Nella graduatoria
della disoccupazione fra le economie sviluppate oggi l'Italia è
in alto, ma non è fra le prime: la media italiana si aggira
sul 12 per cento. Un livello gravemente patologico si osserva nel
Sud: 20 per cento; nel Nord il livello è di circa l'8 per cento,
ossia è superiore, ma non molto superiore, a quello che oggi
può essere considerato un livello di attrito. Il fatto è
che negli ultimi quindici anni nel Sud la disoccupazione è
cresciuta più che nel Centro-Nord, ma, contrariamente a quanto
molti credono, anche l'occupazione è cresciuta di più:
in media lo 0,7 per cento l'anno, contro lo 0,4 per cento. In buona
misura, questo andamento va attribuito alla crescita dell'offerta
di lavoro femminile; in parte, tuttavia, nel Sud va attribuito alla
crescita demografica.
Non solo nel Sud, ma anche nel Centro-Nord, sia pure in minor misura,
la quota di disoccupati rappresentata da giovani (16-26 anni) è
alta e crescente. La disoccupazione giovanile e quella detta intellettuale
in gran parte coincidono. Tuttavia, nell'aggregato non emerge un eccesso
di disoccupati con laurea, così come non emerge un eccesso
di disoccupati con un livello di istruzione molto basso: gli eccessi
riguardano coloro che hanno una licenza di scuola media inferiore
o un diploma di scuola media superiore.
Nel nostro Paese, le garanzie per chi già lavora sono state
decisamente rafforzate dallo Statuto dei lavoratori, approvato con
una legge del 1970.Sotto l'aspetto dello sviluppo civile si è
trattato di un provvedimento degno di approvazione; oggi, tuttavia,
è necessario rivederlo; ricordiamoci che la Spagna, dopo aver
introdotto, nel 1980, un provvedimento simile al nostro Statuto, lo
ha modificato significativamente quattro anni dopo.
Le garanzie fornite a chi lavora non solo hanno accentuato certe rigidità
del mercato del lavoro, specialmente per quanto attiene alle assunzioni
ed ai licenziamenti, ma hanno anche contribuito a determinare quel
processo di decentramento delle attività produttive, satelliti
delle grandi imprese, e la crescita molto rapida delle piccole e piccolissime
imprese.
Le piccole imprese di rado diventano medie e grandi, giacché
gli imprenditori si fermano prima della soglia critica, oltre la quale
scattano i vincoli di cui si è detto, specialmente in materia
di assunzioni e di licenziamenti. La questione è importante,
poiché sembra certo che la nostra economia soffre per l'insufficiente
sviluppo, in molti rami, di imprese medie, con conseguenze negative
di vario genere, alcune delle quali riguardano il processo di diffusione
delle tecnologie.
D'altra parte, l'intero sistema di garanzie ha indotto molte grandi
imprese ad affidare diversi lavori in subappalto, contribuendo all'eccessiva
proliferazione d'imprese molto piccole. Il fenomeno della crescita
delle piccole imprese ha dunque aspetti contrastanti, positivi e negativi.
Pare certo che la somma algebrica sia positiva, se non altro per il
fatto che nell'ambito dell'industria sono le piccole imprese che hanno
frenato la flessione dell'occupazione totale. In definitiva, il problema
è di toglier di mezzo gli ostacoli che impediscono alle imprese
piccola di crescere, se ci sono condizioni favorevoli.
Occorre notare che le garanzie a favore dei lavoratori giù
occupati hanno accentuato le rigidità del mercato del lavoro
proprio in un periodo in cui, per evitare un aumento della disoccupazione,
si poneva la necessità di una crescente flessibilità
delle unità produttive, non solo a causa del rallentamento
del processo di sviluppo e dell'aumento dell'offerta di lavoro, ma
anche a causa dei mutamenti che stanno subendo le strutture produttive
dei Paesi avanzati. In effetti, le nuove tecnologie tendono ad aprire
maggiori spazi alle economie di specializzazione e di differenziazione
che alle economie di scala; e un'analoga tendenza è determinata
dal cospicuo e persistente aumento del reddito individuale, che porta
a una crescente differenziazione della domanda.

La strategia proposta
da Keynes per combattere la disoccupazione era concettualmente abbastanza
semplice. Nelle condizioni odierne, tale strategia non può
che essere teoricamente e praticamente complessa. Non è questo
il luogo per discutere un tale ordine di problemi. Mi limito a suggerire
che nel nostro Paese occorre considerare in modo particolare cinque
linee d'intervento: le prime due si inseriscono principalmente in
una linea di sviluppo, le altre tre nel quadro di un accrescimento
della flessibilità relativa al mercato del lavoro per far sì
che, dato il saggio di sviluppo, possa aumentare in modo economicamente
valido il saggio di crescita dell'occupazione. Le prime due linee
d'intervento riguardano:
1) un'azione articolata volta a stimolare le spese per investimenti
(tra i fattori che ostacolano la ripresa degli investimenti è,
secondo l'autore, l'attuale elevatezza dei tassi d'interesse, spinti
in alto anche dall'introduzione di tributi sul rendimento di titoli
pubblici e depositi bancari), e a favorire le innovazioni capaci di
creare nuovi posti di lavoro;
2) la creazione di "vivai" di imprese, con la collaborazione
di grandi imprese, private e pubbliche.
Le altre tre linee d'intervento riguardano:
1) la revisione dello Statuto dei lavoratori;
2) la riforma del sistema degli oneri sociali, che vanno gradualmente
e irreversibilmente fiscalizzati;
3) un deciso impulso per la diffusione dei lavori a tempo parziale.
La strategia per combattere la disoccupazione è molto complessa.
E' una strategia che deve proporsi una serie di obiettivi particolari,
fra cui c'è quello di frenare, meglio, di bloccare, l'espulsione
dei lavoratori dalle grandi imprese e di accrescere l'occupazione
nelle imprese medie e piccole sia nell'industria che nei servizi.