§ Razzismo

La guerra dei campanili




Ada Provenzano



Dal corpo sociale italiano vanno emergendo fatti che provocano la nostra indignazione o la nostra preoccupazione politica. Si tratta di episodi di violenza o di manifestazioni di separatezza, la definizione che immediatamente li accomuna è quella di razzismo. Razzismo è la negazione della legittimità di essere "altri", l'asserzione di un primato che ci ferisce, la proclamazione di una graduatoria di qualità intrinseche che premia alcuni a danno di altri. Le scritte sui muri, i temi in classe, le spedizioni punitive, le lettere ai giornali, gli atteggiamenti aberranti degli assertori di razze più o meno pure, o di intelligenze più o meno superiori, i proclami idioti di leghe e di lighe, turbano, infastidiscono, e possono destare uguali reazioni, sola mutate di segno, ma altrettanto inaccettabili. E' evidente che siamo attraversati dalla divisione, dal dissenso, dal rifiuto. Il figlio non vuole il padre (è più facile che essergli competitivo), il sesso non vuoi essere distinto ab antiquo, il Nord taccia il Sud di invadenza e di maleducazione e di invasione e di sprechi, e via interminabilmente elencando. Più in alto, si fanno declinare le ideologie, i classici vengono coperti di funeree lenzuola, la storia è dissipata nella cronaca, l'immagine crede di poter rompere con la parola, il quotidiano non vuoi più essere un riverbero dell'eterno. E' (o sembra) l'età del particolare trionfante, dello slogan che sostituisce l'argomentazione, dell'effetto che non tiene in alcun conto la causa, dell'attimo che non fugge più ma si camuffa da atemporalità. Non più passioni, ma pretesti; non più odii e amori, ma relazioni sentimentali a tempo. Anche la scienza è messa in dubbio, e le "magnifiche sorti e progressive" non sono la certezza di nessuno.
Lo slalom tra i valori, la caduta delle ideologie, hanno dilavato il cemento connettiva, messo il silenzio alle trombe, fatto ammainare le bandiere. Tutto ciò che era stato unito "in nome di", viene sottoposto a critica sommaria e gettato tra le masserizie in soffitta. Niente incute paura, niente può pretendere obbedienza. Rispetto, cortesia, costume, forme di qualche cosa sono maschere abbandonate. Si diffonde il "tu" che parifica e spinge a non togliersi il cappello. Gli anziani non fanno più testo, la gioventù arrembante li mette in clinch e ogni esperienza vuoi cominciare dall'"io".Dalle radici si è passati alla radicalità.
Ma, curiosamente, è l'ufficialità del sociale -largamente inteso - ad essere depennata. Se si strappano parole d'ordine e costumanze, è per togliere una pellicola avvolgente. Si vuole aprire il regalo di una civiltà impacchettata e normalistica, per vedere meglio di che cosa è fatta lei e come eravamo noi, per riconoscere come potremmo essere. Ci vogliamo rifare secondo nuove ipotesi.
Ecco il motivo per cui certi episodi sono indicativi di fenomeni che esigono meno moralistico commento e più metodica osservazione. Intanto, rallegriamoci di vivere un'età di crisi. Niente di meglio dei cosiddetti (stupidamente) "secoli bui". In questi secoli fermenta il nuovo, si delineano movimenti e assetti, nascono nuove culture. Sono i secoli nel corso dei quali si prende posizione, si è chiamati a scegliere, e il destino di essere uomini non è elargito perla nostra, sonnolenza, ma vuoi essere misura di una dignità e di un impegno. Sono i tempi del magma, del dubbio, dell'esplorazione e della formulazione. Tutto viene rimestato, tutto è confusione e soprattutto lotta, corsa verso un futuro che è dietro l'angolo, fuor di vista. Allora, può essere che il fiume trasporti relitti, che oro e fango provvisoriamente si amalgamino, che voci di falsi profeti si levino a disturbare i maestri. Ma è anche storia viva, in quei momenti.
Viviamo noi, ora, questo tipo di storia, che vuole Inventare, e classificarsi diversamente? Siamo a un passaggio, a uno snodo di liberazione di cose vecchie e rotte? Stiamo seppellendo, o riscoprendo?
Di botti, senza dubbio, risuona il mando. Stiamo smettendo gli abiti del conformismo di ieri: che non è poi detto che vengano sostituiti, se non da un conformismo che l'industria propone (o impone) forse di minor gusto. Ma tenendo fuori dall'uscio ogni indignazione o tentennamento, per sforzarci di capire la motivazione di certi umori o rigurgiti, proviamo a leggere la realtà con occhi indifferenti, in buona atarassia. Troviamo un minimo comune denominatore, che è un atteggiamento di difesa, sotteso all'apparente aggressività. In effetti, spesso l'egoismo nasconde la paura, e il molieriano Avaro ne è esempio, in commedia e fuori.
Che tipo di paura? Quella di essere emarginati, di andare fuori gioco, di essere a rischio, di perdere identità. Assistiamo a un ritorno della memoria e, attraverso di essa, della storia. E memoria di tribù e di municipii e di lingue proprie e di corporazioni, quando era più facile e necessaria stare insieme e riconoscersi in comunità e darsi coraggio di fronte a nemici palesi. Adesso, il nemico è impalpabile, sospeso, infiltrato ovunque, non ferisce di spada, ma arriva con radiazioni e con cellule guaste. Sembra essere in atto una specie di recupero di fisionomie e di suoni perduti. Più volte repressi, sembrano risollevarsi e ricomporsi connotati autoctoni, culture private, segni dell'individuo. Certe crisi politiche sono crisi del concetto di massa, che è così prossimo a quello di orda, che va tenuta assieme da miti e promesse di paradisi "oltre" e da discipline aggreganti. Rispunta dunque l'antico tessuto italico, fatto di campanili e comuni, rustici o no, di ducati e di torri, di dialetti differenziati, di quartieri e di contrade, e di storie più tragiche che grandi.
Il revival del municipio, se significa (e, al fondo delle cose, lo significa) recupero di origini, salvaguardia di cultura, approfondimento dell'"io" e dei "come" specifici, è rianimazione di una individualità sociale, disattesa dal rullo compressore dei mass media, anche mediante una restaurazione del linguaggio come espressione fertile di fantasia, autonomia e poesia; se tale ripresa è collocamento in una storia magari piccola e pur gloriosa, è dunque ricerca e ritrovamento dei Padri, è risanamento, anzi ricostituzione etica, civile, culturale: essa dev'essere accolta come un'indicazione positiva di virtualità non inaridite. Ma queste sillabe non debbono portare a un riflusso, all'operazione falsa di una separazione che tuttavia non esita a fruire dei beni materiali abbondantemente messi a disposizione. Ora non ci si allea o ci si combatte con un vicino che è appena al di là del fiume. Le parole, le armi, le idee ci girano sul capo. Il problema è di accordare l'universale col particolare, senza cadere nel generico o nel partigiano: l'uno e l'altro, due totalitarismi.
Si può persino ipotizzare un senso tolemaico dell'uomo posto al centro, ossia si può supporre un inconscio riconoscimento di una primogenitura entro cicli più sicuri e chiari di questo, penetrato dai satelliti occhiuti e offensivi. Lambiti dall'angoscia esistenziale, inconsapevolmente cerchiamo qualche sicurezza prima derisa. Ma la violenza che esclude e divide allontana in assoluto il "progetto, uomo", che è progetto di uomini contati ad uno ad uno, ma tutti uguali e tutti solidali. Certi gruppi o leghe o corporazioni sono politicamente ambigui e moralmente di bassissimo profilo. E certe azioni soltanto delitti. Con l'attenuante, se non dell'infermità mentale, dell'ignoranza. Sciupano un'eredità ancestrale, il loro primordiale sigillo, adoperando una "cultura" come e per un potere, anziché per un dialogo creativo.

Roma capoccia

Il sindaco della capitale chiede scusa in televisione ad Ametee Debretzion, la signora di colore insultata in un autobus. Porgendo i fiori alla profuga eritrea, oggi cittadina italiana con regolare passaporto, il sindaco dice che l'episodio è ignobile, certamente un fatto isolato. Roma, aggiunge, non è una città razzista. Il sindaco è informato male. Oppure sa di mentire. Ecco alcuni episodi emblematici.
Un giornalista della Rai. Ha in casa un domestico indiano. Una mattina bussa alla porta un ragazzo che dal vicino supermarket porta la spesa. E' giovedì, giorno di riposo per il domestico. Il ragazzo dice: "Dotto', vedo che ha aumentato le ordinazioni delle banane, sono per lo scimmione che avete in casa?".
Una salsamenteria alla Balduina. Un ragazzo di colore portava nelle case dei clienti le ordinazioni fatte per telefono. I clienti del quartiere hanno protestato: "Non vogliamo che le nostre cibarie siano sfiorate dalle mani di un negro". Il proprietario della salsamenteria è costretto a licenziare il ragazzo di colore. Gli viene chiesto di denunciare l'accaduto in tv: "Mi volete rovinare, perderei tutta la clientela e sarei minacciato dagli altri negozianti della zona: già ce l'hanno con me perché ho dato lavoro a un negro".
Una pizzeria nei pressi di piazza del Popolo. Un gruppo di giovani. Uno racconta questa barzelletta: "Una mosca entra in uno scompartimento ferroviario, dove siedono un inglese, un nero e un marocchino. L'inglese la allontana con un gesto sdegnoso, il nero cerca di mangiarla, il marocchino l'afferra e dice: "Vu' cumprà?". Tutti ridono. Il ragazzo che ha raccontato la storia dice: "E' la più bella barzelletta che ho sentito alla televisione". Una professoressa di un liceo romano. "Dobbiamo preservare la nostra identità etnica da questa invasione dei popoli del Terzo Mondo". In altre parole, è la difesa della razza. Simili a queste, le risposte di altri insegnanti: hanno fatto seguito alle dichiarazioni degli studenti che nelle interviste non hanno saputo distinguere eritrei, somali, marocchini, filippini, tutti confusamente identificati come "marocchini". Ladispoli. Ormai è quasi una frazione di Roma, ed è in subbuglio. Molti vorrebbero che la gente di colore fosse allontanata. Si apre un dibattito in un teatrino. Uno si alza e dice: "Non sono razzista, ma voi dormireste in una stanza dove prima ha dormito un negro?". La folla presente applaude. Insofferenza anche nei confronti dei polacchi, numerosissimi in questa città. Un vagone della metropolitana. Salgono quattro ragazze somale. Due hanno un mantello bianco, quasi un costume tradizionale. Un passeggero: "Eccoli, povera Italia nostra!". E rivolgendosi alle ragazze: "Fatevi più in là, state al vostro posto. Ma quando tornate al vostro paese?". Una delle ragazze risponde: "Proprio voi italiani dite così, voi che siete stati un popolo di emigranti, che siete andati in tutto il mondo?". Quello ribatte: "Come ti permetti? Ti vuoi paragonare agli italiani? Voi siete zulù e beduini". Nessuno interviene. Molti ridono.
Episodi colti qua e là, in gira per Roma capoccia. Ma la storia della barzelletta televisiva dovrebbe far riflettere. Pregiudizi, luoghi comuni, ignoranza vengono spesso favoriti dai mezzi di comunicazione di massa. Una certa propaganda della sinistra ha avuto un effetto-boomerang. Non a caso e non innocentemente sono riproposti in tv film americani di trent'anni fa, con la visione della segregazione razziale praticata allora negli Stati del Sud, col chiaro intento di mostrare certe piaghe di quella società, e di gabbarle per attualità, a condanna del mondo capitalistico. E così, per quella rappresentazione della comunità nera, i razzisti di casa nostra si sentono giustificati, e persino accreditati. Ma poco o nulla si è detto delle totali trasformazioni avvenute nella società americana, dei 300 sindaci di colore a capo delle maggiori città degli Stati Uniti, della presenza dei volti neri nei notiziari televisivi americani, dei ruoli di responsabilità dei neri nell'amministrazione americana. A Manila, gli alberghi sono forniti della clinica medica e della clinica dentistica, servizi sconosciuti anche negli Stati Uniti.Il Marocco è ineccepibile per pulizia e igiene. L'Eritrea, che combatte per l'indipendenza, ha il mare più limpido del mondo. Ma è stato mai detto nulla, di tutto questo, in pubblico?
La società multirazziale non è alle porte, è già dentro casa. Il passaporto italiano non ce l'ha solo la profuga eritrea o il campione mondiale di pugilato venuto dallo Zaire. Oggi i cittadini italiani di colore sono migliaia. Si dovrebbe imparare a convivere con loro. E invece Ametee Debretzion continua a ricevere lettere anonime: "Riprenderemo il fucile per far fuori dall'Italia voi sporchi negri".

Le cifre del Belpaese

Fenomeni sociali come l'intolleranza razziale hanno un andamento irregolare. A periodi di crisi acuta in cui, poniamo, tra settentrionali e meridionali sembra alzarsi una cortina di incomprensione e di violenza, si alternano parentesi di quiete, talmente prolungate e serene da far pensare a un superamento del problema. Ma il pregiudizio, l'intolleranza, il razzismo sono duri a morire; viaggiano, spesso inconfessati, sotto pelle; si manifestano nel chiuso di una piccola comunità, nei quotidiani rapporti interpersonali. E' probabile che la diffusione di notizie relative a episodi di intolleranza razziale faccia da acceleratore del fenomeno. Si spiegherebbe così, in parte, il repentino proliferare di insofferenze nei confronti dei meridionali. Ma il discorso va allargato anche nei confronti dei terzomondisti che approdano in Italia per sfamarsi.
Squillano i titoli dei giornali e la domanda irrompe devastante: gli italiani sono razzisti? Da un recente sondaggio della Makno e del Corriere della Sera su "Gli italiani e il pregiudizio", condotto su un campione di popolazione in età superiore ai 15 anni, sono venute fuori conferme (sì, gli italiani hanno forti pregiudizi) e sorprese (gli intervistati del Nord esternano prevenzione nei confronti dei meridionali e tendono a legittimarla al punto da pensare che i meridionali si rapportino a loro con altrettanta insofferenza). Ma è anche interessante apprendere che i settentrionali riconoscono l'esistenza di pregiudizi nei confronti dei meridionali in misura superiore ai meridionali stessi. Gli intervistati residenti al Nord, ma meridionali di nascita, sono i soggetti che sdrammatizzano maggiormente il -fenomeno. Sarà per una sorta di rimozione? La domanda è: il pregiudizio antimeridionale è molto diffuso? Risposte: sì, per il 73,7% degli intervistati del Nord e per il 61% di quelli del Sud.
Il sondaggio Makno individua una zona del Nord dove l'insofferenza antimeridionale è più forte. Gli intervistati che ritengono "giustificabile un atteggiamento negativo nei confronti dei meridionali", per il 29,6% risiedono nel Nord-Ovest e per il 39,3% nel Nord-Est (Emilia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige). "Inoltre - si legge nel rapporto Makno - le donne (24%, contro il 19,6% degli uomini) e i cinquanta-sessantenni sono lievemente più presenti in quest'area di esplicita pregiudizialità".
Gli stereotipi, come i pregiudizi, sono difficili da estirpare. Agli italiani del Nord sono attribuiti: laboriosità (54,6%); egoismo (38,8%); razzismo (47,3%). Agli italiani del Sud competono: simpatia (45,6%); fantasia (59,7%); solidarietà (37,7%); pigrizia e invadenza (58%); maleducazione (29,5%).
E qui l'indagine rivela alcuni risvolti. Se si analizzano le risposte per aree geografiche, si scopre che la laboriosità attribuita agli italiani del Nord è prevalentemente una autoattribuzione: 57% degli intervistati del Nord-Ovest, 76,2% del Nord-Est, 36% del Sud. L'egoismo dei settentrionali trova d'accordo gli intervistati delle varie regioni. La simpatia e la fantasia dei meridionali trova d'accordo i campioni delle diverse aree, mentre la pigrizia dei meridionali è indicata da quasi il 60% degli intervistati del Nord-Ovest e il 71% del Nord-Est, contro il 47% del Sud. L'invadenza è attribuita ai meridionali dal 73,4% degli intervistati del Nord, contro il 37% del Sud. Makno ne ricava che "sui pregiudizi positivi verso i settentrionali si concentrano soprattutto gli italiani del Nord, mentre sui pregiudizi negativi i meridionali non si esprimono peggio di quanto non facciano i settentrionali stessi. Sui pregiudizi positivi nei confronti dei meridionali, Nord e Sud reagiscono in maniera pressoché uguale, mentre sui pregiudizi negativi verso il Sud i settentrionali, specie quelli del Nord-Est, si scatenano". Un dato curioso: l'unico aggettivo che viene rifiutato è "antipatico" (il 53% lo ritiene non attribuibile). Makno conferma che i più sensibili al pregiudizio antimeridionale o antisettentrionale appartengono alle fasce più disagiate socialmente, e con un livello di scolarità basso.
E veniamo alle risposte riguardanti l'immigrazione extracomunitaria. Anche qui una conferma: il problema dell'insofferenza nei confronti dei terzomondisti - che, a causa degli spostamenti migratori, vengono oggi a trovarsi nella condizione dei nostri meridionali in Germania, in Francia, in Svizzera, negli anni '50 - esiste. Il 43% degli intervistati riconosce che c'è intolleranza verso gli immigrati nordafricani. Sei intervistati su dieci sono del parere che l'Italia dovrebbe limitare l'ingresso degli stranieri. L'11,4% ritiene di dover sbarrare le frontiere. Sarebbero, questi, circa cinque milioni di italiani, residenti più frequentemente nel Centro, meno nel Nord, di età superiore ai 45 anni, e appartenenti alle fasce più povere e meno istruite. Sono soprattutto queste persone, inoltre, a temere ingiustamente che "i nuovi terroni" vengono a portar via occasioni di lavoro.
Tra chi, invece, ritiene che l'Italia dovrebbe accogliere gli immigrati (nove milioni di italiani circa), prevalgono le donne e i giovani fino a 24 anni, studenti e insegnanti in testa. Per quanto riguarda le relazioni sentimentali con gli stranieri in genere, con gli arabi e con le persone di colore, il 38% degli intervistati "esprime un atteggiamento fortemente etnocentrico". Vale a dire: non ne vuoi sapere.Rileva Makno che "la difficoltà per una ipotetica relazione con un nero è maggiormente espressa dagli intervistati del Sud (26,2%) e dai cinquantenni (26,4%), mentre il partner arabo "ha scarso appeal" tra gli intervistati del Nord-Ovest (12,4%), tra le donne più che tra gli uomini, tra i giovani e i più istruiti". Curiosamente, gli stranieri in genere risultano essere poco graditi, come sposi, soprattutto dagli operai e dagli artigiani.
Queste, le cifre del Belpaese. Se la si vuoi vedere, la realtà è sotto i nostri occhi.

Un veleno quotidiano

"Chi ti scrive è un ultrà romanista incazzatissimo per quello che ha scritto un burino bergamasco ( ... ). Egli parla di una loro gloriosa impresa svoltasi a Roma dopo la partita Roma-Atalanta; è riuscito a scrivere che i Wild Kaos hanno messo in fuga nientemeno che i Fedayn Romanisti! Niente di più falso, vaccaro: voi bergamaschi eravate ancora intenti a mungere e a tagliare legna quando i Fedayn scorrazzavano per gli stadi italiani a picchiare e sfasciare ... ".
"Sporchi afro e ciaina maledetti, è inutile che lanciate sfide accusandoci di vigliaccheria, i veri conigli siete voi ... ".
"Il tifoso avversario, lo considero uno come me, che potrebbe anche essermi simpatico. Questo non mi impedisce di tirarlo giù, se c'è uno scontro. E' un po' come in guerra. Non hai niente contro il tuo nemico, però lo uccidi lo stesso ... ".
"E quando un terrons, mentre pascoli nelle tue pampas, vuole un po' di verdame, due cartelle e una freyata, e che non caghi più il cazzo ( ... ). La stragrande maggioranza dei new paninari sono dei manichini buoni solo a farsi depellare anche il culo dai Ciaina e dai Terrons ... ".
"Lo sport praticato dai marocchini è stato il taroccamento sulle spiagge ... ".
"Il 23 giugno ce l'ha insegnato, uccidere un interista non è reato!!!".
Sono spezzoni di lettere scelte a caso, da giornalini normalmente presenti in ogni edicola e piuttosto diffusi tra gli adolescenti, soprattutto nelle fasce dai 15-17 anni. Sarebbe semplicistico sdrammatizzare, far finta che si tratti di battute episodiche o di casi isolati. Siamo invece di fronte a concetti e a linguaggi che sono anche simbolo di comportamenti, di attese, di stili di vita. Siamo cioè di fronte a una subcultura giovanile che spazia su tanti campi (tifo calcistico, moda, sesso, tempo libero) rispetto ai quali non è difficile identificare alcuni elementi classici del razzismo più triste.
Non ci si può stupire se la cronaca di tutti i giorni offre un ventaglio drammatico di violenza quotidiana: le frasi e i gesti dell'intolleranza sono intorno a noi, nei "fumetti per adulti" come nei giornalini per ragazzi, negli spot pubblicitari allusivi e violenti e nelle sequenze televisive. Ed anche se non dobbiamo enfatizzare il peso e la gravità di certe situazioni, una responsabilità collettiva esige una riflessione più attenta, che scenda a indagare le radici nascoste del "razzismo di tutti i giorni", quale si può osservare nelle battute della vita quotidiana o nelle pagine di un fumetto o nei fotogrammi di un telefilm. Basta guardarsi intorno, nelle strade, alle fermate dei tram, nelle stazioni ferroviarie, e scorrere i graffiti urbani sospesi tra demenza e marginalità, per cogliere gli abissi di differenziazione culturale e sociale che convivono nella città: all'indomani della tragedia allo stadio belga di Heysel, il Piemonte venne tappezzato di scritte "Grazie, Liverpool".
Sotto la diversificazione e l'eterogeneità del gergo, è possibile ricostruire atteggiamenti e valori nascosti, i quali coniugano il razzismo con l'autoritarismo, e ricompongono una tipologia di comportamento che è stata efficacemente studiata in una ricerca classica, pubblicata nel 1950. Fu svolta da Adorno e dai suoi collaboratori, rifugiatisi negli Stati Uniti dopo la minaccia nazista portata contro la "Scuola di Francoforte" e i suoi tentativi di intrecciare psicoanalisi, marxismo e scienze sociali. Promossa dal Comitato ebraico americano, la ricerca sulle caratteristiche dell'individuo "potenzialmente fascista" uscì col titolo emblematico "La personalità autoritaria": gli atteggiamenti mentali studiati attraverso la famosa "Scala F" offrono ancora, per chi voglia capire le radici del razzismo nella nostra vita quotidiana, dati attualissimi.
Gli elementi della personalità autoritaria sarebbero i seguenti: adesione rigida ai valori convenzionali tipici delle classi medie; atteggiamento acritico verso l'Autorità; aggressività verso coloro che criticano o violano i valori tradizionali convenzionali accettati; avversione per gli individui ricchi di vita interiore, di animo delicato e sognatore; identificazione inconscia col potere; esaltazione della forza fisica e della virilità; atteggiamento tendenzialmente cinico e pessimista verso i valori "positivi" dell'uomo; tendenza a esagerare la gravità della situazione in cui si vive, specie sotto il profilo della criminalità; preoccupazione eccessiva per il comportamento sessuale e per le sue degenerazioni; intolleranza verso le minoranze in genere; fiducia diffusa verso i metodi "forti" in campo educativo e giudiziario.
Come tante tessere di un mosaico, appaiono così chiari i nessi che collegano tra loro marginalità culturale, razzismo, autoritarismo, esaltazione della virilità, concezione della donna in termini di subalternità e come terreno di caccia "machista". Allora, non dobbiamo meravigliarci dei tanti episodi di intolleranza che la cronaca mette in rilievo. Essi sono determinati da molti e compiessi fattori, ma anche da una mentalità diffusa, da regole e pratiche sociali giustificate con colpevole leggerezza persino dalle pagine di un giornalino per ragazzi.


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