Emigrazione
di ieri e di oggi, ma anche immagini contrastanti di una realtà
più complessa ed ambigua rispetto a quella consegnataci da una
tradizione populistica, tutta lacrime e furore. Si emigra per fuggire
dalla miseria, dalle persecuzioni religiose o politiche, da un passato
ingombrante... Ma si emigra anche per inseguire qualcosa: ricchezza,
felicità, libertà, amore... Tra fuga e inseguimento si
gioca l'ambiguità dell'emigrazione, ieri come oggi.
Per quanto riguarda l'Italia, l'emigrazione è stato un fenomeno
di massa in due periodi storici precisi: nei due decenni a cavallo del
secolo, e tra gli anni Cinquanta e Sessanta. L'emigrazione di massa
si sviluppa, quindi, in due fasi di crescita economica e di mobilitazione
collettiva. Nel primo periodo si emigra dal Sud, dal Veneto e dalla
Lucchesia: si parte per le lontane Americhe, si parte per non tornare.
Nel primo periodo si emigra dal Sud, dal Veneto e dalla Lucchesia: si
parte per le lontane Americhe, si parte per non tornare. Nel secondo
periodo si emigra dal Sud e dalle campagne: si va nel Nord, in città,
in Europa, ma anche in Australia e nelle Americhe; non sempre si parte
per non tornare.
Oggi, l'emigrazione non è più un fenomeno di massa e pur
tuttavia ci sono ancora quelli che partono in cerca di fortuna, e vanno
un po' dovunque, talvolta disposti a cambiar vita, più spesso
armati della volontà necessaria per lavorare sodo e accumulare
quel tanto che serve per dare una nuova direzione alla vita di sempre.
Chi partiva per non tornare era disposto a tutto e talora tutto doveva
subire pur di non essere costretto a tornare per testimoniare il fallimento
di un'avventura mai riuscita. Sugli italiani di allora e di poi l'America
ha suscitato un'attrazione immensa. Chi partiva non era il più
povero o il più sprovveduto del paese, costui non poteva permettersi
di partire: non aveva le risorse economiche necessarie, non aveva l'informazione,
non era capace nemmeno di immaginare un futuro diverso. Chi partiva,
invece, pur spinto da una condizione economica e di vita insopportabile,
era soprattutto chi era capace di concepire il sogno di una "vita
americana", cioè libera e felice. Libertà e felicità
erano le promesse che milioni di italiani inseguirono, talvolta con
successo, nei venti anni della prima rivoluzione industriale.
Con la seconda rivoluzione industriale, quella degli anni Cinquanta
e Sessanta, il sogno americano si riaffaccia all'orizzonte. Questa volta
non è più necessario attraversare /'Oceano. L'America
è sbarcata in Italia e in Europa con le truppe alleate, il benessere
sembra a portata di mano. E di nuovo i più intraprendenti partono.
Da ogni angolo d'Italia sono milioni quelli che si mobilitano alla ricerca
di un benessere, di una felicità che il passato e la tradizione
avevano sempre insegnato essere impossibili su questa terra. E' la speranza
che illumina le vie dell'emigrazione, che rende possibile sopportare
anni di fatica, lavori umilianti, condizioni di vita proibitive. Alcuni
falliscono, ma altri riescono .
Ricostituiscono nuove possibilità di vita per sé e per
i propri figli. La ricchezza dell'Italia, la sua stessa presenza nel
mondo sono state costruite da questi milioni di italiani che sono partiti,
che hanno avuto coraggio, che sono stati capaci di avere speranze, di
nutrirsi di sogni, di credere alle promesse.
Oggi non è più necessario per gli italiani emigrare in
massa. Si è creato un equilibrio tra risorse disponibili e crescita
della popolazione. Emigrano poche decine di migliaia di individui, desiderosi
di bruciare le tappe della mobilità sociale, oppure in cerca
di avventure alimentate dall'impazienza, dalle immagini di crisi, ma
anche dalle paure che la moderna civiltà suscita in molti di
noi, tanto più irrequieti e instabili dei nostri padri e dei
nostri nonni.E' per questo motivo che oggi è possibile guardare
all'emigrazione di ieri e anche del passato lontano con occhi diversi.
E' possibile vedervi ciò che ha prodotto nei figli e nei pronipoti
di quegli emigrati: una presenza italiana nel mondo di cui andare orgogliosi,
l'accendersi di una speranza in un presente migliore.
ALL'ESTERO LA
SECONDA ITALIA
A. P.
Per molti anni,
i canzonettisti che cercavano l'applauso intonavano: "Mamma dammi
cento lire / che in America voglio andar ... "; oppure: "Partono
i bastimenti / per terre assai lontane ... ". Quegli esodi verso
l'America, vagheggiato eldorado, di centinaia di migliaia di emigranti,
le donne sul molo, in nero, come in lutto, che di bianco avevano solo
il volto piangente e un fazzoletto al quale affidavano cuore e speranze,
sventolandolo nell'ultimo saluto ai loro uomini che andavano a cercare
fortuna oltre oceano, divennero il cliché di un'Italia povera
e matrigna, il simbolo spesso tragico della necessità di cercare
altrove, per sopravvivere, il lavoro che qui non avevano.
All'ottanta per cento erano meridionali. E non tutti quei meridionali
erano poverissimi. Ma quattro-cinque ettari di terra, spesso sterile,
non bastavano per tutta la famiglia, sempre molto numerosa. I più
giovani e validi, racimolata fin l'ultima lira per pagare il passaggio
sul bastimento (le tragicamente celebri "bare galleggianti"
alla fonda nei porti di Napoli e di Genova), si imbarcavano per "terre
assai lontane", con la speranza salda di tornare presto con risparmi
sufficienti per comperare altra terra. Partivano gli uomini soli,
i quali, fin troppo spesso, risparmiata alfine la somma, non pensavano
più al ritorno, si sentivano ormai integrati nel nuovo Paese.
Così, spedivano il vaglia perché moglie e figli li raggiungessero
nella patria d'acquisto.
Le direttrici delle emigrazioni variavano da regione a regione: verso
il Sudamerica si dirigevano piemontesi, liguri, lombardi, veneti,
friulani, toscani, campani e pugliesi. L'America del Nord, invece,
attirava emigranti campani, pugliesi, calabresi, lucani, siciliani,
abruzzesi e molisani. Partivano intruppati, in poveri abiti, il pane
fatto in casa, il fagotto o la valigia con lo spago. Quanti siano
stati, e quanti di quei lontani emigranti vivano oggi nei vari continenti
si può supporre solo per statistiche approssimative. Quelle
fornite dalla "Fondazione Agnelli" ci dicono che fuori vive
un'altra Italia, oltre cinquanta milioni di ex emigranti. Sui ventisei
milioni di argentini, ad esempio, più di dodici sono di origine
italiana. Nello Stato di San Paolo del Brasile, su venti milioni di
abitanti almeno otto sono italiani. Nella Grande San Paolo c'è
un intero, vastissimo quartiere, paragonabile ad una nostra città
media, popolato esclusivamente da pugliesi. I più grandi capitani
d'industria del Brasile, i Matarazzo, sono di origine napoletana.
In Argentina hanno trovato la seconda patria soprattutto piemontesi,
liguri, pugliesi e campani. Alla Bocca, il quartiere di Buenos Aires
alla foce del Rio de la Plata, la lingua franca è tuttora il
genovese. A Mendoza, ai piedi delle Ande, le bodegas, i locali di
mescita, sono ricalcate su quelle spagnole, ma i filari che circondano
la città li hanno piantati piemontesi, friulani e pugliesi,
che hanno creato la più grande industria vinicola delle Americhe.
Piemontesi e liguri hanno tratto dalla terra gerbida risaie fertilissime
nelle province di Misiones e di Rosario di Santa Fe. Nelle pampas
sterminate, meridionali di tutte le regioni allevano decine di migliaio
di capi di bestiame.
Gli italiani d'Argentina e Brasile hanno dato vita a un folclore nuovo.
Asado y piza si dice in Argentina, a indicare l'avvenuta fusione tra
ex spagnoli ed ex italiani. In Brasile, alcuni emigrati, arricchitisi
repentinamente, sono divenuti celebri per le loro follie. Negli Stati
Uniti, specie a New York, la presenza italiana è massiccia,
in prima linea nella cultura. I grandi ricchi non sono più
una minoranza assoluta. La "Seconda Italia" che vive oltre
oceano è formata da commercianti, artigiani, agricoltori, piccoli
industriali, ma anche da grossi imprenditori, banchieri, managers.
Tutta gente che si è inserita con tenacia, con sacrifici e
con un durissimo lavoro, in un ambiente che, per lungo tempo, fu ostile.
Sbarcando dalle navi-ghetto, i nostri emigranti si scontrarono con
le resistenze dei residenti e con la spietata concorrenza di altri
emigranti, irlandesi, polacchi, arabi, cinesi, turchi, greci, portoghesi,
russi, portoricani, poveri e famelici quanto loro.
Col passare del tempo, avvenne l'osmosi. Oggi si sentono cittadini
americani. Ma non hanno dimenticato i giorni della fame, né
quelli dell'addio alla loro terra e ai loro parenti. Le loro rimesse
sono state una ricchezza per l'intera Italia. Oggi sono una fonte
inaridita. Era fatale che fosse così. E non si capisce per
quale ragione lo Stato italiano ne lamenti la caduta a vite, nei bilanci
dei conti con l'estero. Per un secolo ha rastrellato valuta, all'ottanta
per cento diretta a Sud, investendola altrove. L'emigrazione e le
rimesse erano state trasformate in una rendita parassitaria. Oggi,
non partono più bastimenti con "tonnellate umane".
Partono aerei. E i conti, i meridionali, e gli altri, hanno imparato
a farseli da tempo.
ITALIANI DA FARSA
MA IN SECONDA ISTANZA
Stefano Reggiani
Il dramma dell'emigrazione
o la farsa dell'emigrazione? Se uno non è toccato direttamente,
se non prova sulla pelle la rabbia dell'estraneità tra una
patria persa e una che bisogna conquistare, preferisce tranquillamente
la chiave comica. C'è un paradosso così grande e disagevole
nell'emigrazione, che è meglio riderci su. Lo aveva capito
benissimo Chaplin, tra i senza-patria del suo "Emigrante":
sulla nave che balla nella tempesta, niente sta più al suo
posto, i piatti e i bicchieri volano da una parte all'altra, figurarsi
l'anima. Si rotola ridicolmente gli uni in braccio agli altri tra
masserizie e boccaporti. E' il primo modo per distrarsi, anche per
far nascere l'amore.
C'è in un film egiziano (chi si ricorda più il titolo?)
lo studente volenteroso che trova dopo mille sacrifici i soldi per
andare in America e vede finalmente con gli occhi annebbiati di lacrime
il porto di New York: ebbene, la statua della libertà, improvvisamente
distogliendosi dalla sua fissità, gli fa le boccacce, lo beffeggia,
povero illuso! Anche nel "Re a New York" di Chaplin (emigrazione
di lusso) c'era la statua della libertà oscillante, incerta
sui piedi. Del resto, anche nella tradizione dell'emigrante italiano,
lacrime sul ponte, valige con lo spago, canzoni napoletane, c'è
una semplificazione che scade nella farsa e nella deformazione grottesca,
ci vuole giusto un eroe della sceneggiata come Mario Merola per renderla
appena accettabile. La Wertmüller in "Fatto di sangue"
s'era salvata nell'isteria: Sophia Loren in coda tra gli emigranti
al porto di Palermo, e intorno una sparatoria da film gangster: non
si sa mai cosa capita a muoversi di casa.
Anche il film storico, il film capostipite della nostra emigrazione,
diretto negli anni Dieci da Griffith, "L'italiano", è
rivisto oggi, se capita in qualche festival, con inevitabili sghignazzi
di disagio: quell'italiano è troppo tipico, troppo melodrammatico.
Se non ci fosse l'alta classe dell'autore, non sembrerebbe una farsa?
Così il nostro cinema, pur con nobili eccezioni (valga per
tutte "Il cammino della speranza", di Germi; oppure "Rocca
e i suoi fratelli", di Visconti), ha trovato un compromesso tra
farsa e dramma, ha inventato la commedia da esportazione, e ha mandato
in emigrazione i suoi interpreti migliori. Sordi in Australia, larva
d'uomo, patetico naufrago che può solo consolarsi col dono
di una Claudia Cardinale piovuta dall'Italia, a patto però
che figuri di professione prostituta, ("Bello, onesto, emigrato
... ", di Zampa). La Loren a New York, disposta al contrabbando
più folcloristico, l'importazione di salumi ("La mortadella",
di Monicelli), merce che fa ridere più di quella che alcuni
compatrioti trafficano abitualmente, per esempio la droga. Manfredi
in Svizzera come cameriere di ristorante sempre sul punto di perdere
il visto di soggiorno, "Pane e cioccolata": personaggio
buffo, ma anche eroico per merito del regista Brusati, che conosce
i mezzitoni chapliniani. Con naturalezza Carlo Verdone ha potuto rinfrescare
un'eredità storica: in "Bianco, rosso e verdone",
il personaggio più ridicolo e più eroico era l'emigrante
di ritorno dalla Germania, richiamato in Puglia dalle elezioni. Uomo
pressoché muto, legato agli incubi dell'amante tedesca e al
culto ragionevole del calciatore Causio, ritrova la parola solo in
fondo, per esplodere in un'invettiva poco patriottica.
Non c'è altro come la farsa, o almeno la commedia, per esorcizzare
l'emigrazione; ma bisogna stare attenti a non esagerare come in uno
di quei giochi autopunitivi in cui siamo maestri. Sennò sfugge,
anche al cinema, un piccolo particolare, la constatazione che le patrie
più forti sono fatte di emigranti, magari ridicoli ma decisi
a vincere. Esempi recenti: la carovana dei miserabili che conquista
il West nei "Cancelli del cielo", la corte mitteleuropea
che fa umana New York in "Ragtime", il sindacalista italiano
che inventa il socialismo in "Reds", un po' lontano dal
classico "Sacco e Vanzetti". Dice press'a poco Merola: quante
lacrime ci costa quest'America. Attenzione: anche da ridere, ma solo
in seconda istanza.
LE PAGINE DEI
"LAZZARONI"
A. P.
Scrittori e poeti
italiani sono in genere troppo sedentari per sapere davvero che cosa
vuoi dire viaggiare, sradicarsi, cercare pane e dialogo in una società
diversa. Lo stesso Salgari raccontava la Malesia e intingeva la penna
nell'inchiostro dell'esotismo, ma il suo unico viaggio per mare lo
fece da Mestre a Brindisi. E tornò via terra. Come sfuggire,
così privi di esperienza, alla retorica dell'emigrazione?
De Amicis, per esempio, ci ha lasciato su questo tema le pagine di
Sull'oceano, dove ancora una volta si esprime il suo socialismo umanitario,
lacrimoso, e tutto sommato di marca borghese: il popolo va compreso,
compatito e amato, ma in fondo è un'altra cosa da chi scrive.
In questo gli è parente stretto il Pascoli, ma con più
genuina poetica. Gli emigranti li chiama "orfani del mondo"
nei suoi Primi poemetti e ci mette un briciolo della sua poesia cosmica:
"Cielo, e non altro, cielo alto e profondo, / cielo deserto.
O patria delle stelle! / O sola patria agli orfani del mondo! / Vanno
serrando i denti e le mascelle ... ".
Non si salvano dalla retorica neppure i più moderni. Emilio
Cecchi, in America amara, si tiene ben stretto alla sua prosa d'arte.
Ugo Betti, in Canto d'emigrante, esordisce con due esecrabili endecasillabi:
"Con la miseria empimmo questa sacca / e vi mettemmo un pugnello
di grano".Molto meglio andranno le cose col neorealismo e con
quel che ne è seguito. Penso alle storie di emigrazione di
Rocco Scotellaro e di Domenica Rea, ai versi di Ignazio Buttitta,
che canta Addio terra d'arance, a Gavino Ledda che in Padre padrone
descrive la partenza degli emigranti sardi per l'Australia e i parenti
che vanno a salutarli come si va a un funerale perché non li
vedranno mai più, proprio come se fossero morti, e alle pagine
scarne e terrificanti di Saverio Strati, che in Noi lazzaroni racconta
le vicende dell'emigrazione in Svizzera, che sembrano la summa di
tutte le storie dei meridionali cacciati dalla povertà e dalla
fame e scaraventati negli inferni di tutto il mondo.
Ma non c'è solo l'emigrante sfruttato, chiuso nel ghetto di
una Little Italy ai margini di incombenti e ostili grattacieli. L'emigrante
di Pavese, il protagonista de La luna e i falò, è un
uomo che in America dal nulla ha fatto fortuna (non aveva neppure
un nome, un padre, una madre), e ritorna nelle Langhe ricco, stimato
e deciso a investire i soldi in un distributore di benzina. Ma anche
l'America di Pavese è di cartapesta, la sua California è
il fondale di un teatro d'oratorio, l'Oceano Pacifico un'oleografia.
Pavese aveva tradotto gli autori americani, non perdeva un film western
girato in Arizona, aveva amato disperatamente l'attrice americana
Connie Dowling, ma già a Roma si sentiva straniero. E infatti
in lui l'emigrazione non è partenza, ma ritorno, ricongiungimento
alle origini.
Forse, la cosa più bella sugli emigranti l'ha scritta, oltre
a Strati, anche Sciascia. E' un racconto di sei pagine soltanto, inserito
in Il mare color del vino. Narra di un'atroce truffa ai danni di alcuni
aspiranti emigranti siciliani: pagata una forte somma corrispondente
a tutti i loro averi per essere sbarcati clandestinamente in America,
essi vengono invece abbandonati, privi di tutto, su una spiaggia siciliana
a due passi da quella di partenza. Una metafora crudele, per dire
che si può fare il giro del mondo, e si tornerà ancora
alla miseria dalla quale si veniva, anzi a una miseria peggiore. Quasi
come se quello dell'emigrazione fosse un cromosoma, un incancellabile
marchio di nascita.
L'emigrante: che idea conserva del suo paese?
1) Chi è
l'emigrante all'estero di oggi?
2) Lo stato d'animo dell'emigrante di oggi è uguale a quello
di tanti anni fa?
3) Quale immagine dell'Italia conservano gli emigranti?
Rispondono Franco Ferrarotti, sociologo, docente all'Università
di Roma, e Valerio Castronovo, storico, docente all'Università
di Torino.
FRANCO FERRAROTTI
1) Una volta, emigrante voleva dire "poveraccio, terrone, calabrese";
oggi l'emigrazione italiana all'estero è tanto cambiata, che
possiamo distinguerne almeno due o tre tipi. Il primo riguarda la
persona che lascia l'Italia per andare a guadagnarsi da vivere all'estero:
soprattutto in Canada, un po' in Australia, meno negli Usa e in altri
Paesi. E' l'emigrazione che definirei più tradizionale, anche
se sul piano europeo viene ad avere caratteristiche diverse per via
della carta dei diritti di mobilità della manodopera, in vigore
nei Paesi Cee. Diritti acquisiti teoricamente, ma non sempre osservato
nella pratica.
Il secondo tipo di emigrazione è più raffinato, interessante,
e riguarda i cervelli. Non c'è banca o istituto di ricerca
o università o industria o ufficio estero in cui non si incontrino
italiani che attraverso borse di studio hanno trovato la via di un'emigrazione
che io chiamo "qualificata", ed è profondamente diversa
da quella tradizionale. Il terzo tipo di emigrazione è nuovissimo,
legato all'azione delle società multinazionali e comunque all'attività
import-export. E proprio qui sta il dato più significativo:
al di là delle grandi imprese, sempre presenti sui mercati
esteri, la corsa verso gli altri Paesi riguarda soprattutto le industrie
piccole e medie. In questo gli italiani stanno rivalutando un loro
grande merito storico: la capacità di eccellere nel piccolo,
di saper combinare il livello artigianale con un alto livello tecnologico.
Continuiamo ad avere questa straordinaria qualità rinascimentale
che ci rende capaci di lavorare in pochi e da soli in maniera efficacissima.
2) Lo stato d'animo è completamente diverso. I problemi emotivi
riguardano soprattutto il primo tipo di emigrazione. C'è una
ricerca di Michele Rizzo e Delia Frigessi, pubblicata alcuni anni
fa da Einaudi, sul male della nostalgia, su tutta una patologia dell'emigrante
legata al trapianto culturale da un Paese all'altro, all'amore della
terra natia abbandonata. Un ricercatore che lavora in Università,
Renato Cavallaro, ha raccolto a Bedford, in Inghilterra, le storie
"senza storia" degli emigranti calabresi. Problemi familiari,
difficoltà di adattamento, impatto con realtà che sfiorano
appena i protagonisti del secondo e del terzo tipo di emigrazione
di cui abbiamo parlato prima. Questi ultimi sono elementi dinamici,
molto motivati nell'ascesa sociale che vedono nel Paese verso il quale
si indirizzano. Emigrano, ma sanno che alla fine saranno premiati:
per loro non c'è più nulla della vecchia, dolciastra
mitologia dell'emigrante di deamicisiana memoria.
3) L'emigrante, molto spesso, è più italiano dell'italiano:
è legato a una vecchia idea dell'Italia che non ha più
ragione di esistere.
VALERIO CASTRONOVO
1) Mi sono occupato dell'emigrazione piemontese - biellese in particolare
- iniziata alla fine del secolo scorso, 1880-1890. Allora, contrariamente
a quello che si pensa, erano di più i settentrionali a emigrare
all'estero: Francia, Svizzera, il Delfinato, la Provenza, la costa
nizzarda, Lione, Ginevra. Piccoli coltivatori, mezzadri, fittavoli
che andavano all'estero per un certo numero di anni o per arrotondare
il gruzzolo o per guadagnare i soldi necessari a tornare al paese
e comprare un pezzo di terra. Talvolta era un'emigrazione temporanea
durante le stagioni morte, l'autunno e l'inverno, quando in campagna
non si lavorava. I grandi viaggi transoceanici cominciarono dal Nord
a fine secolo, verso l'Argentina, con la grande crisi agraria. Era
l'epoca di Crispi, erano anni di involuzione autoritaria: arrivavano
in America nuclei di lavoratori anarchici, socialisti; un gruppo di
tessitori biellesi fondò una comunità a Patterson, negli
Usa, che oggi è diventata un borgo abitato interamente da negri.
Dagli inizi del '900, cominciò il sopravvento della grande
emigrazione dal Sud. Il Nord cominciò a decollare, il Meridione
non riusciva a trovare sbocchi: l'emigrazione transoceanica diventò
definitiva.
2) Oggi l'emigrazione partita dall'Italia nel '900, e arrivata ormai
alla seconda-terza generazione nei Paesi in cui si è stabilita,
ha conquistato nuovi spazi nella scala sociale. A vedere i dati delle
analisi sociologiche negli Usa, si scopre che circa i due terzi di
coloro che portano un nome italiano occupano un posto nelle classi
medie o medio-alte della società americana. Se in passato gli
emigrati costituivano il filo rosso delle nostre esportazioni industriali
(là dove c'erano comunità italiane, le nostre industrie
trovavano i primi mercati), oggi sono i nuovi emigranti, i "tecnici
itineranti", a dare l'immagine del nostro lavoro all'estero.
Siamo portatori di tecnologie molto apprezzate nel Terzo Mori o, facciamo
costruzioni, impianti, dighe, strade, ferrovie, ospedali. E questo
"tecnico itinerante" non dà mai l'idea di essere
un colonizzatore.
3) Un tempo, quando partiva, l'emigrante considerava la madrepatria
come la matrigna che lo aveva allontanato, poi però quest'immagine
veniva attutita dalla nostalgia, fino a scomparire. E la nostalgia
non riguardava tanto la nazione, ma il paese, il villaggio. Oggi,
fra quelle seconde e terze generazioni di emigranti di cui abbiamo
parlato prima, si tende al recupero della propria cultura etnica:
i nipoti e i pronipoti dei vecchi immigrati partiti dall'Italia nel
'900 scoprono la storia, l'arte, le tradizioni del Paese dei nonni.
La Cee di fronte
al razzismo
LA PESTE CHE INFETTA
L'EUROPA
L'impennata xenofoba
Nella Germania Federale aumentano l'attivismo di una trentina di formazioni
neonaziste, che prendono di mira, in particolare, turchi e asiatici,
e l'arroganza della stampa antisemita.
Un'ostilità
dilagante
La Gran Bretagna grande serbatoio di conflittualità razziale.
In Belgio e in Francia sotto tiro arabi e nordafricani. L'Austria
respinge gli immigrati del Terzo Mondo. Ovunque è latente lo
scontro razziale.
Niente campi di cotone né autobus per soli visi pallidi all'East
Land londinese o nella banlieue parigina. Ma l'allergia crescente
per le tinte nere e per quelle olivastre conferma comunque il responso:
l'Europa risulta sieropositiva all'esame del virus di nome "xenofobia".
Diagnosi impietosa: l'intolleranza verso la gente di colore ha contaminato
il Vecchio Continente. Con non pochi problemi per quella Cee che in
tempi recenti ha promosso un'inchiesta su fascismo e antisemitismo,
scatenando il risentimento del capo carismatico dell'estrema destra,
Jean-Marie Le Pen, ma dando anche una salutare rinfrescata alla politica
comunitaria "all'acqua di rose" in tema di razzismo.
E' un viaggio amaro, quello che permette di sorvolare le piccole Harlem
diffuse tra Mediterraneo e Mare del Nord: ma è anche una doverosa
ricognizione a bassa quota tra discriminazioni e pregiudizi che caratterizzano
atteggiamenti diffusissimi nei confronti degli immigrati extracomunitari.
Magra figura per la Germania Federale, dove resiste l'attivismo di
una trentina di formazioni neonaziste e cresce l'arroganza di una
stampa razzista e antisemita, in grado di diffondere pubblicazioni
con una tiratura annua di otto milioni di esemplari.
L'impennata dei fenomeni xenofobi non è più sporadica:
destinatari, i lavoratori stranieri, e in particolar modo turchi e
asiatici.
Abbondanza di gruppuscoli fascisti anche in Belgio, con il Nouvel
Ordre Européen e il Front de la Jeunesse che spadroneggiano
in Vallonia e il Vlaamse Militanten Orde in Fiandra: in uno scenario
di conflittualità razziale che ha poche analogie altrove, che
digerisce passivamente pesanti situazioni di sfruttamento lavorativo
della gente di colore (il 70% degli immigrati non possiede una qualifica
professionale) e guarda impotente alla formazione di un sottoproletariato
dedito ad espedienti o a mansioni precarie (un disoccupato su quattro,
in Belgio, proviene dal Terzo Mondo).
Capitolo a sé - è il caso di dirlo - per la Francia,
meta di grandi ondate migratorie dal Continente Nero e dal mondo arabo,
oggi profondamente toccata dal successo del Fronte Nazionale di Le
Pen e imbarazzata dalla costante lievitazione dei sentimenti xenofobi
tra la popolazione. Cifre alla mano: alla metà degli anni Ottanta,
il 45% degli stranieri immigrati a Parigi giudicava i francesi "Piuttosto
razzisti", il 30% dichiarava di aver ricevuto insulti e il 7%
di essere stato perfino vittima di percosse. Bene: il rilevamento
è ancora attuale, corredato e aggiornato da resoconti giornalistici
che in questo decennio hanno gelata ogni ottimismo: dal lontano ottobre
'82, con l'assassinio di un arabo in un centro per stranieri di Nanterre,
all'uccisione di due turchi, due anni dopo, a Châteaubriant
(Loire Atlantique), ad opera di un giovane disoccupato, dalle aggressioni
di maghrebini (immigrati da Marocco, Algeria, Tunisia) nell'85 alle
più recenti azioni punitive contro nordafricani da parte di
aderenti a formazioni di estrema destra. Nel mirino, più di
altri, in una Francia dove una persona su tre discende da immigrati
giunti a Marsiglia o a Lione negli ultimi cent'anni, gli arabi. Con
una sola nota positiva: la recrudescenza della xenofobia ha coagulato,
per reazione, le forze più vivaci di un'opinione pubblica tollerante
che in Parigi ha sempre visto la propria capitale morale: e qui vanno
ricordate l'esperienza di "Sos racisme" e l'aggregazione
di scrittori, uomini politici, musicisti e intellettuali attorno alla
parola d'ordine: "No alla discriminazione".
Pochi accenni per l'Irlanda, dove pure un sondaggio di qualche anno
fa aveva indicato nel 24% la percentuale di abitanti dell'isola smeralda
convinti della necessità di relegare la gente di colore in
appositi quartieri separati dal resto delle città; così
come per la Danimarca (comunque alle prese con un'accresciuta ostilità
verso i profughi politici e la comunità ebraica) e per la Grecia
(dove l'esiguo numero di immigrati non consente eclatanti episodi
di xenofobia).
E arriviamo al Regno Unito, un altro grande serbatoio di conflittualità
razziale dopo la caduta dell'"impero coloniale" e il travaso
di pakistani e di indiani su Londra, Brixton, Birmingham e Handsworth.
Qui i dossier e i rapporti ministeriali sulle aggressioni razziali
si sprecano: con gli "Skinheads" e gli "Hooligans"
a terrorizzare quartieri e caseggiati frequentati da gente di colore
e a trasferire nei luoghi di ritrovo e negli stadi una violenza verbale
e fisica che da anni le autorità locali cercano vanamente di
contenere. Un dato esauriente: il 90% della popolazione ammette l'esistenza
di forti pregiudizi contro asiatici e africani.
"Pollice verso" per gli stranieri provenienti dal Terzo
Mondo anche in Austria, dove sono attivi 50 gruppi di estrema destra
e l'ostilità razzista e antisemita rappresenta una costante
degli ultimi decenni; mentre la situazione appare agrodolce in Olanda,
e, se non proprio idilliaca, per lo meno tranquilla in Lussemburgo.
Da ultimo, in Italia, dove la xenofobia raramente ha rappresentato
un'emergenza (mentre lo è la conflittualità tra Nord
e Sud). Qui il numero di incidenti razziali resta esiguo rispetto
alla media europea: ma il diffondersi di un certo "razzismo strisciante"
sembra confermato dalle ultime aggressioni contro extracomunitari.
Un'impressione condiviso: la relativa presenza di stranieri (un milione
e 200 mila, pari al 2% della popolazione; contro il 5% della Gran
Bretagna e il 10% della Francia) ha trovato finora i suoi naturali
ammortizzatori nelle iniziative di solidarietà promosse da
associazioni cattoliche e di sinistra, da forze sindacali e da organismi
volontari che da tempo si fanno carico delle loro rivendicazioni.
Ma il trend di crescita dell'esercito di immigrati dai Paesi poveri
non lascia margini all'ottimismo: specie in una situazione (qual è
l'attuale) che brilla per scarsità di strumenti legislativi
e per disinteresse del mondo politico.
Ed è in uno scenario simile che la Cee tenta di scalfire la
resistenza dei Paesi membri a fare del fenomeno "immigrazione"
un problema comunitario.