§ Civiltą sul mare

Le rotte del sole




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Le rotte dei Fenici. Dice Sabatino Moscati che oggi possiamo ripercorrerle, soprattutto giovandoci dei mezzi di comunicazione eccezionalmente rapidi del nostro tempo, raggiungendo facilmente i principali luoghi d'arrivo, i maggiori punti di concentrazione, insomma le più importanti città fenicie. Se si ricorda che la Città-Stato, e cioè il centro autonomo nella struttura amministrativa e commerciale, è l'elemento caratterizzante di tutto l'antico mondo mediterraneo, si comprende che individuare, visitare, "interpretare" un insediamento marinaro è come vedere riflesso, in un piccolo punto, un grande universo.
Ma la rivisitazione delle maggiori città fenicie ha anche altre caratteristiche, altri motivi di attrazione. Anzitutto, osservando le rotte di questo popolo, ci si rende conto che esse seguono un andamento ben preciso: quello da Oriente verso Occidente, dal Libano verso la Spagna. E', insomma, la via del sole, che nel mondo antico coincide con la via della civiltà. Ex Oriente lux: il detto latino esemplifica bene una realtà che muterà in seguito profondamente, ma che per almeno due millenni prima dell'era cristiano governa l'andamento della storia.
Poniamo attenzione alla struttura delle città. Sono sul mare, tutte, senza rilevanti eccezioni. E occupano posizioni molto precise, su isolette che fronteggiano la costa, ovvero su promontori, ovvero ancora in grandi insenature. La condizione preliminare è sempre che le acque siano basse, lagunari, in modo da consentire l'attracco delle modeste navi di allora, senza che i venti le gettassero sulle scogliere.
E poi, i venti: ecco un altro elemento condizionatore degli approdi. Infatti, i promontori che si spingono profondamente nel mare, e che spesso si incavano su entrambi i lati, consentono alle piccole navi di ripararsi dall'una o dall'altra parte, secondo le circostanze. Le isolette offrono la stessa possibilità dalla parte interna, quella che fronteggia la costa continentale e che le è spesso collegata da una sottile striscia di terra, affiorante oppure no, secondo le maree. Quanto alle grandi insenature, esse riparano e proteggono come tali le navi che vi stanno alla fonda.
Chi ponga insieme tutte queste caratteristiche, e aggiunga la necessaria presenza dell'acqua potabile, cioè dei pozzi che costituiscono la condizione stessa della vita, si renderà conto che esiste una vera e propria "fisionomia" che si può riconoscere e talora anche riscoprire, facendosi temporaneamente archeologi, pur senza esserlo di professione. C'è, infatti, una distanza media da prevedere tra l'uno e l'altro insediamento: quella di circa trenta-quaranta chilometri, che corrispondono al tempo di navigazione durante il giorno di una navicella antica. I Fenici, di norma, navigavano lungo le coste e sostavano di notte. Se dunque si parte da un centro già conosciuto, è possibile trovare alla distanza suddetta la tappa successiva.
Racconta Erodoto, senza neanche crederci troppo, una strana avventura di cui si erano vantati certi marinai fenici. Erano partiti dal Mar Rosso, e, navigando per anni, tenendosi sempre con la terra in vista a dritta, avevano finito col raggiungere le Colonne d'Ercole. E qui avevano ritrovato l'onda familiare del Mediterraneo. Un viaggio intorno all'Africa, dunque, ma anche un viaggio intorno al sole. I marinai di Sidone avevano riferito che nella prima parte del loro itinerario la luce dell'alba arrivava da sinistra, e i bagliori del tramonto colpivano le navi sulle fiancate di dritta. Più avanti, ecco la scena misteriosa mutata: il sole che sorge a dritta, cioè dalla parte di terra, e tramonta in mare a sinistra.
Basta dare un'occhiata a una carta geografica per spiegare le osservazioni dei marinai fenici. Il punto di svolta è quello che altri navigatori, decine di secoli più tardi, chiameranno Capo di Buono Speranza. Probabilmente gli audaci esploratori mediterranei ebbero altre ragioni di stupore. Che dire, per esempio, del fatto che, indipendentemente dalla stagione, c'erano due tratti dell'itinerario in cui il giorno durava esattamente quanto la notte? E in cui il sole era così alto a mezzogiorno che un uomo, in piedi sul ponte della nave, non mandava nessuna ombra? Magia, malaugurio? Certo, ci voleva un bel fegato, ai tempi delle imprese fenicie, per venire a capo di misteri come questi. Rifacendo oggi quell'itinerario non resteremmo più a bocca aperta. Troveremmo del tutto naturale che, andando verso sud, il sole sorga a sinistra, e che mettendo la prua a nord il mondo si capovolga. Non ci meraviglierebbe scoprire che dalle parti dell'equatore il giorno è sempre uguale alla notte, e il sole a mezzogiorno è esattamente sulla verticale.
Ma proviamo a fare un viaggio, frugando nelle ombre del passato, ispirandoci alla bussola di un'archeologia molto varia. E possiamo cominciare da Cartagine, doveroso omaggio ai protagonisti dell'avventura raccontata dallo scettico Erodoto. Nel porto circolare, le navi destinate ad aggredire Roma. C'è un isolotto, al centro di quello specchio d'acqua, nel quale avevano sede i comandi. Poco più in là, il porto mercantile, che il tempo ha trasformato in una vasta laguna poco profonda. Accanto, verso terra, i resti del santuario sacro alla dea Tanit e al dio Baal Hammon: i quali venivano onorati con frequenti sacrifici. Per il resto, Cartagine punica non esiste quasi più: i conquistatori vi avevano sovrapposto un'altra città, Cartagine romana. Di archeologia romana è pieno il Nordafrica: possiamo trovare le tracce più appariscenti in Tunisia. Basti pensare all'anfiteatro di El Djem, una specie di Colosseo nel deserto, o agli spettacolari mosaici custoditi nel museo del Bordo. E in Libia, le solenni rovine di Leptis Magna: che fu un'altra città fenicia romanizzata.
Egitto. Siamo nella terra dei monumenti più complessi che mai la morte abbia ispirato. Lo spettacolo è quello che anche i marinai del racconto di Erodoto possono aver visto. Le piramidi di Giza esistevano già da secoli, quando un lontano successore dei faraoni Cheope, Chefren e Mykerynos, i titolari di queste fantastiche sepolture, diede il via all'avventura, incaricando i navigatori fenici di esplorare il Mare Eritreo.
Più a sud, un piccolo porto, Suakin, su un'isoletta in territorio sudanese, lungo la costa del Mar Rosso. Splendido mare, costa desertica e inospitale. Ma Suakin riscatta tutta la tristezza di questa regione. Era il porto d'imbarco per gli schiavi razziati all'interno e destinati ai mercati d'Arabia. Ora la città è in buona parte abbandonata, il clima arido l'ha conservata intatta. Qui si cercano resti di strutture fenicie.
Proseguiamo verso sud. E' la rotta iniziale dei navigatori fenici con le albe a sinistra e i tramonti a destra. Ci sono luoghi mitici: la Terra di Punt, il Regno del Prete Gianni. Dalla prima giungevano nell'antichità preziosi carichi d'incenso. Dal secondo, molto più tardi, contraddittorie leggende su un'isola cristiana nel selvaggio mondo pagano. L'isola cristiana c'è ancora, sull'altopiano etiopico, per quanto un po' malconcia per le disavventure politiche degli ultimi anni.Se lo consentono le due grandi piaghe d'Etiopia, guerriglia e carestie, è un'esperienza unica visitare le testimonianze del cristianesimo copto ad Axum e a Lalibela.
A questo punto, il salto è lungo. Si deve oltrepassare l'equatore, procedendo verso sud fino a sfiorare il Tropico del Capricorno: è lo Zimbabwe, paese di recente e contrastata indipendenza. Lo stesso nome di questo Stato designa un insieme di imponenti rovine di pietra, sul quale storici ed archeologi continuano ad interrogarsi. C'è una grande cintura circolare, ci sono torri e spesse muraglie. Le datazioni al carbonio dicono che le costruzioni di Zimbabwe risalgono a un arco temporale compreso fra il Mille e il XVI secolo. Qualcuno pensa che potrebbe trattarsi della capitale di un leggendario regno antico, che i portoghesi chiamarono del Monomotapa.
Dopo l'enigmatica immersione in questo mito, è forse opportuno passare dalle parti dei boschi del Manicaland, al confine fra Zimbabwe e Mozambico, con climi dolcissimi e temperati. Dopo di che, la tappa più lunga, più trenta gradi di latitudine. Si volge la prua verso nord, anzi verso nord-ovest: in questa fase del viaggio avremo, come i marinai fenici sulla via del ritorno, il sole che si leva alla nostra destra. Si riattraversa l'equatore, e si passa in Senegal. Da queste parti c'è una piccola isola, Gorée, proprio di fronte a Dakar. E' l'equivalente atlantico di Sualkin, sul Mar Rosso, visitata nella fase discendente del periplo. Come Suakin, Gorée è stata per secoli il luogo di concentrazione degli schiavi, in attesa del trasporto verso i mercati europei, o della traversata atlantica verso le Americhe. Cantata con accenti appassionati dal poeta di questa terra, Leopold Sedar Senghor, l'isola conserva gelosamente le terrificanti memorie della tratta. C'è l'edificio-fortezza in cui gli schiavi venivano ammassati, ci sono i ferri che li assicuravano ai muri, ci sono i moli sui quali davano l'ultimo addio al loro mondo. Se Suakin è il monumento allo schiavismo arabo, Gorée ricorderà per sempre lo schiavismo euro-americano: sono i due aspetti di una tragedia dalle dimensioni bibliche.
Dalla Bibbia al Corano. Ultima tappa a Kairouan, la terza città santa dell'Islam, dopo la Mecca e Gerusalemme. Siamo di nuovo in Tunisia, a poca distanza da Cartagine, dove il periplo era incominciato. Testimonianze musulmane se ne incontrano spesso, lungo il giro d'Africa. Qui, nel Nordafrica romano e poi cristiano, l'invasione araba arrivò dirompente nel VII secolo. Nella grande moschea di Kairouan una reliquia è meta di devoti pellegrinaggi: tre peli della barba di Maometto. Fuori, oltre le mura della città, variopinti cavalieri berberi galoppano sparando in aria con i vecchi fucili. E così, nella polvere della festa antica, si chiude il cerchio del giro d'Africa che incantò i fenici, ma -a torto - non l'incredulo Erodoto.
I bambini dell'antica Grecia, lo sappiamo da Aristofane, al mattino cantavano con gioia: "Vieni fuori, caro sole!".
E poco meno di 1500 anni prima di Cristo, in Egitto, il sole veniva rappresentato con i suoi raggi terminanti a forma di mani che elargiscono agli uomini l'ankl, il simbolo della vita. A distanza di tanti secoli, ritroviamo un'aria familiare: anche noi, come gli antichi greci, siamo allietati dal sorgere del sole, e anche noi, come gli egizi, ne percepiamo ancora il significato come universale fonte di vita. Ma se cerchiamo di osservare le cose con un po' più di attenzione, ci colpiscono subito grandi differenze.
A noi, certo, non verrebbe in mente di salutare con una preghiera, come faceva Socrate, il sole nascente; e ci sembra strano che potesse essere considerata scandalosa la definizione che aveva osato darne il filosofo Anassagora: una massa incandescente. Insomma, per gli antichi il sole era qualcosa di divino, e ancora un uomo del Medioevo, come Francesco d'Assisi, lo sentiva significare Dio: "De te, Altissimo, porta significatione". Se i popoli più remoti conoscevano la paura che il sole scomparso all'orizzonte o inghiottito dalle tenebre di un'eclisse potesse non sorgere o non splendere più, anche la sua divina luminosità la sentivano come terrifica. Il sole non dà soltanto la vita, ma anche la morte: inchioda le cose nel fuoco del meriggio, secca spietatamente, brucia, consuma.
Le cose lontane si appiattiscono, come viste attraverso il teleobiettivo, e degli antichi siamo portati quindi a farci un'immagine semplificata, in base a quelli che dal nostro punto di vista dovrebbero essere i caratteri di una specie di ingenua infanzia del mondo. Facilmente immaginiamo gli uomini delle epoche lontane attratti, come i bambini, dagli aspetti più clamorosamente evidenti delle cose, e fermi più o meno a quelli. In realtà, si avvolgevano anche loro, proprio come noi, in domande e problemi. Dove va il sole quando tramonta? Come fa a ritornare nel punto dal quale, all'estremo opposto del cielo, riprende al mattino il suo cammino? Ma soprattutto, e leggendo testi di storia delle religioni se ne subisce l'impatto sconcertante, legavano le cose e i significati delle cose mediante catene interminabili di simboli che enunciavano o alludevano a identificazioni, corrispondenze, analogie senza fondo. La complessità del loro mondo dei simboli non ha niente da invidiare alla complessità del nostro mondo tecnologico.
Possiamo, percorrendo il corso apparente del sole, sorvolare su qualche traccia delle antiche concezioni solari. Cominciamo dunque da quello che per noi è l'Estremo Oriente, da quel Giappone che non senza ragioni innalza un rosso sole sulla sua bandiera. Per i giapponesi, infatti, a differenza dei cinesi e di altri popoli mongolici, la più alta divinità posta a capo del pantheon non era il cielo, ma il sole. E il sole era la dea-sole, che al tempo stesso era una donna che si nascondeva in una grotta, o filava con le sue ancelle nelle sole di un palazzo: ai cui discendenti apparteneva di diritto il trono del Sol Levante.
Se il sole era una dea, a lei era sottoposto il dio-luna. Come si vede, tutto è opinabile. Quella che a noi, abituati a considerare maschile il sole, con i suoi penetranti raggi fecondatori, e femminile la luna, con la sua calma, dolce penombra, appare una curiosa inversione, è comune in molti luoghi, anche vicini a noi. La lingua tedesca testimonia che il sole può essere sentito femminile, con il suo calore che alimenta la vita, e la luna, con i netti contorni della sua gelida luce, maschile.
In Cina, Hi-ho è il sole, o piuttosto la madre dei soli, che sono dieci, in corrispondenza dei cicli stabiliti dal loro calendario. Il loro sovrano regna in quanto Figlio del Cielo, e l'identificazione con il sole è assicurata dal fatto rituale che cammina sulla terra imitando il cammino del sole, muovendosi cioè nei territori del suo impero che visita, come pure all'interno della residenza imperiale, secondo il corso del sole, da oriente a occidente, indossando paramenti e abitando padiglioni di colore diverso, a seconda di ogni punto cardinale. Anche in India il sole è una figura divina, ma resta molto in secondo piano rispetto ai grandi Dei vedici. Ha un'amante, Usas, che, un po' stranamente per noi, è la dea dell'aurora. In compenso, una fortuna straordinaria avrà anche in Occidente, in epoca imperiale romana, Mithra, un'antica divinità indo-iranica della luce, che nel mondo morale era un dio della verità, un giusto giudice, un difensore dei buoni, e venne poi identificato col sole che vede tutto, perché i suoi raggi giungono ovunque. Fra i semiti - dalla Mesopotamia alla Siria, alla Fenicia - erano diffusi i culti astrali; celebri quelli di Sin, divinità lunare, e di Ishtar, divinità del pianeta Venere. Solo tardivamente acquisterà importanza il culto di Shamash, il dio del sole. Gli antichi calendari sono infatti lunari. Ma la più bella storia del sole è anche la più antica, e ha per protagonista, insieme con l'astro, il faraone Amenhotep IV, che regnò nel XIV secolo prima di Cristo. Gli egiziani avevano un dio in forma di falco, Horus, che era il cielo, e il suo occhio era il sole; il falco Horus divenne poi il sole volante nel cielo. Ma con il nome di Re il sole era già adorato, a Eliopoli, come il più grande di tutti gli dei: intorno al 2750 a.C. la religione di Re con i suoi sacerdoti era la religione di Stato. Ma il passo decisivo, che avvicinò la religione solare egiziana al monoteismo, fu compiuto da Amenothep IV, "Il faraone gracile e quasi deforme, destinato a morire molto giovane", che - scrive Mircea Eliade - "aveva scoperto il significato della "gioia di vivere", la beatitudine di godere della creazione inesauribile di Aton". Aton era l'antico nome del disco solare visibile sull'orizzonte, e il faraone volle assumere il nome di Akhenaton, "spirito di Aton".
Akhenaton pagò il suo grandioso e sostanzialmente fallito sogno di imporre la religione di Aton con la passività politica e militare, tanto che l'Egitto perdette il suo impero asiatico. Ma l'inno di Akhenaton ad Aton è il vertice della letteratura religiosa egiziana e ancora oggi non si legge senza commozione. Echeggiano concetti e persino parole simili a quelle del Cantico di San Francesco: "Tu sei bello, grande, raggiante sublime sopra la terra", ("Ellu è bellu e radiante cum grande splendore"). Aton non è solo potenza, ma bellezza e benevolenza: "I tuoi raggi abbracciano tutte le contrade fatte da te; tu le hai fatte tutte prigioniere, perché le hai legate a te con il tuo amore".
C'è chi parla esplicitamente, a proposito della religione di Aton, di monoteismo: il Sole, creatore universale e cosmocrate, è il solo dio universalmente accessibile, e i fedeli potevano adorarlo in tutta la sua gloria nei suoi santuari a cielo aperto. Altri vedono piuttosto i limiti di una religione esclusiva, che di fatto era riservata alla famiglia reale e ai personaggi della corte. E' certo comunque che la religione solare del faraone Akhenaton ha definitivamente fatto dell'Egitto religioso la terra del sole e della vita. La fredda Russia, nei letterati e nei poeti fra gli ultimi due secoli, come Rozanov e Merezkovskij, ha addirittura idolatrato l'Egitto e i suoi simboli: la barca solare che attraversa il cielo, alla quale salgono i faraoni defunti, lo scarabeo stercorario che spinge avanti il globo del sole.
E siamo in Occidente. Elio, il sole, è in Grecia un dio che, secondo un'immagine sia indoeuropea sia antico-orientale, attraversa il cielo col suo carro di fuoco tirato da focosi cavalli alati. Il suo culto è importante a Rodi, dove la divinità diventa antropomorfa e viene rappresentata nel celebre Colosso di Rodi, la più grande statua greca in bronzo. Nell'isola si offriva a Elio, poi identificato con Apollo, un sacrificio spettacolare, che ritualizzava il mito di Fetonte, il figlio del sole che, improvvisatosi auriga del carro solare, lo fece precipitare: una quadriga veniva precipitata in mare.
Roma, infine, aveva incontrato il culto solare nella forma dell'eliolatria siriaca. L'avevano portato nella capitale i soldati che agli inizi della nostra era, in una campagna d'Oriente, prima della battaglia avevano proclamato la divinità del sole salutando con altissime grida l'aurora. Nel terzo secolo, Eliogabalo, sacerdote del dio solare siriaco ma pessimo imperatore, farà coniare monete dedicate Sancto Deo Soli e gli edificherà un grande tempio a Roma. Ancora nello stesso secolo un altro imperatore, Aureliano, consacrerà ufficialmente il culto del Sol invictus, sperando così di riuscire a unificare sudditi cristiani e seguaci di Mithra e di altri culti orientali sotto il medesimo emblema solare. Nelle iscrizioni è ricorrente il titolo Sol Invictus Mithra, di cui si celebra la nascita al solstizio d'inverno, il 25 dicembre, divenuto poi il Natale di Gesù.
La vicinanza fra la luce del cielo e l'ordine morale del mondo, sentita e testimoniata in diverse remote tradizioni, si avviava a diventare una forma di sincretismo pagano-cristiano.Il fanciullo divino Mithra che emerge dalla roccia è il sole al suo levarsi, e Cristo è il sole della giustizia. Questa identificazione simbolica fra il Dio cristiano e il sole è stata ben viva negli animi per molti secoli. Oggi, se ancora sussiste, non è più che una stanca sopravvivenza retorica: nel Cristianesimo il sole non ha più la forza di un simbolo vivo, come l'aveva ad esempio quando i monaci scandivano pregando le ore del suo corso. Il sole è tornato pagano, oggetto turisticamente ricco, ma in realtà enormemente impoverito, di un immemorabile culto della natura.

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