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Cronache degli sprechi
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Programmazione senza fatti |
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Libero
Lenti
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Ogni
tanto si sente parlare di programmazione economica, una politica che
negli anni Sessanta infiammò molti politici e per la verità
anche alcuni economisti che nella programmazione intravedevano la possibilità
di conseguire, contemporaneamente tre obiettivi, e precisamente quelli
dello sviluppo strutturale del prodotto nazionale, dell'attenuazione
delle oscillazioni congiunturali e del miglior equilibrio nella distribuzione
dello stesso prodotto. Lo spunto per queste rinnovate discussioni sulla
politica di programmazione ha trovato qualche tempo fa un'eco in un'osservazione
della Corte dei conti sulla confusione dei compiti istituzionali svolti
dal ministero del Tesoro e da quello del Bilancio e della Programmazione.
Giova ricordare, a questo proposito, che in un primo tempo, e cioè
nel '47, il ministero del Bilancio, affidato a Luigi Einaudi, riguardava
solo il bilancio in senso proprio. Solo in un secondo tempo, nel '62,
all'inizio della stagione calda della politica di programmazione, la
denominazione del bilancio venne così completata con quella della
Programmazione. Potenza delle parole. Ma di quale "bilancio"
si trattava, e si tratta, lasciando per il momento da parte la programmazione?
Risulta a evidenza che nel '47, nell'affidare a Einaudi questo ministero di nuova creazione, si voleva in buona sostanza assegnargli il compito di coordinare ogni provvedimento di politica economica. E questo tanto più se si ricorda che Einaudi era pure vicepresidente del Consiglio. Aveva quindi giurisdizione su tutti i ministeri che, in un modo o nell'altro, svolgevano compiti riguardanti la produzione, circolazione e distribuzione del prodotto nazionale. La programmazione fantastica. Rispondo adesso alla domanda dianzi posta. Prima però occorre fare una constatazione che a prima vista può sembrare estraneo al tema. La verità è che la pubblica amministrazione ha sempre programmato e sempre programmerò. Quando lo Stato impone questo o quel tributo, quando, direttamente o indirettamente, adotta questa o quella politica monetaria, quando sceglie un investimento pubblico piuttosto che un altro, quando modifica le condizioni operative dei mercati, e via dicendo, si propone evidentemente di conseguire particolari obiettivi. Questi obiettivi, tuttavia, debbono, o dovrebbero essere, strettamente compatibili con le risorse economiche che il sistema è in grado di fornire. Gli obiettivi sono tanti, ma le risorse poche, o per lo meno insufficienti a conseguirli tutti assieme. Donde la necessità di scelte concorrenti e alternative. Si presento però una differenza sostanziale tra una politica economica vecchia maniera, spesso affidata all'intuito, per non dire alla fantasia, molte volte interessata, dei politici, e una politica economica nuova maniera, o se si vuole di natura programmatoria, attuata in base a scelte che presuppongono una precisa conoscenza del bilancio economico nazionale. Questo bilancio da una parte registra le risorse disponibili costituite dalla produzione nazionale e dalle importazioni, e dall'altra le risorse impiegate, costituite dai consumi e dagl'investimenti, nonché dalle esportazioni. Ecco la risposta. Ma ecco pure la spiegazione per cui la programmazione economica, librata sopra e fuori la dimensione e la presa della finanza pubblica, è rimasta un libro dei sogni. Il bilancio economico nazionale, torno a ripeterlo, è, o dovrebbe essere, la guida d'ogni politica economica razionale, e razionale in quanto si propone di mantenere in equilibrio le quantità che misurano le risorse disponibili e gl'impieghi delle stesse risorse. Niente di tutto questo. Il bilancio economico nazionale è rimasto uno chiffon de papier. Si continua ad andare avanti con provvedimenti che, di volta in volta, appena consentono di tamponare le ferite inferte al nostro sistema economico considerato come un tutto. Il bilancio economico nazionale, alla resa dei conti, si limita ormai a registrare consuntivamente gli squilibri, in termini reali, delle risorse disponibili e del loro impiego in consumi e investimenti, squilibri poi ricomposti in termini monetari grazie alla svalutazione della moneta. Risorse sprecate. C'è bisogno di documentare tutto questo? Non credo. I disavanzi di bilancio del settore pubblico provano ampiamente il fallimento d'ogni politica di programmazione economica, e anche semplicemente d'ogni politica della finanza pubblica. Si spende e si spande senza alcun tentativo d'evitare sprechi. Al punto in cui siamo è lecito domandarsi se non era facile prevedere come si sarebbe andati a finire con la spesa sanitaria. Forse lo si sapeva, ma ci si è guardati bene dal programmare i costi e i benefici di questa politica. Lo stesso dicasi per la spesa previdenziale e assistenziale. Anche in questo caso era possibile distinguere questi due obiettivi. Invece, volutamente confusi, danno luogo a disavanzi sempre più esplosivi. Non parliamo poi degli sprechi degli enti locali. Oggi che si torna a discutere la nostra politica meridionalista nessuno ha mai pensato a fare il conto delle risorse sprecate con opere pubbliche piantate a metà, con impianti industriali costruiti e mai entrati in funzione. Insomma, lo Stato, incapace di programmare in casa propria, nell'ambito del settore pubblico, non poteva assumersi il compito di programmare in casa altrui, nel settore privato. Non c'è bisogno di concludere. Solo qualche osservazione. Se si bada ai tre obiettivi che ogni politica razionale si propone di conseguire in quanto guidata da un bilancio economico nazionale, si può ben dire che in questi ultimi vent'anni o poco più il prodotto nazionale s'è sviluppato con un ritmo sempre più lento, che le oscillazioni congiunturali sono risultate assai più ampie e che la distribuzione del prodotto nazionale, anche per gli effetti perversi dell'inflazione, non è risultata più equilibrata di quella d'un tempo. Questo accade sempre quando le parole rimangono parole e i fatti tardano a venire. FATTORE DI DEBOLEZZA Nel contesto internazionale,
le condizioni dell'economia italiana si presentano complessivamente
favorevoli. Ma i fattori di debolezza non sono stati rimossi; la finanza
pubblica resta l'ipoteca più grave sulle possibilità
di uno sviluppo regolare e sostenuto, non insidiato dal rischio dell'inflazione,
esteso alle regioni meridionali, dove sempre più tende a concentrarsi
una disoccupazione che, sebbene in lieve flessione, permane, per l'intero
Paese, sul 12% delle forze di lavoro. |
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