§ Le opinioni

Razzismo e dintorni




Cavedon, Vitolo, Fini, Cecchi, Schelotto, Camon



Il tarlo corrosivo del neo-razzismo
Remigio Cavedon (Vicedirettore de "Il Popolo")

Quello che è accaduto al ragazzo di Viterbo in un parco di Mirano, nel Veneto, e la più recente aggressione a Verona contro tre militari di leva meridionali da parte di giovinastri, hanno creato allarme e preoccupazioni legittime sull'aumento del tasso di razzismo, di intolleranza e della cultura dell'odio tra le diverse etnie. Non sono purtroppo, fenomeni locali. Ricordiamo gli annunci economici sui giornali delle città del Nord negli anni '60 con le offerte di"affittasi" purché non meridionale, così come esistono anche in altre regioni fenomeni di razzismo contro le minoranze di colore (è accaduto a Roma e in altre città del Mezzogiorno).
Chi scrive ebbe a denunciare negli anni scorsi le scritte enormi che costellavano la "Serenissima" nel tratto Venezia-Verona e Vicenza-Schio, dove con gli ormai lugubri incitamenti "Forza Etna", "Svegliati Vesuvio", campeggiavano scritte come: "Fuori romani, cancari e ladri". Ed era fastidioso tornare nella propria regione, tra la propria gente, con negli occhi queste dimostrazioni di incultura e di incitamento ad una violenza verbale non meno pericolosa di quella fisica. I toni accesi di alcune campagne elettorali con la presenza delle "lighe" in quasi tutte le regioni settentrionali non giustificavano in alcun modo questo improvviso ingrossamento del filone razzista oltreché campanilista. Sul piano politico, la proliferazione di liste localistiche o regionali aveva una sua giustificazione in vecchi rancori, in sedimenti anticentralistici che la realtà regionalista aveva saputo contenere ma non poteva eliminare. Le ultime manifestazioni razzistiche possono aver trovato esca in questa ventata campanilistica, che ha dispiegato ogni mezzo per raggiungere il successo elettorale. Tuttavia, questo motivo non appare tale da poter evocare, su scala generalizzata, un fronte massiccio razzista che non ha alcuna base nelle tradizioni non soltanto venete, ma di tutte le regioni italiane.
Il problema è che questo paese è cambiato rapidamente e, spesso, in maniera confusa. Ha messo a confronto realtà diverse in pochissimo tempo con le migrazioni fortissime tra sud e nord, con l'inurbamento che tra gli anni '50 e '70 ha creato numerosissimi problemi. Tutti i vecchi ritardi dello Stato unitario, i "nodi" irrisolti si sono scontrati ed hanno quindi provocato e provocheranno ancora tensioni tra le diverse culture e tradizioni regionali. Fino a non molti anni fa per il siciliano e il sardo l'Italia era il continente, cioè un altro paese, mentre per i veneti, non soltanto per gli abitanti dei paesi sperduti in montagna, l'Italia finiva a Venezia e per altri appena sotto il Po. La televisione e la cosiddetta cultura di massa non hanno cancellato certe tradizioni ostinate di campanilismo, mentre possono sollecitare il gallismo e il razzismo provinciale che sono tipici di una incultura che si nutre di luoghi comuni, che prolifica nelle pieghe della società italiana come bisogno di affermazione di minoranze che sono emarginate nel contesto di una società che ha saputo superare ben altre prove e ben altri momenti di tensione e di scontro. Che ciò avvenga in un Veneto civilissimo - dove hanno trovato per secoli rifugio quanti erano perseguitati sotto altri regimi - e nella capitale che da sempre è città tollerante, capace di assorbire senza traumi, non significa che qualcosa di irreparabile sta accadendo nella nostra società. Certamente, certi episodi ripugnano alla coscienza civile, non trovano alcuna giustificazione, sono il segno evidente di una pericolosa, quanto deprecabile assenza di valori che pone problemi gravi alla società nella sua interezza, dalla scuola alla famiglia, dalle istituzioni alle forze sociali: non tenere nel dovuto conto questi fatti gravissimi e porli con forza all'attenzione pubblica è quindi problema di tutti. Perché vanno sconfitti il fanatismo, l'ignoranza, l'irrazionale che è dentro in ognuno di noi, in ogni società, prima che bruci o cancelli il seme stesso della ragione e della nostra civiltà.

Razzisti in calzoni corti
Antonio Vitolo (Corsivista, "II Mattino")

Poiché l'arte possiede il dono di intuire le tendenze del tempo e prefigurare le linee di sviluppo dell'esistenza, la psicologia del profondo dev'essere ben grata al cinema, che nel corso dell'ultimo anno ha prodotto due esempi ragguardevoli di riflessione sull'adolescenza: "Lunga vita alla Signora" di E. Olmi e "Arrivederci ragazzi" di A. Resnais. Nel film di Olmi domina un taglio onirico, quasi surreale; in quello di Resnais la descrizione della Francia filonazista di Pétain è in apparenza realistica. Ambedue mostrano, in un'interessante sintonia di obiettivi, ragazzi che rischiano di essere oppressi o soppressi dagli adulti e dalla loro cinica, soffocante struttura di relazioni. E quando non appaia minacciata la vita, risulta comunque invasa la sfera dell'intimità degli adolescenti, quel nucleo difficilmente esprimibile che costituisce il tratto essenziale della personalità nell'arco compreso tra i 12 e i 18-20 anni.
Un'ulteriore considerazione scaturisce dalla conclusione dei due films: il giovane protagonista di "Lunga vita alla Signora" trova nella fuga un'insperata libertà nei prati, riapprodando alla vita "en plein air", il ragazzo ebreo di "Arrivederci ragazzi" viene catturato dai nazisti insieme al maestro cattolico che aveva tentato di salvarlo.
Occorre augurarsi che la speranza dell'utopia fecondi il pessimismo che nasce dalla storia. In tal senso l'ottica della psicologia del profondo può forse aiutare a comprendere i turbamenti, le ansie, i desideri, i momenti di depressione, gli sprazzi di gioia che caratterizzano sempre l'adolescenza, ma soprattutto a cogliere cosa persiste immutato e cosa cambia nel mondo interno d'un'età, che è per definizione età dei mutamenti. Nell'adolescente, infatti, identità e cambiamento agiscono come due poli indissolubili, così che ogni conquista, ogni stabilità poggia sulla fluidità e sulla precarietà. Abbigliamento casual, jeans, casco, walkman sono il distintivo dei giovani dei nostri giorni. Resta da chiedersi cosa sappiamo dei loro sentimenti, delle loro idee, dei loro segreti.
Il recente sondaggio effettuato dalla Comunità di S. Egidio tra circa 6.000 studenti di 18 istituti superiori romani è un'utile bussola per orientarsi nella riflessione su questi cruciali argomenti. Oggetto dell'inchiesta, condotta nell'87 ed ora elaborata, è l'opinione giovanile sulla presenza dei lavoratori immigrati in Italia. Lasciamo la stima puntuale agli esperti di questionari e statistiche, per soffermarci sul nesso tra adolescenza e razzismo. Interrogare un giovane su ciò che pensa d'uno straniero, la cui pelle ha per lo più un colore diverso da quello della sua, è infatti richiedere una valutazione complessiva sull'identità, sulla tolleranza e sul razzismo. Al di là delle cifre sarà dunque significativo il contenuto delle risposte.
Molti intervistati hanno ricondotto la presenza dei lavoratori immigrati alla mancanza di lavoro e a molteplici fattori conflittuali nei loro paesi d'origine. I giovani sanno infatti immediatamente perché un polacco lavi un vetro d'un'auto a Roma e non viva più a Varsavia, così come possono immaginare perché un uomo o una donna di Sri Lanka (Ceylon) siano domestici o autisti in Italia, benché non tanti siano informati sull'esistenza del "Tamil" o sulle mire dell'India verso lo Sri Lanka. Veniamo ora al punto focale: sessanta giovani su seimila hanno espresso la loro opposizione alle frontiere aperte con una secca, inconfondibile risposta: "Sono razzista!". In tempi di ripresa dei conflitti internazionali e di riacutizzazione delle disuguaglianze interne non suona sorprendente, purtroppo, un simile pensiero.
Vien da chiedersi anzitutto quanti adulti su seimila parlerebbero allo stesso modo e con altrettanta chiarezza.
In definitiva, la risposta adolescenziale tanto sincera e perentoria nel suo spiacevole, inequivocabile intento discriminante, riapre in tutti noi antiche domande, che si preferiva ritenere superate o sopite. Sono, siamo razzisti? E, in ogni caso, chi è razzista e che cosa è oggi il razzismo? Perché oggi i giovani osano ancora definirsi razzisti?
La prima più credibile risposta è che ciò avviene forse per imitazione degli adulti. Si pensi, ad esempio, alla signora italiana che ha ingiunto qualche settimana fa a una signora eritrea di cederle il posto in pullman, a Roma. L'intolleranza degli adulti rappresenterebbe cioè uno specchio deformante d'una personalità in formazione. Ma l'intolleranza, a sua volta, cresce nell'insicurezza, nella paura e nell'ignoranza.
E' lecito supporre inoltre che la precarietà e l'autoritarismo degli adulti s'intrecciano con la vulnerabilità caratteristica degli adolescenti, saldandosi in un comune timore o orrore del contatto con il diverso e in una rigida difesa dell'identità. L'identità è, s'è già accennato, nell'adolescente complessa e mutevole, come mostra il mutamento psicofisico che trasforma il bambino di un tempo in un essere capace di procreare un'altra vita.
La vita interna d'un adolescente sembra essere priva di confini delimitati; continua è la tensione a essere altrove, sempre altrove, nei voli della fantasia, nell'insofferenza delle regole degli adulti, nel ritiro in uno stato d'animo depresso, nel culto dello sport, nel tremendo ricorso al "trip" della droga. L'adolescenza è quindi età iniziatica dell'espansione, del cosmopolitismo, dello scambio con le realtà lontane. La drastica limitazione pronunciata in chiave razzista dai giovani romani svela però il permanere d'un arcaico dinamismo psichico. La negazione della diversità è insieme disconoscimento dell'apertura, del rischio, del dubbio, della propria pretesa di superiorità o unicità.
Un così esasperato arroccamento alla propria pelle mette in ombra ogni autentico confronto e segna una regressione al livello del primo confine corporeo dell'individuo, la pelle appunto. Porsi al di qua della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità non è una scelta solo dettata dal pregiudizio, ma un tremante grido fatto di terrore ancestrale, che impone a tutti un riesame delle proprie posizioni.

Il culto delle radici non è razzismo
Massimo Fini (Corsivista, "Il Giorno")

Non credo che il fatto che i settentrionali e i meridionali si sentano e si scoprano reciprocamente diversi, più di quanto non osassero dire dodici anni fa (come documenta una ricerca Doxa), sia un dato negativo, né tantomeno un segno di razzismo. Settentrionali e meridionali si sentono diversi per la semplice e lapalissiana ragione che sono diversi perché appartengono a due culture che hanno storie millenarie diverse.
Riconoscere la diversità dell'"altro" non significa fare del razzismo, a patto che si sia poi disposti a rispettare questa diversità (e in tale senso l'inchiesta della Doxa porta degli elementi confortanti soprattutto nella direzione settentrionalimeridionali, nel senso che i giudizi negativi, o per meglio dire i pregiudizi dei primi nei confronti dei secondi sono calati in percentuale considerevole). Un equivoco in cui si cade molto spesso è quello di confondere la coscienza della propria cultura e la difesa della sua autonomia col razzismo. Ma il culto delle proprie radici, contro un cosmopolitismo diventato pressoché obbligatorio, non è razzismo. Nessuno, credo, si sognerebbe di dare dei razzisti agli ebrei per il solo fatto che, déraciné come sono, cercano di coltivare, anche in paesi stranieri o spesso ostili, le proprie usanze.
Il culto delle radici diventa razzismo quanto una cultura ritiene di essere superiore ad un'altra e quando, in nome della propria cultura, si pongono delle limitazioni a quelle altrui. In questo senso il vero, profondo razzismo del nostro tempo, anche se più nascosto e sottile, mi sembra proprio il cosmopolitismo occidentale che ha imposto il suo modello in tutto il mondo abbattendo, con sprezzo pseudoilluminista, centinaia di altre culture. Questo cosmopolitismo è fintamente tollerante perché ti accetta solo se tu ti omologhi ad esso, altrimenti, in un modo o nell'altro, ti emargina e ti distrugge. Questo cosmopolitismo, che vorrebbe essere l'erede del volteriano "cittadino del mondo", in nome di un'astratta ed ideologica uguaglianza rifiuta le diversità. Con ciò crede di essere progressista, invece è solo totalitario.

Razzismo sommerso
Umberto Cecchi (Corsivista, "La Nazione")

E' la febbre di crescenza che rende irrequieta Firenze di fronte a un pugno di facce più scure di quelle alle quali era avvezza: è città di amicizie inglesi, questa. Città di culture sofisticate e tranquille; portate da signori arrivati dall'estremo nord e insediatisi qui con molta discrezione.
Poi, a un tratto, anche Firenze ha cominciato ad aprire le sue frontiere a una immigrazione povera. E la città, in particolare nel settore del commercio, si è spaventata, cercando dietro lo scudo dell'associazionismo la difesa alla sua impreparazione ad affrontare la disperazione del terzo mondo. E così facendo, di tanto in tanto, corre il rischio di scivolare nel razzismo. Anche se, come spesso fanno i razzisti veri, avverte di continuo che razzista non è. E noi ne siamo convinti. Siamo convinti che Firenze non è quella che scende nelle strade e le blocca, chiedendo la cacciata degli zingari; né quella che invoca l'immediato rimpatrio dei vucumprà, rei di far concorrenza ai negozi del centro e della periferia. Dietro i due atteggiamenti, più che razzismo, c'è voglia di quiete. Bisogno di sicurezza. Due verità innegabili, ma attenzione: ogni città che cresce ha i suoi negri affamati e i suoi zingari ladri: sono il ricordo dei giorni in cui gli zingari e i negri del mondo eravamo noi, malvisti, maltollerati e accusati di essere ladri e ,sporchi. Una cosa è vera, la necessità di avere maggiori controlli e più presenza sulle strade da parte dei vigili urbani o degli organi di sicurezza. E se ripensassimo al poliziotto di quartiere?

Il "migliorismo" della specie
Gianna Schelotto (Senatrice, psicoterapeuta della coppia)

Nel 1976, per 46 italiani su 100 i meridionali e i settentrionali erano diversi. Oggi lo affermano 53 su 100. E' il risultato dell'inchiesta Doxa che conferma quanto siano duri a morire luoghi comuni e razzismo. Contro un'altra forma di razzismo ha preso posizione l'arcivescovo di Firenze, cardinale Piovanelli, che ha definito l'ipotesi di una patente per procreare "idee, e pratiche di un nazismo che credevamo ormai rinnegato da tutti". E intanto fa discutere la proposta dei Verdi americani di utilizzare l'Aids come sistema per il riequilibrio demografico.
I popoli e le nazioni sono ricchi di uomini che covano dentro di sé un virus antico e insidioso: vogliono rendere il mondo migliore. Naturalmente non c'è nulla di "malato" in questa aspirazione, anzi è proprio sulla base di essa che le condizioni delle donne e degli uomini di questo pianeta hanno subito, nei secoli dei secoli, crescite ed evoluzioni.Porsi il problema di migliorare la condizione umana è giusto e benemerito, ciò che invece risulta spesso pericoloso ed inquietante è il tipo di soluzioni che di volta in volta vengono avanzate. In questi ultimi tempi sono spuntate qua e là una tale serie di nuove proposte per "migliorare" il mondo, che quasi quasi si potrebbe decidere che ce lo teniamo com'è. In fondo, non è poi tanto male.
Sì, è vero, qualche volta si ha la sensazione di essere in troppi. In alcune zone della Terra ci si sta anche un po' stretti. (Ma basterebbe farsi un po' più in là). E' da questo, forse, che gli "ecologisti profondi" - Dio sa quanto profondi! - americani hanno dedotto che l'Aids potrebbe essere assunto come "valore" di equilibrio naturale. Una "sana" decimazione da retrovirus darebbe alla grande madre Terra un po' di riposo, stanca com'è di essere calpestata, aggredita, sfruttata. Questa mi sembra si possa proprio definire "la sindrome del salotto buono", che era molto diffusa nelle case borghesi fino agli anni '50. Un bel salotto bisognava averlo, ma per essere certi di non sciuparlo, anzi di non consumarlo, doveva sempre restare chiuso a chiave, inaccessibile a grandi e piccini, coperto da funeree lenzuola bianche. Quel salotto restava muto, polveroso e triste per anni, come resterebbe la Terra di questi strani "Verdi" made in Usa, che confondono il rispetto per la natura con il dispetto per la vita.
E sempre in tema di miglioramenti del mondo arriva, questa volta da Firenze, un'altra proposta, che riguarda direttamente la vita stessa, cioè la procreazione: in un mondo computerizzato, tecnologico ed avanzato, si può, obiettivamente, pensare di continuare a far figli con l'arcaica, rozza libertà di una volta? Niente affatto: ci vogliono professionalità e controllo. Per questo il dottor Conciani ed altri propongono una patente obbligatoria per procreare. Questo ci darà sicure garanzie che solo i sani, i belli e gli intelligenti avranno licenza di appendere il fiocco rosa o azzurro sulla porta di cosa (tossicodipendenti, sieropositivi, immaturi a vario titolo non sarebbero ammessi agli esami). In uno straordinario volume, scritto nel 1873 da un certo professor Ferdinando Tonini ("Igiene e fisiologia del matrimonio"), vi è un capitolo intitolato "Callipedia e megalantropia, ossia norme da seguirsi per avere figli belli e di talento". Si potrebbe rendere obbligatoria qualcuno di queste "norme" per coloro che decidono di lanciarsi nell'ardua impresa di farsi genitori. A proposito di genitori, poi, bisogna ricordare che sono un'ottima istituzione, purché non abbiano superato i 75 anni di età; in questo caso, da più parti ci si domanda se poi vai la pena di curarli quando si ammalano, con il rischio di trovarsi in un mondo di vecchi che, come è noto, sono di solito noiosi e deprimenti.
Viene da chiedersi perché mai ricorre casi spesso l'idea che, per essere migliore, il mondo debba essere selezionato, ordinato e "ripulito". Scoprendo poi che è la morte (quella degli altri, naturalmente) la grande ordinatrice della insostenibile confusione dei nostri giorni.

Italia Est & Italia Ovest

Tre Venezie in buen retiro
Ferdinando Camon (Scrittore)

Si afferma continuamente, da tutte le parti, che esiste una supremazia culturale, sociale, comportamentale del lombardopiemontese sul veneto o sul cittadino di qualsiasi altra parte d'Italia. Molto crudamente lo ripeteva di recente un settimanale politico, con espressioni come queste: "L'area di maggior modernità culturale è quella di Nord-Ovest, sulla mappa che divide la società italiana in quattro quadranti, secondo una rappresentazione che corrisponde convenzionalmente ai punti cardinali". "Tre sono gli atteggiamenti distintivi dell'Ovest, cioè "propensione al rischio", "antifamilismo" e "liberalismo sessuale"". "Passaggio a Nord-Ovest viene definita la direzione del cambiamento sociale nell'Italia che si trasforma". Qui, nel Nord-Ovest, si vanno concentrando le "categorie più avanzate e moderne, cioè Progressisti, Emergenti e Affluenti". L'Ovest è caratterizzato da "forte presenza dei valori critici e contestativi".
Sono opinioni che vengono date, giustamente, come correnti: lo ammettano o no, gli italiani, dentro di sé, la pensano un po' tutti così: essere lombardo o piemontese è meglio che essere emiliano o toscano. Ce n'è abbastanza, credo, per ragionarci sopra.
Di solito la supremazia del Nord-Ovest viene ribadita sulla base dei "meriti" dello stesso Nord-Ovest; ma credo che si possa, più facilmente ancora, affermarla partendo dai "demeriti" delle altri parti d'Italia, e anzitutto, per restare nel Nord e fare quindi un paragone omogeneo, del Nord-Est. Cos'è che non va, nella stampa, nella Tv, nella cultura, nella politica, insomma nella società del Nord-Est? Come mai conta così poco?
Anzitutto, il Nord-Est non è una unità culturale e nemmeno geografica. E' un agglomerato di cittadine senza capitale. Venezia è una città di nessuno: ossia di tutti, tranne che dei veneti. La Biennale è un'appendice di Roma, Palazzo Grassi è un'appendice di Torino. Palazzo Labia (sede della Rai del Veneto) è una continuazione di Viale Mazzini. Ciò che succede a Venezia interessa di più il parigino o il newyorkese che non il padovano o il veronese: voglio dire, può entrare in cronaca dentro "Le Monde" o il "New York Times", ma mai nel "Piccolo" o nell'"Arena". Per la prima volta quest'anno l'esecutivo della Biennale aveva affidato la direzione della mostra del cinema a un veneto (come prescrive il regolamento), e Roma, con Fellini in testa, è insorta dicendo: "Ma come, ci voglion togliere la mostra?", e l'ha subito riottenuta.
In secondo luogo, il Nord-Est non ha un giornale. Il Nord-Ovest ha espresso dei giornali regionali-nazionali di lunga tradizione, il Nord-Est solo dei giornali cittadini. Così, ogni persona colta delle Tre Venezie sa quali sono i film e le conferenze odierne a Milano, che dista dai 300 ai 500 chilometri, ma non nella città vicina, che ne dista 30; sa tutto di De Benedetti, pochissimo dei Benetton. Il progetto Caracciolo-Mondadori, di creare una catena di giornali cittadini diversificati nella cronaca locale ma unificati nelle pagine politiche e culturali, e di chiamare a raccolta l'intellighenzia locale, nonostante il vistoso successo dei primi esperimenti (Padova, Treviso), vien bloccato e modificato proprio nel punto più importante (gli intellettuali locali sono sostituiti con opinionisti romani).
Regioni a forte insediamento universitario, le Venezie sono, stranamente, a debole presenza editoriale: Neri Pozza fa ormai poco, Bertani è stato commissariato, Studio Tesi paga l'handicap di trovarsi a Pordenone, Marsilio spostandosi da Padova a Venezia è praticamente uscita dal Veneto, le grandi università come Padova alimentano una miriade di collanine a circolazione zero. Così le città delle Venezie non parlano tra di loro e con la nazione: si parlano addosso. Gli intellettuali di qui sono più franco-milanesi (Zanzotto) o inglesi (Meneghello) o tedeschi (Zoterer) o slavi (Tomizza) o chiusi in patrie separate (Rigoni Stern) che triveneti: vivono nelle Venezie come in un "buen retiro". Il Veneto è terra di nessuno. Logico che non si evolva, e non conti: non c'è.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000