§ Stabilità monetaria dell'economia mondiale

I confini del dollaro




Giovanni Magnifico



Per un certo tempo in Europa si è temuto che la politica di stabilizzazione monetaria americana comportasse il pericolo di un global crowding-out, o di spiazzamento a livello planetario della ripresa economica; in altri termini, che l'allentamento della stretta monetaria, nella estate del 1982, necessario per prevenire il collasso dei sistemi bancari e finanziari, sia stato giusto sufficiente a rilanciare l'attività produttiva negli Stati Uniti, ma non nel resto del mondo.
C'è piuttosto una complessità di fattori, interni ed esterni, i quali fanno sì che le economie europee abbiano stentato a decollare.
l fattori interni possono essere identificati globalmente nelle molteplici rigidità che tendono a sclerotizzare la struttura della capacità produttiva, del mercato del lavoro, dei bilanci pubblici. Mentre a livello mondiale si producevano forti mutamenti nel sistema dei prezzi relativi, nella composizione della domanda, nella partecipazione dei Paesi di nuova industrializzazione all'offerta di manufatti, in Europa è generalmente prevalsa la tendenza a salvaguardare l'occupazione a breve termine, con la conseguenza che si è mantenuta l'esistente struttura industriale al di là di quanto coerente con un processo di aggiustamento mediamente efficiente.
l documenti pubblici, prodotti per giustificare contributi a fondo perduto, sussidi ed altre spese a carico del bilancio statale, che hanno l'effetto di mantenere in vita enti, gruppi e imprese incapaci di reagire alle sollecitazioni provenienti dai mercati, testimoniano di un approccio che, specialmente in Italia, ha avuto l'effetto di incoraggiare l'inerzia industriale, l'inefficienza e lo sperpero di risorse; queste sono state sottratte alle imprese dinamiche, il cui obiettivo di aggiustamento è stato in corrispondenza reso più difficile e più costoso.
La lettura delle relazioni delle imprese americane ai propri azionisti mostra quanto diverso sia stato l'approccio con il quale sono stati affrontati i problemi riproposti con urgenza dal secondo shock petrolifero. Negli Stati Uniti ha fatto premio la flessibilità: negli assetti patrimoniali delle imprese, nella struttura e composizione dell'offerta, nell'organizzazione dei processi produttivi, nel prezzo del lavoro, che è sceso in termini reali.
Data questa diversità di approccio, si è formato un differenziale di efficienza e di profittabilità, corrente e nelle prospettive di periodo medio-lungo, favorevole all'economia americana. Esso ha un peso nel determinare i movimenti internazionali di capitali che è notevole e, forse, addirittura maggiore di quello attribuibile al differenziale dei tassi d'interesse, esistente fra Stati Uniti ed Europa; il ruolo di quest'ultimo è stato probabilmente sopravvalutato.
Occorre notare, peraltro, che i paesi europei, opportunamente, hanno evitato di coinvolgersi in una escalation dei tassi d'interesse con gli Stati Uniti. Essi hanno utilizzato gli spazi disponibili negli assetti attuali per perseguire una politica dei tassi, appropriata ai bisogni delle proprie economie in fase di ristagno, riuscendo in tal modo ad emanciparsi, in parte, dalla politica monetaria americana. Nella misura in cui hanno operato una sorta di dissociazione dei propri tassi d'interesse da quelli americani, essi hanno dovuto accettare le implicazioni in termini di tassi di cambio con il dollaro.
Negli ultimi tempi, vi è stata, specialmente in Italia, la tendenza a drammatizzare le implicazioni per le economie europee dell'apprezzamento dei dollaro. L'allarme nasce dall'assunto che l'evoluzione dei prezzi all'origine delle materie prime sarebbe la stessa se il dollaro, invece di essere forte, fosse debole. I prezzi relativi e, in particolare, quelli ai quali le materie prime si scambiano contro manufatti sono governati da forze fondamentali, che rispondono all'evoluzione delle variabili economiche reali a livello mondiale e determinano l'andamento delle ragioni di scambio nel sistema del commercio internazionale. I prezzi pagati nelle rispettive monete nazionali dagli importatori di materie prime dipendono, più che dalle fluttuazioni del dollaro per sé, dall'evoluzione delle ragioni di scambio.
Allo scopo di favorire, in queste condizioni, la ripresa dell'attività economica in Europa, mentre è opportuno e necessario che Paesi come l'Italia, dove l'inflazione non è stata del tutto battuta, continuino a perseguire indirizzi restrittivi, deve essere chiaro che, nei Paesi - Germania, Regno Unito, Olanda, Svizzera - dove l'inflazione è scesa a livelli prossimi a quelli degli anni Cinquanta e Sessanta, continuare con le politiche disinflazionistiche, fino a poco tempo fa necessarie, vorrebbe ora dire perseguire politiche in effetti deflazionistiche; ossia vorrebbe dire aggravare le tendenze recessive. Poiché l'ostacolo principale è costituito dai disavanzi strutturali del settore pubblico, potrebbe essere necessario, ove la ripresa economica non fosse abbastanza sostenuta, effettuare una manovra di politica di bilancio diversificata, intesa a conciliare il ripianamento dei deficit strutturali con la funzione anticiclica, di breve periodo, che quella politica deve poter svolgere, con un effetto netto espansivo nelle fasi di recessione.
La Cee non dovrebbe deflettere da una politica di incoraggiamento degli investimenti e di rilancio dell'attività economica, anche se questo dovesse comportare un peggioramento delle ragioni di scambio. Le ragioni di scambio di economie che per un lungo periodo non riescono a recuperare sufficiente dinamismo, sono comunque destinate a peggiorare. Invece, nell'ambito di una politica comunitaria di ripresa della crescita economica, il peggioramento sarebbe verosimilmente temporaneo e, per ciascuno dei paesi membri, più contenuto. In contropartita, la Cee si avvantaggerebbe, nella misura in cui realizzi una politica siffatta, di un'allocazione della domanda mondiale che, in regime di cambi flessibili, tende a penalizzare i Paesi, i quali affidano alla politica monetaria e, in particolare, ai tassi d'interesse il compito di combattere gli impulsi inflazionistici emanati dai disavanzi dei bilanci pubblici.
L'argomento secondo cui un abbassamento dei tassi d'interesse negli Stati Uniti, tale da ridurre il differenziale che farebbe da magnete sui movimenti internazionali di capitali, presuppone una svolta restrittiva della politica di bilancio con un drastico taglio dei disavanzi del governo federale, è probabilmente corretto; sembra, quindi, in linea di massima giustificato l'incitamento che proviene dall'Europa che gli Stati Uniti agiscano in questo senso. Non altrettanto corretta sembra l'aspettativa, che generalmente si nutre di qua dall'Atlantico, secondo cui, una volta ridotti i disavanzi di bilancio e i tassi d'interesse, il cambio del dollaro crollerebbe. Gli è che la riduzione dei deficit del bilancio federale libererebbe risorse per le esportazioni, ridurrebbe la domanda di importazioni, tenderebbe perciò a riassorbire il disavanzo della bilancia dei pagamenti correnti: a quel punto, gli alti tassi d'interesse non le sarebbero comunque necessari per "controllare" il cambio del dollaro.
Occorre che gli europei prendano coscienza del fatto che l'evoluzione dei tassi di cambio risponde in ultima analisi a fattori di fondo, i quali possono essere influenzati durevolmente mediante misure fondamentali sulle variabili reali, atte a promuovere il dinamismo delle economie, a generare risparmio, a orientarne l'investimento nelle combinazioni più produttive, ad accrescere la profittabilità degli investimenti. I fattori di fondo sfavorevoli riguardano ciascun Paese europeo in grado diverso; alcuni sembrano aver recuperato nel periodo più recente sufficiente dinamismo nel campo degli investimenti e della tecnologia perché gli operatori, anche quelli sui mercati dei cambi, non ne tengano conto. Ma, a confronto del divario con gli Stati Uniti, il ventaglio delle differenze inter-europee si restringe, al punto di far apparire i Paesi Cee un gruppo largamente omogeneo. Se essi riusciranno, nell'ambito dei meccanismi comunitari più validi per il coordinamento delle strategie economiche, a decidere i provvedimenti necessari per una crescita sostenibile nel periodo medio-lungo, la Comunità ne uscirà legittimata non soltanto nella sua funzione economica.
Intanto, ciò che l'Europa può a giusto titolo chiedere agli Stati Uniti è che la loro attenzione per i problemi del resto del mondo non si estrinsechi in atti concreti e coerenti solo in occasione di crisi incombenti, come in effetti avvenne nell'estate del 1982. Anche agli Stati Uniti sono dati spazi per smussare, nella routine di ogni giorno, le implicazioni delle loro politiche per il resto del mondo. Questi spazi esistono nei vari settori, interni ed esterni, della politica di stabilizzazione. Quello che per primo balza alla mente è, naturalmente, la politica del tasso di cambio.
Se è vero che a medio termine i tassi di cambio tendono a rispecchiare le differenze nella performance dei vari Paesi per quanto riguarda' i fattori di fondo, è altrettanto vero che a breve termine essi possono, sotto l'influenza dei fattori più vari, avere andamenti erratici, capaci di accentuare oltre misura e, in alcuni casi, di rovesciare le tendenze coerenti con l'evoluzione delle variabili fondamentali. Obiettivo della politica di cambio dovrebbe essere quello di contenere, quanto più possibile, le spinte erratiche, in modo che i movimenti lungo la linea tendenziale, di apprezzamento o di deprezzamento, avvengano con un minimo di deviazioni - e di tensioni - sui mercati dei cambi. Ma una politica di non-intervento, come quella seguita dagli Stati Uniti negli ultimi anni, non sembra la più adatta a ridurre l'erraticità.
Ciò che sembra possibile e desiderabile, nelle condizioni attuali, è un'intesa che ci risparmi le variazioni erratiche dei cambi e impedisca che questi ultimi siano più instabili di quanto in effetti necessario.
La riduzione dell'instabilità e dell'incertezza, presenti nell'economia mondiale in misura anormalmente elevato dopo gli andamenti traumatici degli ultimi dieci anni, è essenziale per accrescere la propensione a investire e per alimentare una ripresa sostenuta dell'attività economica. Una ripresa sostenuta aiuterebbe ad evitare che, essendosi risolto l'incubo di una nuova "grande depressione", il quale ci ha afflitto nel primo scorcio degli anni Ottanta, le aspettative di lungo periodo si assestino ora su livelli di attività che comportino un'intollerabile sotto-occupazione della forza di lavoro e degli altri fattori produttivi.

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