§ Italia Nord & Italia Sud

Dualismo: malattia di una societą prigioniera del passato




Giuseppe De Rita



E' opinione corrente che la grande malata di questo Paese sia la politica, nella sua impostazione di fondo e nella sua quotidiana presenza decisionale.
Nessuno, credo, può mettere in dubbio questa affermazione. Tuttavia comincia a diventare evidente che è malato anche, e forse specialmente, il dibattito sociopolitico e la sua capacità di innovare i riferimenti culturali dell'azione politica. Si tratta di un dibattito chiuso in schemi vecchi, spesso addirittura propenso alla regressione. Quando un argomento enorme come il ruolo culturale e politico di Gramsci e di Togliatti viene trattato come nei mesi scorsi, non si può non dar ragione a Rossana Rossanda quando chiede che la riflessione sulla sinistra sia feroce fino alla drammaticità (delle sue ambizioni come dei suoi errori) ma non scivoli nella farsa. Ma se il dibattito sociopolitico è malato, qual è la radice della malattia? La mia risposta è senza sfumature: la prigionia della cultura del dualismo.
Non c'è infatti linea di riflessione e dialettica che non sia prigioniera della propensione a veder tutto in termini dualistici. C'è il dualismo tra fascismo e antifascismo per spiegare la storia e gli schieramenti di ieri e di oggi; c'è il dualismo fra comunismo e anticomunismo per spiegare e sostenere la politica nazionale e la politica estera degli ultimi quarant'anni; c'è il dualismo fra Nord e Mezzogiorno per spiegare e denunciare gli squilibri strutturali della nostra economia; c'è il dualismo fra l'Italia dei poveri e quella dei ricchi per tentare di spiegare tensioni e rancori sociali; c'è il dualismo fra le grandi imprese sempre più oligarchiche ed il pullulare delle piccole imprese per spiegare vizi e virtù del nostro sistema di impresa; c'è il dualismo planetario fra Nord e Sud del mondo per ragionare più o meno nobilmente e pessimisticamente sul futuro dello sviluppo e della solidarietà; c'è addirittura il dualismo fra neoprotestantesimo e neofondamentalismo per definire il difficile passaggio odierno della Chiesa italiana. Assicuro il lettore che potrei continuare per un'altra buona colonna ad elencare dualismi (fra città e campagna, fra sviluppo ed ambiente, fra efficienza industriale e assistenzialismo, ecc.), ma oso sperare che non ce ne sia bisogno.
Il dualismo è certamente stato il grande protagonista della cultura politica di questi ultimi decenni. Quel che poteva dare l'ha dato, in termini di comprensione del carattere bifronte del nostro processo di evoluzione, ed addirittura di valorizzazione dell'ambivalenza della nostra anima profonda (l'esplosione del sommerso, dell'occupazione occulta, del localismo dimenticato, ecc.). Oggi continuare sulla strada del dualismo è controproducente, sul piano culturale, sociale e politico.
E' controproducente anzitutto sul piano culturale perché nega l'innovazione e l'uscita in avanti. Il dualismo impone infatti il riequilibrio (fra Nord e Sud, fra ricchi e poveri, ecc.) o la mediazione. Chi vuoi innovare rompe il dualismo, non ama la mediazione, non si pone come obiettivo il riequilibrio, casomai crea nuovi squilibri: basta pensare a come si muovono oggi le strategie imprenditoriali, le logiche di innovazione scientifica e tecnologica, i processi di internazionalizzazione e un po' tutte le trasformazioni concrete degli ultimi anni. Chi, al contrario, resta nella logica dualistica, non innova: basta pensare ai discorsi sempre più ripetitivi sullo squilibrio del Mezzogiorno come sull'assistenzialismo, sul numero dei poveri come sull'antifascismo e sull'anticomunismo. Dai contenitori di posizioni dualistiche comincia ad uscire una lingua inerte ed a significati decrescenti (una lingua che si parla da sola).
Ciò che ha effetti negativi, perversi anche sul piano sociale. Per forza di cose, e per convincimenti anche nobili, la mobilitazione sociale è avvenuta per anni in termini di schieramenti di stampo dualistico: la classe imprenditoriale, come le leghe dei disoccupati, il voto meridionale come il voto anticomunista, il sindacato dei lavoratori come il volontariato terzomondista. I soggetti sociali hanno cercato di sposare le polarità (specie quelle deboli) del dualismo; ma si trovano oggi a fare i conti con una realtà mutata e con interessi reali così cambiati da non poter essere più mobilitati in modo dualistico (si tratti degli interessi dei lavoratori che fanno Cobas come di quelli delle aziende che fanno lobby, fuori delle relative associazioni categoriali).
In questa prospettiva, il dualismo forma effetti perversi anche sul piano politico. In parte perché la malattia dualistica ha direttamente contagiato qualche partito (ne abbiamo che si dicono di lotta e di governo o liberaldemocratici e popolari). Ed in parte ancora maggiore perché tutti i quadri della politica si sono formati sulla cultura dualistica e stanno velocissimamente invecchiando con essa: trovate, ed avrete un premio, un democristiano meridionale che non parli di "divario crescente fra Nord e Sud"; trovate un quadro comunista che non ragioni in termini di pregiudiziali antifasciste ed anticapitalistiche; trovate un imprenditore che non tuoni contro l'assistenzialismo o la spesa pubblica per i Sud; trovate un uomo della sinistra che metta in discussione le cifre sui poveri e sui disoccupati.
Per questo la politica, anche quando cerca sponde culturali nuove, resta intimamente vecchia, prigioniera del dualismo, impotente per vincolo dualistico.
Se si vuole uscire da questa situazione, che è la radice dell'attuale scadimento del dibattito sociopolitico, occorre avere il coraggio di rompere la cultura dualistica. Occorre immettersi, senza grandi schemi contrapposti, nella dinamica reale della società e nei grandi processi di trasformazione di questo periodo (terziarizzazione, internazionalizzazione, finanziarizzazione, ecc.). Le contrapposizioni dualistiche hanno governato per tanti anni le nostre teste, prima ancora che le nostre decisioni; oggi abbiamo bisogno di dimenticarle, se vogliamo star con i tanti che cercano ,nel movimento in avanti delle cose la propria direzione di marcia, il proprio destino, il proprio potere.

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