§ Dibattiti

Lo Statuto che non crea occupazione




Paolo Sylos Labini



Nella graduatoria della disoccupazione fra le economie sviluppate oggi l'Italia è in alto, ma non è fra le prime: la media italiana si aggira sul 12 per cento. Un livello gravemente patologico si osserva nel Sud: 20 per cento; nel Nord il livello è di circa l'8 per cento, ossia è superiore, ma non molto superiore, a quello che oggi può essere considerato un livello di attrito. Il fatto è che negli ultimi quindici anni nel Sud la disoccupazione è cresciuta più che nel Centro-Nord, ma, contrariamente a quanto molti credono, anche l'occupazione è cresciuta di più: in media lo 0,7 per cento l'anno, contro lo 0,4 per cento. In buona misura, questo andamento va attribuito alla crescita dell'offerta di lavoro femminile; in parte, tuttavia, nel Sud va attribuito alla crescita demografica.
Non solo nel Sud, ma anche nel Centro-Nord, sia pure in minor misura, la quota di disoccupati rappresentata da giovani (16-26 anni) è alta e crescente. La disoccupazione giovanile e quella detta intellettuale in gran parte coincidono. Tuttavia, nell'aggregato non emerge un eccesso di disoccupati con laurea, così come non emerge un eccesso di disoccupati con un livello di istruzione molto basso: gli eccessi riguardano coloro che hanno una licenza di scuola media inferiore o un diploma di scuola media superiore.
Nel nostro Paese, le garanzie per chi già lavora sono state decisamente rafforzate dallo Statuto dei lavoratori, approvato con una legge del 1970.Sotto l'aspetto dello sviluppo civile si è trattato di un provvedimento degno di approvazione; oggi, tuttavia, è necessario rivederlo; ricordiamoci che la Spagna, dopo aver introdotto, nel 1980, un provvedimento simile al nostro Statuto, lo ha modificato significativamente quattro anni dopo.
Le garanzie fornite a chi lavora non solo hanno accentuato certe rigidità del mercato del lavoro, specialmente per quanto attiene alle assunzioni ed ai licenziamenti, ma hanno anche contribuito a determinare quel processo di decentramento delle attività produttive, satelliti delle grandi imprese, e la crescita molto rapida delle piccole e piccolissime imprese.
Le piccole imprese di rado diventano medie e grandi, giacché gli imprenditori si fermano prima della soglia critica, oltre la quale scattano i vincoli di cui si è detto, specialmente in materia di assunzioni e di licenziamenti. La questione è importante, poiché sembra certo che la nostra economia soffre per l'insufficiente sviluppo, in molti rami, di imprese medie, con conseguenze negative di vario genere, alcune delle quali riguardano il processo di diffusione delle tecnologie.
D'altra parte, l'intero sistema di garanzie ha indotto molte grandi imprese ad affidare diversi lavori in subappalto, contribuendo all'eccessiva proliferazione d'imprese molto piccole. Il fenomeno della crescita delle piccole imprese ha dunque aspetti contrastanti, positivi e negativi. Pare certo che la somma algebrica sia positiva, se non altro per il fatto che nell'ambito dell'industria sono le piccole imprese che hanno frenato la flessione dell'occupazione totale. In definitiva, il problema è di toglier di mezzo gli ostacoli che impediscono alle imprese piccola di crescere, se ci sono condizioni favorevoli.
Occorre notare che le garanzie a favore dei lavoratori giù occupati hanno accentuato le rigidità del mercato del lavoro proprio in un periodo in cui, per evitare un aumento della disoccupazione, si poneva la necessità di una crescente flessibilità delle unità produttive, non solo a causa del rallentamento del processo di sviluppo e dell'aumento dell'offerta di lavoro, ma anche a causa dei mutamenti che stanno subendo le strutture produttive dei Paesi avanzati. In effetti, le nuove tecnologie tendono ad aprire maggiori spazi alle economie di specializzazione e di differenziazione che alle economie di scala; e un'analoga tendenza è determinata dal cospicuo e persistente aumento del reddito individuale, che porta a una crescente differenziazione della domanda.

La strategia proposta da Keynes per combattere la disoccupazione era concettualmente abbastanza semplice. Nelle condizioni odierne, tale strategia non può che essere teoricamente e praticamente complessa. Non è questo il luogo per discutere un tale ordine di problemi. Mi limito a suggerire che nel nostro Paese occorre considerare in modo particolare cinque linee d'intervento: le prime due si inseriscono principalmente in una linea di sviluppo, le altre tre nel quadro di un accrescimento della flessibilità relativa al mercato del lavoro per far sì che, dato il saggio di sviluppo, possa aumentare in modo economicamente valido il saggio di crescita dell'occupazione. Le prime due linee d'intervento riguardano:
1) un'azione articolata volta a stimolare le spese per investimenti (tra i fattori che ostacolano la ripresa degli investimenti è, secondo l'autore, l'attuale elevatezza dei tassi d'interesse, spinti in alto anche dall'introduzione di tributi sul rendimento di titoli pubblici e depositi bancari), e a favorire le innovazioni capaci di creare nuovi posti di lavoro;
2) la creazione di "vivai" di imprese, con la collaborazione di grandi imprese, private e pubbliche.
Le altre tre linee d'intervento riguardano:
1) la revisione dello Statuto dei lavoratori;
2) la riforma del sistema degli oneri sociali, che vanno gradualmente e irreversibilmente fiscalizzati;
3) un deciso impulso per la diffusione dei lavori a tempo parziale.
La strategia per combattere la disoccupazione è molto complessa. E' una strategia che deve proporsi una serie di obiettivi particolari, fra cui c'è quello di frenare, meglio, di bloccare, l'espulsione dei lavoratori dalle grandi imprese e di accrescere l'occupazione nelle imprese medie e piccole sia nell'industria che nei servizi.


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