§ Storie e comuni

Il razzismo dal volto disumano




Aldo Bello



"Caro direttore, l'argomento che mi spinge a scriverle è per me di grande importanza morale. Si legge spesso sui giornali, il suo compreso, di "Razza Piove" riferendosi ai veneti, e questo mi dà un poco di fastidio essendo a mio giudizio appropriazione indebita, ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è un articolo sul razzismo dove si parla di alcuni cialtroni che invitano i veneti a non accettare la donazione di sangue da carabinieri e poliziotti
meridionali per non contaminare la Razza Piave col sangue di razze inferiori. Se l'attributo "Razza Piave" si riferisce all'eroica resistenza nell'omonima battaglia della prima guerra mondiale, chi furono i protagonisti di tale battaglia, i veneti o soldati di tutta Italia ? A me non risulta che la prima guerra mondiale fu una questione privata fra il Veneto e I'Austria. Firmato: Francesco Sorrenti - Milano".
Indirizzata a Montanelli, la lettera è pubblicata, con altre, ultima, in taglio basso, accanto ai necrologi, sul "Giornale" del 30 maggio 1988.
Qualche riflessione. Sulla base del monumento ai Caduti della Grande Guerra, a Galatina, c'è, fra fanti altri, il nome di mio nonno. Non poté conoscerlo mia madre, che allora aveva due anni; né sua sorella, di pochi mesi. Cadde sul Piave nel nome dell'unità d'Italia. Sorrenti si indigna per la "Razza Piave" e per la paura dei veneti di trasfusioni da carabinieri e poliziotti del Sud. Non tutti i veneti la pensano così. Solo quelli che hanno tracce di sangue nella loro circolazione alcolica. Il sangue di carabinieri e poliziotti meridionali costoro preferiscono vederlo scorrere sul selciato, quando cadono combattendo terroristi e stragisti d'ogni colore, che il Veneto ha prodotto in anteprima e in lunga serie per la più terrificante cronaca italiana degli ultimi decenni. E mi chiedo se mai mio nonno sarebbe stato disposto a lasciare la pelle, sul Piave di tutte le razze, anche per la loro.
Razza Piemont. Immaginate la Valsesia: neve, sciovie e polenta. Il Monte Rosa a vista. Tutti omologati nelle griffes, dai calzerotti alle giacche a vento. I figli del consumo, in week end, ostentano noiose sicurezze. Immaginate anche un incontro tra amici, vecchi o nuovi, poco importa, con un settentrionale che ha sposato una splendida meridionale. Di sera, al ristorante. E immaginate, infine, l'effetto che fa la frase che costui pronuncia ad alta voce: "Il Meridione è un peso, non sapete creare imprenditorialità, da voi funzionano solo mafia e sequestri di persona. Vi servirebbe almeno un'altra invasione ... ". Niente di nuovo, s'intende. Sono decenni, ormai, che sento queste ed altre amenità. Ma in casi come questo, colpisce la perentorietà della provocazione. Allora è possibile pensare che l'interlocutore altri non sia che un militante di noti gruppi intrisi di spirito localistico e di inquietante rancore storico; oppure che, in fondo, trattandosi di un uomo di buona cultura, sia pure tutta piegata alle proprie ragioni, costui abbia intuito, e persino razionalizzato, ma recependolo patologicamente, il dato più rilevante dell'antropologia meridionale: che è quello dei "sudisti", scrittori, artisti, imprenditori, e uomini stradali, che si interrogano sulla propria condizione, e che hanno la forza di respingere certezze definitive e dogmi astratti, a differenza dei "nordisti" che sembrano, al confronto, un esercito di fantasmi; o infine che, sempre costui, dia voce all'angoscia di chi, avendo vissuto per secoli sul Sud-mercato-di-sbocco, sul Sud-serbatoio-di-braccia, sul Sud-emigrante-a-prezzo-vile, oggi assiste al crollo di queste rendite parassitarie: e dunque sente stravolti sistemi e strategie incanalati storicamente sul doppio binario dell'Italia europea e dell'Italia mediterranea, del Paese sempre più ricco e di quello sempre più povero, che ora si avviano a diventare il Paese non tanto più ricco e il Paese non proprio tanto povero.
Altro che Sud come palla al piede! Grandi banche e sistema parabancario e uffici postali drenano ancora oggi, senza alcun ritegno, risparmi meridionali, destinandoli al Nord. Comunicazioni e telecomunicazioni sono ancora oggi, a Sud, problematiche. La managerialità meridionale deve nascere e crescere in conflitto permanente con una burocrazia arrogante e accanitamente tolemaica, proliferata al riparo di una legislazione sterminata, spesso contraddittoria, spessissimo kafkiana. A questo Sud, lo Stato e le "Grandi Famiglie" del Nord hanno "regalato" i megaimpianti dell'acciaio (gli "elefanti bianchi", che non prolificano, non fanno razza, non producono indotto) e quelli petrolchimici (che inquinano). O ruderi di cattedrali, che però hanno reso migliaia di miliardi a settentrionali manager di nome, e di fatto ladri in doppiopetto. Accade ora che, per ogni impresa che nasce e agisce a Sud, si restringe il ventaglio degli sbocchi di "mercato interno" del Nord. Si comprende, allora, buona parte della paura del futuro di chi alimenta, con le spinte razziste, la disgregazione del Paese.
La mafia, poi. Che c'è, e funziona, eccome!, dalle parti di alcuni Sud. E dà all'intero Mezzogiorno l'immagine distorta che c'è in giro, ma anche la più comoda e strumentale. Forse anche perché ha un nome emblematico e storicamente determinato. Ma attenzione: che nome si deve dare ai gruppi che organizzano evasioni fiscali e contrabbandi di petrolio per migliaia di miliardi? E a quelli che alimentano l'economia criminosa delle tangenti? E agli altri, che dissanguano le vene dello Stato con le casse integrazioni speciali? E agli altri ancora, che rastrellano risparmi, promettendo la luna, e poi gettano sul lastrico chi ha avuto fiducia (decine di migliaia di famiglie), semplicemente dichiarando fallimento? E a quelli che inquinano cibi e territori, acqua e aria, vita politica e attività imprenditoriali? Che sono cose che riguardano fin troppo da vicino proprio il Nord. Non tutto il Nord, ma senz'altro quello devastato, invivibile, con i valori in caduta libera. Il Nord che nega persino l'evidenza. "Mafia del Nord? Gheminga!". Non c'è. Va a finire che gliel'abbiamo inventata noi.
Il Nord in gramaglie. Strilla il Veneto, mugugna la Lombardia, si sdegna il Piemonte. Non era mai accaduto, nella geopolitica italiana, quel che si è verificato in questi tempi imbarbariti: su 32 ministri della Repubblica, ben 21, come dimostrano i dati anagrafici, sono nati da Roma in giù. Ed esattamente si tratta di 7 campani, 5 laziali, altrettanti siciliani. I rimanenti li mettono in campo Abruzzo, Basilicata, Puglia e... Mediobanca, con Maccanico. Col carico da undici di un presidente della Repubblica sardo. Per fortuna, sono rimaste fuori due regioni, Calabria e Molise. Altrimenti, pensate che abbuffata?
Il fatto è grave in sé. Milano e Torino, capitali europee dell'industria, chiedono efficienza, ma non solo all'interno delle fabbriche. E' noto che economia e politica debbono procedere in parallelo. Pensiamoci un po' su: dopo gli anni delle ristrutturazioni, realizzate a colpi di licenziamenti, di robotizzazioni, di cassa integrazione o di Mezzogiorno a bagnomaria, come si fa a lasciare in mano ai trasformisti del Sud gli anni delle riforme istituzionali? Nel momento in cui, sull'esempio di quanto è accaduto negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito e persino nell'avanzatissima e algida Svezia, si intende ridimensionare il welfare state, tagliando non si è mai capito bene quante migliaia di miliardi (sette, dieci, ventimila: neanche gli addetti ai lavori lo sanno), come si fa ad escludere i cervelli della Statale, della Bocconi, del Politecnico e dei celeberrimi Centri Studi e Ricerche, orgoglio del ceppo celtico; e come si fa a fidarsi di gente emersa dalla Luiss in giù, che sarà pure orgoglio del ceppo italico, ma che pur sempre coniuga, intorbidando le acque, coordinate e ascisse cartesiane con astratti intellettualismi di Magna Grecia? .Chi si infuria per l'orribile novità, predice politiche da patrinato e speculari irrobustimenti dell'intolleranza. E' più facile spezzare un atomo, aveva detto Einstein, che un pregiudizio. E a giudicare dalle dichiarazioni rese da esponenti politici e sindacali dell'Italia defraudata di un congruo numero di poltrone, vengono in mente le parole con le quali, in Addio alle Armi, Hemingway formidabilmente ci definiva: "Terribili sono gli italiani, quando trasformano la guerra in rissa al coltello". lo non so che cosa saranno capaci di fare 21 ministri meridionali nel governo della cosa pubblica. Dubito, ma potrei sbagliare, che intendano far risorgere dalle ceneri una inattuale Vandea. Ritengo, fra l'altro, che forse mai come ora saranno incalzati dalle lobbies politiche, economiche e sindacali del Nord, dai gruppi di pressione e dai mass media che ne sono espressione diretta. Due aspetti, però, vanno messi in rilievo. Il primo: è bene che un ricambio latitudinale, se così può dirsi, abbia avuto luogo, e in un momento di snodo nella storia contemporanea. Il secondo: è tempo di chiarire, una volta per tutte, che mentre si va esaurendo, anche se con "vischiosità", la vecchia questione meridionale, si va sempre più chiaramente profilando una questione settentrionale, con forme di assistenzialismo (industriale, soprattutto) che fiaccano le energie del Paese. E' appena il caso di ricordare che, in nome della legge sul Mezzogiorno, la Fiat ha subito incassato 1.700 miliardi, e l'Olivetti 600. Quattrini destinati al Sud, ma che inesorabilmente sono finiti nelle casseforti di Torino e di Ivrea. Come storia e cronaca insegnano (lasciamo perdere i discorsi demagogici: agli "sperperi" dell'Irpinia si possono tranquillamente contrapporre quelli della Valtellina. Non è malato il Sud, è malato lo Stivale), la questione meridionale troppo spesso è stata il perfetto grimaldello per alimentare l'insaziabilità settentrionale.
Forse, con i 21 ministri terroni, qualche cosa cambierà. Nella peggiore delle ipotesi, tutto sarà come prima. Con la differenza che a tutto questo i meridionali sono abituati da tempo. Sono gli altri che, come dicono dalle parti del Colosseo, e dei Palazzi, nun ce vonno stà.
Analizzando la ripartizione dei 7.650 miliardi del Fondo Investimenti e Occupazione, e constatando che per il 47% sono stati destinati al Sud, il sottosegretario ai Lavori Pubblici, Raffaele Costa, ha affermato che si è compiuta "un'autentica sottrazione di risorse alle regioni del Centro e del Nord". Una percentuale così alta, ha aggiunto, "non si giustifica certo con le esigenze di riequilibrio delle zone deboli del Paese. Anche nel Centro-Nord esistono zone che richiederebbero altrettanti investimenti".
Costa, piemontese di Mondovì, è un liberale, che il partito non merita. Troppo alto il suo pensiero. Così alto, che sembra radente persino quello di due altri liberali, che, almeno fino a questo momento, avevamo ritenuto sommi: Cortese e Cottone, quelli che al Sud vollero destinato (e quasi mai rispettato, senza che Costa battesse ciglio) "almeno il 40% degli investimenti pubblici". Chissà che cosa significa per il sottosegretario quell'"almeno". E chissà se esiste un avverbio omologo in dialetto piemontese.
Conosco Costa. E più lo conosco, più ritengo che a volte il destino si accanisce contro uomini di sani principii morali e di indubbia levatura intellettuale e politica. Fu sottosegretario agli Interni e si occupò di problemi di droga. Viaggiò. Osservò. Aggiornò dati statistici. Oscar Luigi Scalfaro si dannava l'anima per stringere patti bilaterali con governi anche ostili fra di loro (come Israele e Marocco; e poi Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Austria, Spagna, Grecia e via dicendo) per combattere terrorismo, droga e criminalità organizzata, mentre Costa, al pianterreno (lato sinistro) del ministero, si accaniva ad aggiornare dati statistici su oppio, coca, hashish e cadaveri connessi. Anelava a un posto al sole. Ma la storia lo sfiorava, senza scalfirlo. Passò ai Lavori Pubblici, e il fato lo volle ancora nel limbo. Ponti? Autostrade? Acquedotti? Città chiavi in mano? Neanche a dirsi. Ancora e sempre statistiche! Così, il Costa-pensiero ha distillato il suo bravo 47%. Senza essere sfiorato dal dubbio della relatività. Allora, cerchiamo di dargli una mano. E proprio nel suo campo. Dunque: mentre nel Nord e in molte aree del Centro il tasso di disoccupazione è ai minimi storici e viaggia a livelli europei, che autorevoli studiosi definiscono "fisiologici", nel Sud siamo intorno al 20%. E ancora: è noto che nei prossimi dieci anni la popolazione in età attiva, compresa cioè tra i 15 e i 60 anni, crescerà solo nel Sud. Ciò vuol dire che nel Mezzogiorno diverrà sempre più intensa la domanda di un posto di lavoro. Gente di appropriata cultura, e dunque degna di rispetto, sostiene che, per lasciare inalterato l'attuale rapporto tra occupati e popolazione attiva, si dovrà aumentare il livello di occupazione nel Sud di oltre 800 mila unità. Questi scarni dati sintetizzano da un lato tutta la gravità della questione meridionale, là dove sopravvive; e, dall'altro, indicano che le linee d'intervento non possono più essere la semplice ed aritmetica trasposizione di quelle adottate nel passato.
Diremo di più. Proprio a differenza del passato, ora è necessario che Parlamento e Paese sappiano quante e quali risorse vengono destinate e utilizzate nel Sud. E' diffusa, grazie a discorsi subdolamente manichei, la convinzione che il cittadino meridionale riceva dallo Stato molte più risorse di quante non ne abbia il cittadino del Centro-Nord. Il che è falso. Dalle valutazioni effettuate da gente seria (Rossi Doria e Saraceno, fra gli altri) emerge esattamente il contrario. Se ne deduce che il Sud non divora ricchezze, e che sono ancora e sempre il Centro e il Nord le aree privilegiate. Per evitare, allora, sottili strumentalizzazioni, e qualche predica esilarante, è bene che il bilancio dello Stato sia presentato al Parlamento articolato per territori, nelle due grandi ripartizioni del Sud e del Centro-Nord. Così tutti sapremo quante risorse pubbliche saranno destinate, e a chi. E chi è che si piange di più addosso. E quante iperboliche cifre altro non sono che somme di interventi ordinari e straordinari. E quanto sia da attribuire agli interventi straordinari. E chi pesa di più, allo Stato. E quali effettivi rapporti ricchezza-fisco esistono nel contesto della redistribuzione regionale, rigorosamente compresi però gli incentivi, le fiscalizzazioni, le casse integrazioni ordinarie e speciali, le ristrutturazioni e i premi agli investimenti. Che non sono state mai, per il Nord, parole prive di senso, né opere di beneficenza. Ma che da un pezzo, ormai, sono correttamente interpretate dal Sud nei loro risvolti più ostinatamente monopolistici, elitari, e soprattutto antimeridionali. Con buona pace del 47%. E con tanti saluti al meridionalismo liberale, che in altri tempi, e non sospetti, onorò il nostro Paese, e che il sottosegretario Costa, arroccato a Mondovì, probabilmente villaggio senza orizzonti, ha mandato a picco forse per sempre.
Scrive sul "Giorno", nella rubrica "Variabile indipendente", Domenica Campana, dopo avere espresso un certo entusiasmo per il famoso film "La terra", del regista sovietico Aleksandr Dovzenko, trasmesso da Raidue: "E' la polemica, continua in tutto il mondo, tra il Nord e il Sud? Tra il Nord industrializzato, dinamico, urbano e il Sud rurale, contemplativo, fatalista?
Non è il caso di semplificare, ma guardando Dovzenko veniva alla mente un altro Sud, il nostro, ugualmente intriso di ferocia e pietà, di sensualità e sete di nuovo, ma che a differenza di quello russo, di quello americano e di altri non ha conosciuto veri fermenti e profonde tensioni ideali, non ha mai veramente tentato il nuovo se non di riporto. Anche la mafia moderna, finanziaria e industrializzata, non è un'invenzione, ma solo l'applicazione ossessiva e amorale del libero mercato. Sì, il nostro Sud non ha mai tentato appassionatamente il nuovo, e forse ne ha troppa paura ... ". E dopo aver detto un gran bene del poeta Elio Stellitano, le cui "Cronache del mesozoico" gli suggeriscono "un forte potere d'evocazione", nutrite come sono di "forte protesta" (Stellitano è calabrese), Campana conclude: "Dio voglia che il poeta presenta il tempo: vibra in queste "cronache" aria nuova, e anche l'insofferenza, la collera: prima di tutto per i piagnistei con i quali un Sud immobile si compiange compiacendosi e si compiace compiangendosi".
Non sapevamo, intanto, di essere nati e cresciuti nel Sud peggiore del mondo, anche se non riusciamo a capire quale rapporto ci possa essere mai, e di che natura, con tutti gli altri Sud, da quello russo a quello americano. Immaginiamo che sia escluso il Sudafrica. Non sapremmo che dire a proposito del Sudamerica. Siamo imbarazzati di fronte al Sud della Norvegia e della Svezia, che corrisponde al Nord, essendo da quelle parti capovolta la situazione.
Tantomeno sapevamo di trovarci di fronte a un Sud ancora "rurale, contemplativo, fatalista". Quasi prigioniero di una macchina speciale del tempo, in grado di bloccare il Mezzogiorno alla ruralità, alla contemplazione, al fatalismo che furono anche, ma non solo, nutrimento della sua storia. Ma fino alla vigilia del boom. Non oltre. Alla ruralità e a tutto ciò che essa comporta il "nostro" Sud fu legato mani e piedi da precise scelte politiche. Finita la guerra, Rossi Doria indicò nelle scuole, nelle comunicazioni, nei servizi la via d'uscita dalla ruralità, eccetera. Ma, persino contro la volontà di Togliatti, Ruggero Grieco volle, fortissimamente volle che la terra andasse ai contadini. Come un sudario di mille brandelli, le pietre meridionali vennero espropriate e divise. I rurali le coltivarono, irrigandole col proprio sangue. Quando verificarono che neanche il sangue bastava più, si vendettero porte e finestre ed emigrarono. In pieno boom economico italiano (ma per quale Italia?) lasciò il Sud un uomo ogni minuto primo. Fu la più grande e silenziosa e radicale rivoluzione meridionale. Altro che mancanza di tensioni ideali! Dov'era Campana, in quegli anni? E quale storia ha letto? Paura: questa, sì, ce l'avevano, quelli che si portavano dietro le pagnotte di pane fatto in casa in Francia, in Svizzera, in Germania, in Inghilterra, in Australia anche; e quelli che andarono a far più ricco (di braccia, ma anche di cervelli: leggere Saverio Strati, un altro calabrese; ma anche l'amaro Marotta, napoletano; e Cassieri, pugliese) il Nord. E i poeti presentirono il tempo. Altroché. Ci sono versi abbaglianti di Quasimodo, di Sinisgalli, di Carrieri, di Gatto, di Bodini; e ci sono versi arrabbiati di Miglietta, e quelli sanguigni di Repaci, di Scotellaro e di Buttitta. Hanno presentito, vissuto, pagato, i poeti del Sud. E continuano a presentire, a vivere e a pagare. Vivendo tra gente che dell'immobilismo ha fatto una memoria storica, anche là dove Stato, imprenditori esterni e criminalità organizzata fanno "carne di porco" di tutto e di tutti, come in Calabria. Il Sud va emergendo, a fatica, risudando sangue, come al solito, e forse anche contro tutti o contro molti, che lo vorrebbero ancora contemplativo, fatalista e straccione. Malgrado le ideologie consumiste con le quali lo si irretisce, gli inganni e le trappole che gli son parate, le letterature ritrite con le quali lo si descrive e distorce. Una volta si facevano i conti sul Sud, oggi li si deve fare col Sud. Non può essere diversamente. Toccare con mano per credere. E osservare in presa diretta, prima di scrivere. Compiacimenti e compianti lasciamoli alle Liale del giornalismo di maniera. Da tempo, ormai, nel Sud la collera ha un altro nome. Quella dei fuochi di paglia, violenti e fulminei, fu solo causa di furibonde repressioni. Questa, civile e propositiva, che tenta il nuovo ogni giorno, e sempre più frequente lo raggiunge, si chiama nuovo illuminismo. l'altro avendolo anticipato proprio noi.
Geoffrey Hull, docente dell'Università i Melbourne, sostiene che i "padani", venti secoli dopo essere stati sottomessi dai romani, rimangono molto diversi dagli italiani del Centro-Sud: "Sono brachicefali (cranio basso e largo) anziché dolicocefali (cranio alto e stretto) come nel resto della penisola. Vivono in case di tipo alpino o subalpino invece che mediterraneo. Consumano prodotti bovini anziché ovini e cuociono al burro anziché all'olio. I loro canti sono polifonici, sillabici e narrativi anziché solistici, melismatici e lirici. Hanno una coscienza linguistica analitica anziché sintetica ... ". Gli antropologi australiani, dunque, studiano le "tribù" italiane con lo stesso impegno con il quale noi ci interessiamo dei loro aborigeni. Per Hull, ci sono due Italie. E il muro divisorio coincide col crinale dell'Appennino Tosco-Emiliano.
Il crinale, in realtà, è di luoghi comuni: al Nord si produce, al Sud si spreca; a Milano si lavora, c'è la Borsa, a Roma si perde tempo, c'è il Parlamento; al Nord c'è l'industria, al Sud c'è la politica. Ma lo Stato dov'è? Lo Stato è a Roma, sostengono i più radicali, ma è anche in ogni ufficio del Nord, dove impera l'"accento mediterraneo". Meridionalizzazione dello Stato? Ebbene, sì! Semplice da spiegare, chiarisce Sabino Cassese, "perché l'Italia ha affidato il compito di risolvere la questione meridionale alla pubblica amministrazione. Nei paesi nordici danno ai disoccupati un salario minimo garantito, noi l'assunzione negli enti statali. L'apparato pubblico, che dovrebbe fornire servizi ai cittadini, in Italia ha invece come scopo principale quello di sistemare i disoccupati". E così, al Nord il razzismo contro i terroni si nutre anche dello sfascio statale. "Ma i settentrionali che se la prendono con i meridionali per l'inefficienza dello Stato si domandino anche perché così pochi di loro partecipano a concorsi pubblici. La meridionalizzazione dello Stato è provocata anche dal vuoto lasciato dal Nord".
Ma poi, possiedono per davvero, i settentrionali, quel senso dello Stato che - secondo loro - manca ai meridionali? Oppure sono così presi dai loro affari privati da disinteressarsi dello Stato di cui si lamentano? la crisi, in effetti, c'è. Mancano le vocazioni, e non solo per via degli stipendi bassi. La politica ha fame di persone autorevoli. Ma i partiti fanno fatica a trovare a Nord uomini di spicco per le elezioni. Medici, docenti, magistrati, manager, latitano. Dov'è finita la grande borghesia settentrionale? Perché le classi dirigenti abbandonano lo Stato? E come mai, per trovare un esempio di imprenditore "illuminato", che non considerava esaurito il suo compito nel consolidamento del potere e nel perseguimento del profitto, ma che era convinto di avere - proprio in quanto industriale - anche grandi responsabilità sociali, si deve risalire sempre a trent'anni fa, cioè ad Adriano Olivetti? Dice lo storico Valerio Castronovo: "Olivetti era un isolato, perché da una parte i suoi colleghi industriali lo consideravano uno stravagante che sognava di "fabbriche a misura d'uomo", dall'altra il sindacato lo accusava di mistificazione paternalistica, al pari di Marzotto. E anche il mondo delle professioni è latitante o corporativo. Non emerge alla ribalta, mentre in paesi come la Francia, ad esempio, è presente e fa sentire le proprie ragioni. In Italia lo ha fatta solo in due momenti storici: dal 1890 al 1915, quando tutti erano positivisti e liberal-progressisti (allora, anche gli industriali, da Camillo Olivetti a Ettore Conti e a Giovanni Agnelli sostenevano compatti Giovanni Giolitti); e negli anni Sessanta, quando le giovani energie che si ispiravano al modello kennedyano, dai Bassetti ai Pirelli, speravano da una parte nell'Europa della Cee, e dall'altra nell'Italia delle regioni. Dopo di che, disimpegno totale, o esercizio del potere in nome degli affari".
Quello che sta montando in Italia, sostiene Saverio Vertone, è un rigurgito di campanilismo, reso particolarmente acuto dallo sviluppo distorto e incompleto del Paese, dal crollo della vita e della moralità pubblica, (non solo nelle regioni del Sud avviluppate dalla criminalità organizzata), dalla secolare inefficienza dello Stato italiano, e dalla grancassa regionalista che ha risuonato nello scorso decennio ritmando marce e marcette sulle etnie, sui dialetti e sulle aree omogenee, o inneggiando a nuovi poli di sviluppo ritagliati tra i Pirenei e le Alpi (ricordate la "Padania"?), come se si dovessero raggruppare in unità amministrative: da una parte tutti i ricchi, dall'altra tutti i poveri o i meno ricchi.
Gli antefatti più appariscenti sono più o meno questi. Ma c'è un altro, clandestino, sul quale, dice Vertone, "è arrivato il momento di dire qualcosa. In Italia esiste una secolare e irrisolta questione meridionale, ma non si è mai parlato finora della questione settentrionale. Mi auguro che si cominci ad affrontarla, e intanto provo a farlo io come so e come posso. Il Risorgimento ha unificato in un unico Stato una metà meridionale economicamente arretrata e una metà settentrionale politicamente impreparata. Una classe socialmente ed economicamente candidata a fungere da classe dirigente del nuovo Paese, insomma una grande e media borghesia industriale esisteva solo nel Nord e più specificamente tra la Lombardia e il Piemonte. Questa classe ha saputo assolvere al suo compito economico e imprenditoriale sostanzialmente bene. Ma non ha affrontato il compito politico e culturale che la storia le aveva affidato. La grande e media borghesia del Nord non ha compreso la sua funzione nello Stato italiano, e l'ha elusa: per arretratezza politica, per passività confessionale al "non expedit" della Chiesa, per abitudine a farsi in silenzio i propri affari sotto l'ala più o meno protettiva dello Stato austriaco, per una cultura in cui cosmopolitismo e provincialismo si mescolavano da secoli in grandi empiti commerciali e in grandi ristrettezze dialettali. Così la gestione dello Stato, l'impostazione dell'amministrazione pubblica, spesso anche gli stessi governi, sono stati lasciati alla piccola borghesia meridionale (e settentrionale), che ne ha fatto quello che poteva farne, senza rinunciare (indipendentemente dalle origini) a costruire più scuole, più strade e più centrali elettriche, al Nord che non al Sud. E' perlomeno singolare che adesso la Lombardia si lamenti dell'inefficienza di Roma, dopo un secolo di diserzione civile della sua classe dirigente. La quale, ripeto, si è dimostrata magari ottima sotto il profilo imprenditoriale e commerciale, ma scadente sotto quello politico e culturale. Il rimpianto dell'Austria è un segno grave di quella impreparazione. Sono (o dovrebbero essere) le borghesie di "compradores" che prosperano meglio sotto le amministrazioni straniere. Le classi dirigenti europee (e la borghesia lombarda aveva tutti i titoli per diventare il nucleo di una classe dirigente) si comportano in altro modo: lo Stato se lo fanno, lo fanno funzionare bene per sé e per tutti". Molto chiaro. O no?!

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