanata. Si apre un dibattito in un teatrino. Uno
si alza e dice: "Non sono razzista, ma voi dormireste in una
stanza dove prima ha dormito un negro?". La folla presente applaude.
Insofferenza anche nei confronti dei polacchi, numerosissimi in questa
città. Un vagone della metropolitana. Salgono quattro ragazze
somale. Due hanno un mantello bianco, quasi un costume tradizionale.
Un passeggero: "Eccoli, povera Italia nostra!". E rivolgendosi
alle ragazze: "Fatevi più in là, state al vostro
posto. Ma quando tornate al vostro paese?". Una delle ragazze
risponde: "Proprio voi italiani dite così, voi che siete
stati un popolo di emigranti, che siete andati in tutto il mondo?".
Quello ribatte: "Come ti permetti? Ti vuoi paragonare agli italiani?
Voi siete zulù e beduini". Nessuno interviene. Molti ridono.
Episodi colti qua e là, in gira per Roma capoccia. Ma la storia
della barzelletta televisiva dovrebbe far riflettere. Pregiudizi,
luoghi comuni, ignoranza vengono spesso favoriti dai mezzi di comunicazione
di massa. Una certa propaganda della sinistra ha avuto un effetto-boomerang.
Non a caso e non innocentemente sono riproposti in tv film americani
di trent'anni fa, con la visione della segregazione razziale praticata
allora negli Stati del Sud, col chiaro intento di mostrare certe piaghe
di quella società, e di gabbarle per attualità, a condanna
del mondo capitalistico. E così, per quella rappresentazione
della comunità nera, i razzisti di casa nostra si sentono giustificati,
e persino accreditati. Ma poco o nulla si è detto delle totali
trasformazioni avvenute nella società americana, dei 300 sindaci
di colore a capo delle maggiori città degli Stati Uniti, della
presenza dei volti neri nei notiziari televisivi americani, dei ruoli
di responsabilità dei neri nell'amministrazione americana.
A Manila, gli alberghi sono forniti della clinica medica e della clinica
dentistica, servizi sconosciuti anche negli Stati Uniti.Il Marocco
è ineccepibile per pulizia e igiene. L'Eritrea, che combatte
per l'indipendenza, ha il mare più limpido del mondo. Ma è
stato mai detto nulla, di tutto questo, in pubblico?
La società multirazziale non è alle porte, è
già dentro casa. Il passaporto italiano non ce l'ha solo la
profuga eritrea o il campione mondiale di pugilato venuto dallo Zaire.
Oggi i cittadini italiani di colore sono migliaia. Si dovrebbe imparare
a convivere con loro. E invece Ametee Debretzion continua a ricevere
lettere anonime: "Riprenderemo il fucile per far fuori dall'Italia
voi sporchi negri".
Le cifre del
Belpaese
Fenomeni sociali
come l'intolleranza razziale hanno un andamento irregolare. A periodi
di crisi acuta in cui, poniamo, tra settentrionali e meridionali sembra
alzarsi una cortina di incomprensione e di violenza, si alternano
parentesi di quiete, talmente prolungate e serene da far pensare a
un superamento del problema. Ma il pregiudizio, l'intolleranza, il
razzismo sono duri a morire; viaggiano, spesso inconfessati, sotto
pelle; si manifestano nel chiuso di una piccola comunità, nei
quotidiani rapporti interpersonali. E' probabile che la diffusione
di notizie relative a episodi di intolleranza razziale faccia da acceleratore
del fenomeno. Si spiegherebbe così, in parte, il repentino
proliferare di insofferenze nei confronti dei meridionali. Ma il discorso
va allargato anche nei confronti dei terzomondisti che approdano in
Italia per sfamarsi.
Squillano i titoli dei giornali e la domanda irrompe devastante: gli
italiani sono razzisti? Da un recente sondaggio della Makno e del
Corriere della Sera su "Gli italiani e il pregiudizio",
condotto su un campione di popolazione in età superiore ai
15 anni, sono venute fuori conferme (sì, gli italiani hanno
forti pregiudizi) e sorprese (gli intervistati del Nord esternano
prevenzione nei confronti dei meridionali e tendono a legittimarla
al punto da pensare che i meridionali si rapportino a loro con altrettanta
insofferenza). Ma è anche interessante apprendere che i settentrionali
riconoscono l'esistenza di pregiudizi nei confronti dei meridionali
in misura superiore ai meridionali stessi. Gli intervistati residenti
al Nord, ma meridionali di nascita, sono i soggetti che sdrammatizzano
maggiormente il -fenomeno. Sarà per una sorta di rimozione?
La domanda è: il pregiudizio antimeridionale è molto
diffuso? Risposte: sì, per il 73,7% degli intervistati del
Nord e per il 61% di quelli del Sud.
Il sondaggio Makno individua una zona del Nord dove l'insofferenza
antimeridionale è più forte. Gli intervistati che ritengono
"giustificabile un atteggiamento negativo nei confronti dei meridionali",
per il 29,6% risiedono nel Nord-Ovest e per il 39,3% nel Nord-Est
(Emilia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige). "Inoltre
- si legge nel rapporto Makno - le donne (24%, contro il 19,6% degli
uomini) e i cinquanta-sessantenni sono lievemente più presenti
in quest'area di esplicita pregiudizialità".
Gli stereotipi, come i pregiudizi, sono difficili da estirpare. Agli
italiani del Nord sono attribuiti: laboriosità (54,6%); egoismo
(38,8%); razzismo (47,3%). Agli italiani del Sud competono: simpatia
(45,6%); fantasia (59,7%); solidarietà (37,7%); pigrizia e
invadenza (58%); maleducazione (29,5%).
E qui l'indagine rivela alcuni risvolti. Se si analizzano le risposte
per aree geografiche, si scopre che la laboriosità attribuita
agli italiani del Nord è prevalentemente una autoattribuzione:
57% degli intervistati del Nord-Ovest, 76,2% del Nord-Est, 36% del
Sud. L'egoismo dei settentrionali trova d'accordo gli intervistati
delle varie regioni. La simpatia e la fantasia dei meridionali trova
d'accordo i campioni delle diverse aree, mentre la pigrizia dei meridionali
è indicata da quasi il 60% degli intervistati del Nord-Ovest
e il 71% del Nord-Est, contro il 47% del Sud. L'invadenza è
attribuita ai meridionali dal 73,4% degli intervistati del Nord, contro
il 37% del Sud. Makno ne ricava che "sui pregiudizi positivi
verso i settentrionali si concentrano soprattutto gli italiani del
Nord, mentre sui pregiudizi negativi i meridionali non si esprimono
peggio di quanto non facciano i settentrionali stessi. Sui pregiudizi
positivi nei confronti dei meridionali, Nord e Sud reagiscono in maniera
pressoché uguale, mentre sui pregiudizi negativi verso il Sud
i settentrionali, specie quelli del Nord-Est, si scatenano".
Un dato curioso: l'unico aggettivo che viene rifiutato è "antipatico"
(il 53% lo ritiene non attribuibile). Makno conferma che i più
sensibili al pregiudizio antimeridionale o antisettentrionale appartengono
alle fasce più disagiate socialmente, e con un livello di scolarità
basso.
E veniamo alle risposte riguardanti l'immigrazione extracomunitaria.
Anche qui una conferma: il problema dell'insofferenza nei confronti
dei terzomondisti - che, a causa degli spostamenti migratori, vengono
oggi a trovarsi nella condizione dei nostri meridionali in Germania,
in Francia, in Svizzera, negli anni '50 - esiste. Il 43% degli intervistati
riconosce che c'è intolleranza verso gli immigrati nordafricani.
Sei intervistati su dieci sono del parere che l'Italia dovrebbe limitare
l'ingresso degli stranieri. L'11,4% ritiene di dover sbarrare le frontiere.
Sarebbero, questi, circa cinque milioni di italiani, residenti più
frequentemente nel Centro, meno nel Nord, di età superiore
ai 45 anni, e appartenenti alle fasce più povere e meno istruite.
Sono soprattutto queste persone, inoltre, a temere ingiustamente che
"i nuovi terroni" vengono a portar via occasioni di lavoro.
Tra chi, invece, ritiene che l'Italia dovrebbe accogliere gli immigrati
(nove milioni di italiani circa), prevalgono le donne e i giovani
fino a 24 anni, studenti e insegnanti in testa. Per quanto riguarda
le relazioni sentimentali con gli stranieri in genere, con gli arabi
e con le persone di colore, il 38% degli intervistati "esprime
un atteggiamento fortemente etnocentrico". Vale a dire: non ne
vuoi sapere.Rileva Makno che "la difficoltà per una ipotetica
relazione con un nero è maggiormente espressa dagli intervistati
del Sud (26,2%) e dai cinquantenni (26,4%), mentre il partner arabo
"ha scarso appeal" tra gli intervistati del Nord-Ovest (12,4%),
tra le donne più che tra gli uomini, tra i giovani e i più
istruiti". Curiosamente, gli stranieri in genere risultano essere
poco graditi, come sposi, soprattutto dagli operai e dagli artigiani.
Queste, le cifre del Belpaese. Se la si vuoi vedere, la realtà
è sotto i nostri occhi.
Un veleno quotidiano
"Chi ti scrive
è un ultrà romanista incazzatissimo per quello che ha
scritto un burino bergamasco ( ... ). Egli parla di una loro gloriosa
impresa svoltasi a Roma dopo la partita Roma-Atalanta; è riuscito
a scrivere che i Wild Kaos hanno messo in fuga nientemeno che i Fedayn
Romanisti! Niente di più falso, vaccaro: voi bergamaschi eravate
ancora intenti a mungere e a tagliare legna quando i Fedayn scorrazzavano
per gli stadi italiani a picchiare e sfasciare ... ".
"Sporchi afro e ciaina maledetti, è inutile che lanciate
sfide accusandoci di vigliaccheria, i veri conigli siete voi ... ".
"Il tifoso avversario, lo considero uno come me, che potrebbe
anche essermi simpatico. Questo non mi impedisce di tirarlo giù,
se c'è uno scontro. E' un po' come in guerra. Non hai niente
contro il tuo nemico, però lo uccidi lo stesso ... ".
"E quando un terrons, mentre pascoli nelle tue pampas, vuole
un po' di verdame, due cartelle e una freyata, e che non caghi più
il cazzo ( ... ). La stragrande maggioranza dei new paninari sono
dei manichini buoni solo a farsi depellare anche il culo dai Ciaina
e dai Terrons ... ".
"Lo sport praticato dai marocchini è stato il taroccamento
sulle spiagge ... ".
"Il 23 giugno ce l'ha insegnato, uccidere un interista non è
reato!!!".
Sono spezzoni di lettere scelte a caso, da giornalini normalmente
presenti in ogni edicola e piuttosto diffusi tra gli adolescenti,
soprattutto nelle fasce dai 15-17 anni. Sarebbe semplicistico sdrammatizzare,
far finta che si tratti di battute episodiche o di casi isolati. Siamo
invece di fronte a concetti e a linguaggi che sono anche simbolo di
comportamenti, di attese, di stili di vita. Siamo cioè di fronte
a una subcultura giovanile che spazia su tanti campi (tifo calcistico,
moda, sesso, tempo libero) rispetto ai quali non è difficile
identificare alcuni elementi classici del razzismo più triste.
Non ci si può stupire se la cronaca di tutti i giorni offre
un ventaglio drammatico di violenza quotidiana: le frasi e i gesti
dell'intolleranza sono intorno a noi, nei "fumetti per adulti"
come nei giornalini per ragazzi, negli spot pubblicitari allusivi
e violenti e nelle sequenze televisive. Ed anche se non dobbiamo enfatizzare
il peso e la gravità di certe situazioni, una responsabilità
collettiva esige una riflessione più attenta, che scenda a
indagare le radici nascoste del "razzismo di tutti i giorni",
quale si può osservare nelle battute della vita quotidiana
o nelle pagine di un fumetto o nei fotogrammi di un telefilm. Basta
guardarsi intorno, nelle strade, alle fermate dei tram, nelle stazioni
ferroviarie, e scorrere i graffiti urbani sospesi tra demenza e marginalità,
per cogliere gli abissi di differenziazione culturale e sociale che
convivono nella città: all'indomani della tragedia allo stadio
belga di Heysel, il Piemonte venne tappezzato di scritte "Grazie,
Liverpool".
Sotto la diversificazione e l'eterogeneità del gergo, è
possibile ricostruire atteggiamenti e valori nascosti, i quali coniugano
il razzismo con l'autoritarismo, e ricompongono una tipologia di comportamento
che è stata efficacemente studiata in una ricerca classica,
pubblicata nel 1950. Fu svolta da Adorno e dai suoi collaboratori,
rifugiatisi negli Stati Uniti dopo la minaccia nazista portata contro
la "Scuola di Francoforte" e i suoi tentativi di intrecciare
psicoanalisi, marxismo e scienze sociali. Promossa dal Comitato ebraico
americano, la ricerca sulle caratteristiche dell'individuo "potenzialmente
fascista" uscì col titolo emblematico "La personalità
autoritaria": gli atteggiamenti mentali studiati attraverso la
famosa "Scala F" offrono ancora, per chi voglia capire le
radici del razzismo nella nostra vita quotidiana, dati attualissimi.
Gli elementi della personalità autoritaria sarebbero i seguenti:
adesione rigida ai valori convenzionali tipici delle classi medie;
atteggiamento acritico verso l'Autorità; aggressività
verso coloro che criticano o violano i valori tradizionali convenzionali
accettati; avversione per gli individui ricchi di vita interiore,
di animo delicato e sognatore; identificazione inconscia col potere;
esaltazione della forza fisica e della virilità; atteggiamento
tendenzialmente cinico e pessimista verso i valori "positivi"
dell'uomo; tendenza a esagerare la gravità della situazione
in cui si vive, specie sotto il profilo della criminalità;
preoccupazione eccessiva per il comportamento sessuale e per le sue
degenerazioni; intolleranza verso le minoranze in genere; fiducia
diffusa verso i metodi "forti" in campo educativo e giudiziario.
Come tante tessere di un mosaico, appaiono così chiari i nessi
che collegano tra loro marginalità culturale, razzismo, autoritarismo,
esaltazione della virilità, concezione della donna in termini
di subalternità e come terreno di caccia "machista".
Allora, non dobbiamo meravigliarci dei tanti episodi di intolleranza
che la cronaca mette in rilievo. Essi sono determinati da molti e
compiessi fattori, ma anche da una mentalità diffusa, da regole
e pratiche sociali giustificate con colpevole leggerezza persino dalle
pagine di un giornalino per ragazzi.
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