§ Capitali liberi nel 1990

Paradisi fiscali d'Europa




M.C.M., A.F., F.A.



Dodici autorità e un solo mercato. Il paradosso dell'Europa anni Novanta è tutto racchiuso in questa difficile convivenza tra Stati sovrani, da una parte, e capitalismi senza frontiere dall'altra. Una convivenza che sperimenteremo tra meno di due anni, quando tutti i capitali saranno liberi di muoversi nella Cee, grazie a una direttiva già pronta sulla rampa di lancio di Bruxelles. Sarà la prova generale per il '92, anno in cui, oltre al denaro, anche le merci, i servizi e le persone potranno girovagare senza limitazioni sul continente comunitario. Ma sarà anche un evento storico in sé: agli investimenti finanziari di media e lunga durata, ancora facilmente controllabili dalle autorità monetarie, si aggiungeranno infatti rapidi e massicci trasferimenti di "denaro caldo" da impiegare a breve termine nei Paesi che offriranno le migliori condizioni.
Le tesorerie di banche e finanziarie moltiplicheranno i loro canali di intermediazione, mettendo a dura prova la vigilanza degli Istituti di emissione e la loro stessa capacità di controllo della liquidità interna. Capitali a caccia di conti correnti, di prestiti e di titoli a breve, finora imprigionati entro i confini nazionali di molti Paesi, tra cui il nostro, valicheranno le frontiere indisturbati, premendo sui Cambi dello Stato che se li lascerà scappare.
Il coro dei liberisti ad oltranza esulta già davanti al disegno di questa festosa giostra finanziaria. Poco importa se all'inizio i capitali seguiranno probabilmente tracciati a senso unico. Le distorsioni avranno vita breve: le leggi del mercato costringeranno prima o poi i Paesi meno "richiesti" ad adeguare le loro condizioni economiche e politiche a quelli più "gettonati". E alla fine, come in un sistema di vasi comunicanti, i livelli verranno parificati ovunque.
Detto così, sembra tutto semplice. In realtà, la distanza tra i Dodici in tema di politica economica è tale, che difficilmente si potrà evitare una lunga fase di instabilità valutaria e di distorsioni finanziarie. Una delle incognite più serie, al riguardo, è l'estrema diversità dei regimi tributari. Il modo in cui vengono tassati i redditi da capitali nei Paesi della Cee segue motivazioni e percorsi assai differenti. A liberalizzazione completata, questo fisco dai mille volti modificherà non poco la scacchiera monetaria e finanziaria europea. Un certo impatto, in realtà, viene già esercitato adesso, dopo che le frontiere comunitarie si sono aperte al libero scambio di azioni e di obbligazioni a medio e a lungo termine. Ma il giorno, non lontano, in cui anche i flussi monetari a breve romperanno le loro catene, quell'impatto assumerà proporzioni molto più vaste. Anche perché conti correnti, prestiti e titoli a breve faranno da volano a tutti gli altri investimenti, moltiplicandone le convenienze.
Immaginiamo allora di trovarci già alle soglie del nuovo decennio: due anni circa saranno infatti necessari per prepararci al grande evento. In che modo il fisco influenzerà le scelte di un cittadino italiano, attento alle opportunità offerte all'estero, e quelle di uno straniero sensibile alle chances che avrà investendo i propri risparmi in Italia?
All'italiano che si rivolge all'estero, la legge consentirà di depositare i propri risparmi in qualsiasi banca straniera, e non solo europeo. Investendo, infatti, in un Paese della Cee già aperto al resto del mondo, egli potrà poi trasferire i suoi soldi in altri continenti. In Italia, gli interessi offerti da depositi e conti correnti sono tassati con ritenuta. E all'estero? Apparentemente, non sembra molto conveniente attraversare la frontiera. Sulla carta è previsto lo stesso trattamento riservato a chi resta in casa: ritenuta più fisco del Paese ospitante.
Ma in realtà - ecco la prima grande sorpresa - la ritenuta dovuta allo Stato italiano è in parte teorica: la caduta delle frontiere valutarie renderà assolutamente impraticabile la tassazione del 30%. Finora, infatti, nei rari casi in cui si potevano tenere conti in valuta, le operazioni venivano comunque effettuate attraverso banche agenti italiane, che si incaricavano non solo di pagare gli interessi ma anche di trattenerci sopra il 30%. Nel '90 le cose cambieranno radicalmente. Si potrà fare a meno della banca agente depositando i risparmi e facendosi accreditare i relativi interessi direttamente all'estero. E non ci sarà più nessuno a trattenere un'imposta per conto dello Stato italiano. Per i risparmiatori privati, di conseguenza, il conto con il fisco nostrano sarà chiuso in partenza. Per le società, invece, resterà l'obbligo di inserire gli interessi percepiti nella dichiarazione dei redditi. Ma come farà lo Stato italiano a sincerarsi che lo facciano? L'unico modo è che la banca straniera informi l'amministrazione finanziaria del proprio Paese e che quest'ultima trasmetta l'informazione al nostro fisco. Ma un'eventualità del genere è piuttosto remota e, comunque, impossibile lì dove vige ancora il segreto bancario.
Esclusa dunque la possibilità di pagare il fisco italiano, rimangono gli obblighi verso lo Stato straniero nel quale si vuole investire il proprio denaro. Qui entrano in gioco le convenzioni bilaterali che l'Italia ha firmato con numerosi Paesi, europei e non. In base ad esse, Germania e Olanda assumono le sembianze di autentici paradisi fiscali. Chi aprirà un conto corrente in questi due Paesi sarà assoggettato esclusivamente ai regimi tributari in essi vigenti, i quali non impongono alcuna ritenuta alla fonte. D'altra parte, sarà difficile, e anzi impossibile, per il fisco tedesco e olandese, accertare che i cittadini italiani facciano la dichiarazione in quei Paesi: qui, come del resto quasi ovunque in Europa e nel mondo, le banche che versano gli interessi non sono tenute a informare il fisco. Dunque, niente tasse.


Il rischio, a questo punto, è che molti di noi spostino i propri risparmi a Francoforte o ad Amsterdam semplicemente per evitare di pagare in Italia la ritenuta sugli interessi, definitiva o a titolo di acconto. Un rischio tanto più serio, in quanto alle convenienze fiscali si accompagnano proprio in Germania e Olanda forti aspettative di rivalutazione del cambio nello Sme. Si comprendono bene a 'questo punto le preoccupazioni delle autorità monetarie italiane e il tentativo del nostro governo di allontanare nel tempo, quanto più possibile, l'abbattimento definitivo delle barriere valutarie. Certo, a parziale salvaguardia dei nostri conti correnti ci sono ancora rendimenti nominali ragguardevoli: caso raro, e forse unico in Occidente. In termini reali, tuttavia, questi tassi si sono pressoché azzerati, e, per quel che riguarda i depositi, in Germania si possono strappare anche due punti percentuali al netto dell'inflazione.
Il discorso sulle convenienze fiscali cambia un poco, ma non molto, quando si volge lo sguardo agli altri Paesi. Ai depositanti italiani si applicano qui ritenute alla fonte comprese per lo più tra il 10 e il 15%: sempre meglio che pagare il 30%. L'aliquota più favorevole (10 per cento) la troviamo in Lussemburgo, Grecia e Irlanda. Seguono la Spagna e la Svizzera, con il 10 e il 12,5%. Infine, è la volta di un nutrito gruppo di Paesi che applica il 15%: Francia, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca, Portogallo e Stati Uniti. Tra questi, tuttavia, Francia, Danimarca e Usa potrebbero riservare spiacevoli sorprese perché qui le banche sono tenute a segnalare al fisco i nominativi degli investitori.
Una volta spostati all'estero, conti correnti e depositi forniscono ai titolari una sicura e stabile testa di ponte per l'acquisto di titoli stranieri a breve e a lunga scadenza. Con la liberalizzazione dei movimenti a breve, e la caduta del monopolio dei cambi, sarà possibile, come per i depositi, acquistare obbligazioni straniere senza passare attraverso le banche agenti italiane, eludendo così le ritenute sia sugli interessi del titolo sia quelle sui depositi.
In realtà, già oggi la tassazione può essere evitata comprando sull'euromercato titoli emessi da organismi internazionali. Ma se invece si vuole investire direttamente in altri Paesi, allora le ragioni della convenienza suggeriranno anche qui di concentrare i propri sforzi in Germania e in Olanda.
Tuttavia, nel campo delle obbligazioni, così come in quello dei titoli di Stato, le scelte sono più complesse di quelle che riguardano i movimenti dei capitali a breve termine. Più complesse, perché il regime fiscale italiano, così rigido verso gli interessi pagati su depositi e conti correnti, è invece di manica più larga nei confronti degli altri tipi di investimento, prevedendo in particolare per titoli di Stato e obbligazioni una ritenuta del 12,5%, secca per le persone fisiche, a titolo d'acconto per quelle giuridiche. Si tratta di un'aliquota piuttosto bassa e non tale comunque da giustificare forti deflussi di capitali verso l'estero. Il 12,5% è infatti in linea con le ritenute alla fonte applicate quasi ovunque all'estero ai cittadini italiani che acquistano titoli stranieri. Giocano allora un ruolo decisivo i tassi d'interesse, che in Italia sono particolarmente elevati, soprattutto sui Bot
Dalle obbligazioni alle azioni: il discorso diventa qui via via più favorevole agli investimenti ancorati al suolo natio. Com'è noto, plusvalenze e dividendi godono nel nostro Paese di un dividendo particolarmente vantaggioso: niente tasse sui capital gains percepiti dai privati; credito d'imposta integrale sugli utili distribuiti (i quali quindi si considerano già tassati con l'Irpeg sulle società). Difficilmente si può trovare un Paese industrializzato fiscalmente più competitivo del nostro su questo terreno. Chi investirà in azioni tedesche o olandesi non sarà tassato in Italia, ma subirà in Germania e in Olanda una ritenuta sui dividendi del 25%.
Le azioni acquistate invece negli altri Paesi scontano aliquote per lo più attestate sul 15%, e danno diritto a redditi che devono, o dovrebbero, essere dichiarati in Italia. Infine, nella quasi totalità dei casi, con le uniche eccezioni di Francia e Gran Bretagna, i titoli azionari sottoscritti all'estero non danno diritto al credito d'imposta.


Fin qui, le soluzioni più o meno convenienti per chi si accinge ad oltrepassare le frontiere col suo portafoglio di risparmi. Ma che cosa sarà del flusso inverso? Chi avrà interesse a investire in Italia? E dove gli converrà impiegarlo? la prima constatazione da fare è che già oggi tutte le banche straniere sono esonerate da qualsiasi ritenuto su conti correnti e depositi, a patto che non operino attraverso filiali in Italia. E i privati? Tedeschi e olandesi (anche qui accomunati dallo stesso destino tributario), non troverebbero probabilmente molta convenienza a depositare da noi i loro soldi: in quanto assoggettati al regime fiscale del Paese debitore, essi pagherebbero infatti allo Stato italiano il 30% secco, quando bel loro Paese non versano alcuna ritenuta, e non di rado riescono poi ad evadere in sede di dichiarazione. Per gli altri stranieri, il carico fiscale imposto dal nostro Paese è invece sensibilmente più contenuto (tra il 10 e il 15% per quasi tutti, e addirittura nullo per gli inglesi), inferiore comunque alle ritenute d'acconto subite nei rispettivi Paesi. Per essi, dunque, l'avventura italiana può offrire molte buone occasioni, rese ancora più appetibili dai cospicui interessi garantiti.
E l'avventura, a questo punto, sarà ancora più proficua se indirizzata verso gli altri tipi di investimento: soprattutto titoli di Stato (esenti se emessi all'estero) e azioni. Proficua per tutti, ma un po' meno per tedeschi e olandesi, che nel loro Paese anche in questi casi non subiscono alcuna ritenuta, e spesso non dichiarano neppure. Quanto essi siano sinceramente affezionati ai loro regimi tributari e quanto sia inefficace nei loro Paesi il semplice obbligo della dichiarazione dei redditi, lo dimostra del resto la recente levata di scudi dell'opinione pubblica tedesca contro il progetto governativo di introdurre sui titoli di Stato, a partire dall'89, una ritenuta d'acconto del 10%.
Nel trarre le conclusioni di tutto questo discorso, resta dunque, come elemento di seria preoccupazione, la marcia a senso unico dei capitali a breve, e forse anche di quelli a più lungo termine, che si verificherà probabilmente ai confini tra Italia e Germania. Come si è visto, infatti, difficilmente il flusso in uscita verrà controbilanciato dai capitali tedeschi in entrata. A Via Nazionale temono che alla lunga questo prevedibile squilibrio monetario contribuirà a tenere sotto pressione la nostra moneta.
Questo e molti altri casi di distorsioni si profilano fin d'ora all'orizzonte del mercato finanziario unico del 1990. Il solo modo di eliminarli, o per lo meno di attenuarli, è una politica comunitaria intesa ad avvicinare gradualmente, ma in modo deciso, tutti i regimi tributari nazionali verso un unico sistema di aliquote. Una politica che le autorità della Cee non sono state finora in grado di realizzare, neppure in minima parte.
La prospettiva ravvicinata del 1990 potrebbe adesso risvegliare la Comunità dal suo torpore propositivo. E in realtà, i giuristi e gli economisti della Commissione di Bruxelles sono al lavoro per rilanciare il dibattito con una serie di progetti. Uno di essi riguarda la tassazione degli interessi. E si parla, in proposito, di due soluzioni.

La prima è quella di una ritenuta alla fonte piuttosto contenuta, pari cioè al 10%, e valida per tutti i Paesi della Cee. La ritenuta verrebbe prelevata nel Paese in cui si è investito, per poi essere detratta (in sede di dichiarazione dei redditi) nel Paese dell'investitore. C'è tuttavia un'obiezione tutt'altro che infondata: poiché in tutti i Paesi, tranne forse che in Francia e in Danimarca, le banche non sono tenute a comunicare al fisco informazioni sugli investitori esteri, è assai probabile che questi ultimi si asterranno, senza eccessivi patemi d'animo, dal dichiarare gli interessi percepiti. E allora quel 10% a titolo d'acconto diventerà di fatto definitivo, con evidenti conseguenze negative per le entrate di bilancio e per l'equità del prelievo.
Una strada alternativa potrebbe essere trovata nell'applicazione di una ritenuta molto più elevata, vicina alle aliquote massime delle imposte personali e societarie. Sarebbe l'investitore stesso a decidere se pagarla a titolo definitivo o come anticipo sulla propria dichiarazione dei redditi. In Italia ciò significherebbe un innalzamento generale di tutte le ritenute che gravano sui redditi da capitali, a cominciare dagli interessi dei titoli di Stato. Anche in questa soluzione, tuttavia, c'è un rischio: quello di una fuga di capitali fuori dai Paesi della Cee. Rischio che però potremmo mitigare stipulando accordi di collaborazione fiscale con i Paesi extra-europei, oppure tassando i movimenti di capitali tra l'Europa e il resto del mondo.
Un'altra proposta di direttiva, infine, suggerisce, sul terreno delle imposte indirette, l'esenzione totale delle transazioni dei titoli, che da noi sono colpite con la tassa sui contratti di Borsa.Ma in Italia questa tassa, invece di essere attenuata, è stata progressivamente aumentata negli ultimi anni.
Insomma, se dovessero passare i progetti comunitari, il nostro Paese sarebbe costretto a rivoluzionare il trattamento fiscale fin qui riservato a interessi e dividendi, in parte mitigando, ma più spesso inasprendo le relative aliquote.


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