§ Pubblico & privato in economia

Le gestioni produttive




Gennaro Pistolese



Una nuova cultura della gestione produttiva pubblica si viene facendo strada. Il fenomeno, come si sa, non riguarda soltanto l'Occidente industrializzato, ma anche - almeno intenzionalmente e sia pure con progetti ancora velleitari e da rendere compatibili con i presupposti indispensabili - i Paesi europei dell'Est e la Cina.
In sostanza, si riconosce che l'intervento pubblico nelle gestioni per essere sostenibile deve rispondere ai normali princìpi della produttività e del rispetto dell'equilibrato rapporto fra costi e ricavi, che in ogni sistema deve osservare e conseguire fini di piena competitività, che il potere politico non deve muoversi in una sfera extra-economica, che il finalismo dell'intervento pubblico nell'economia ha strumenti più validi di quelli della gestione diretta, nella politica fiscale ed in quella creditizia, nonché in una reale programmazione regolatrice dello sviluppo.
Queste nuove impostazioni derivano dalle esperienze fin qui dovunque compiute, dall'abbandono di ideologie che hanno fatto il loro tempo con conseguenze negative che oggi si cerca di correggere e superare, dalla consapevolezza che il mito di uno Stato che a tutto provveda (dalla culla alla bara) ha ormai un significato perverso, imponendo un pronto rientro nella normalità e comunque profonde revisioni, come è il caso delle riforme sanitarie, previdenziali che sono in Italia sul tappeto, o quello delle privatizzazioni e della ricerca da parte delle imprese pubbliche di intese con quelle private.
La portata mondiale di questa nuova realtà trova conferma, oltre che in Europa, come si è detto, anche negli Stati Uniti, nel Canada, nel Giappone. In particolare, per quanto riguarda le privatizzazioni in Europa, gli importi degli smobilizzi in miliardi di lire trovano la Gran Bretagna al primo posto (25.000), la Francia al secondo posto (11.000), l'Italia al terzo posto (6.400), la Repubblica Federale Tedesca al quarto posto (680). La nostra posizione non è certo in relazione con la dimensione che le nostre imprese pubbliche hanno nel sistema produttivo e quindi con i margini di privatizzazione che ne derivano, considerati, da una parte, il gravame finanziario pubblico e, dall'altra, i reali benefici sociali che ne derivano o possono derivarne.

Pilastri dell'intervento pubblico
Nel nostro Paese, l'intervento pubblico nelle gestioni produttive è realizzato principalmente attraverso le partecipazioni statali, formula questa con la quale lo Stato, mediante il possesso di pacchetti azionari più o meno rilevanti, esercita il controllo di società gestite con criteri che in linea di principio dovrebbero essere privati, ma che di fatto sono disattesi in questo loro contenuto istituzionale in conseguenza di un esercizio del potere pubblico che tende ad essere esorbitante (ma di ciò parleremo più oltre). Il compito che, ne discende per lo più è affidato ad un apposito ente pubblico. Tipici esempi al riguardo sono, come è noto, l'IRI, l'ENI, l'ENEL, ecc.
In particolare, l'IRI fu istituito, come è noto, dopo la fine della Grande Guerra, con lo scopo transitorio di provvedere al salvataggio di quelle banche che avevano appesantito il loro portafoglio di azioni di industrie in decozione, a causa prevalentemente di motivi bellici o connessi a fattori congiunturali estremamente pesanti. L'IRI intervenne a rilevare le banche dalla grave situazione nella quale si trovavano, e perciò, possedendo le azioni delle aziende dissestate, ne intraprese la gestione, liquidandone alcune. L'IRI agisce, come si sa, tramite le società guida, quali Finmeccanica, Finsider, Fincantieri, STET, ecc. Esso controlla altresì le tre Banche di interesse nazionale, ed è sottoposto al controllo del Ministero delle Partecipazioni Statali e si esplica in un contesto che meglio approfondiremo più oltre, non mancando tuttavia dal rilevare fin da ora la pesante situazione di bilancio, i gravami che ne derivano per la finanza pubblica, una sua accentuazione sociale che per essere reale non può essere diversa da quella praticato dall'impresa privata. E ciò perché la vera socialità poggia le sue basi sull'economicità ed un "Welfare state" che non sia efficiente, come l'economicità consente e l'antieconomicità esclude, non è "Welfare state".
L'ENI a sua volta ha funzioni analoghe a quelle dell'IRI limitatamente al settore degli idrocarburi ed è nato proprio con questa funzione, che poi si è dilatata ed estesa ad altri campi, a cominciare da quello chimico, nel quale è parte di quel polo che è stato creato con la Montedison.
Quanto, infine, all'ENEL, esso è stato creato nel 1962, in seguito alla nazionalizzazione delle imprese operanti nel settore elettrico (circa 1100), con il compito di provvedere alla produzione ed alla distribuzione dell'energia elettrica. Le motivazioni di questa nazionalizzazione sono state più che altro di natura politica, al limite anche ideologica, ed hanno avuto un significato di rottura in un contesto nel quale certamente altre forme di intervento, come successivamente è stato riconosciuto, avrebbero potuto essere attuate, con risultati probabilmente più positivi.

Cosa dice la dottrina
Quella parte della dottrina, che ancora si ispira ad un culto delle imprese pubbliche, mette in evidenza i seguenti elementi principali:
- la constatazione che l'aspetto più importante dell'attività finanziaria svolta mediante la gestione di imprese pubbliche non sta nel fatto che tali imprese hanno talora un avanzo di esercizio che va a far parte delle entrate correnti del bilancio degli enti pubblici, accanto alle entrate tributarie (ma l'esperienza insegna che questa è soltanto un'ipotesi, verificandosi il più delle volte esattamente il caso opposto);
di gran lunga più importante è il significato dei diversi criteri di gestione delle imprese pubbliche rispetto a quelli che sarebbero seguiti nel loro esercizio da parte di imprenditori privati. Scrive in particolare Sergio Steve nel "Dizionario di economia politica" che "in sostanza, mediante l'esercizio pubblico si seguono politiche di produzione e dei prezzi diverse da quelle che sarebbero seguite dai privati e quindi si altera la qualità di risorse che sono impiegate nella produzione ed i criteri con i quali i risultati della produzione vengono ripartiti fra la collettività". Sta di fatto che questa è solo un'astrazione teorica, a fronte di una realtà che non fa beneficiare di questa caratterizzazione, il cittadino in genere, e lo stesso lavoratore dipendente in particolare;
- la circostanza principale richiesta per giustificare l'esercizio di un'impresa pubblica si è avuta tradizionalmente quando l'impresa privata si fosse trovata in una situazione di monopolio. Sennonché oggi in questa materia si è aperto il grosso varco delle norme antimonopolistiche, con i corollari e gli sviluppi che hanno ed avranno a che fare con il varo delle discipline relative in connessione con quelle europee, con il ripudio di vie inutilmente restrittive, con un rigoroso esercizio della sorveglianza.
Questa nel nostro modello dovrà essere esplicato da un'apposita commissione, per la quale si richiedono funzioni non autorizzatorie (onde evitare nuovi lacci e lacciuoli in un sistema produttivo che ha bisogno di deregulation per rendere veramente validi i controlli ed i limiti che contano) bensì istruttorie nei casi di denuncia di trasgressione. Di qui la necessità della piena indipendenza dal potere pubblico, sia nelle nomine dei membri della commissione stessa, sia nello svolgimento delle funzioni previste. In un ambito così delineato, ed in un'ottica europeistica del nostro sistema economico (in vista del 1992) è chiaro che lo spazio delle gestioni produttive pubbliche è destinato a contrarsi;
un'ampia esperienza di tentativi di controllo porterebbe alla conclusione che il controllo stesso può essere insufficiente a tutelare i consumatori (o a garantire l'attuazione di altri fini pubblici) come pure può diminuire pericolosamente l'interesse dell'impresa privata agli investimenti o alle economie di esercizio e così via. Scrive Steve nel citato suo saggio: "Nella maggior parte dei casi la scelta è quindi fra l'esercizio pubblico e la libertà (o un controllo scarsamente soddisfacente) dell'esercizio privato". Ma a questo riguardo si ha l'impressione di essere di fronte ad una scelta pregiudiziale, più che sperimentato; ad un fideismo in uno strumento ed in una terapia preconcetta; ad una sfiducia nelle capacità di controllo dello Stato, nello stesso tempo in cui è illimitata la fiducia nello svolgimento dei maggiori compiti che allo Stato stesso si vorrebbero attribuire. Cioè c'è uno Stato che dovrebbe saper produrre meglio, ma non c'è uno Stato che sappia realmente sovraintendere;
- altri casi di intervento, sempre nell'ottica e nello spirito delle dottrine in pro delle opzioni pubbliche, si aprirebbero tutte le volte che si scoprono nuovi esempi di divari fra il calcolo economico collettivo ed il calcolo economico privato.
Due casi specifici, secondo lo Steve, sarebbero:
- la diversa valutazione del costo del lavoro;
- la valutazione della redditività di nuove imprese in ambienti economici depressi.
Riguardo al primo caso, la norma, come si sa, è quella dell'identità della valutazione, come conferma una prassi sindacale consolidata, con l'identità della posizione imprenditoriale, quale ne sia la qualificazione privato o pubblica. Vi sono per contro le eccezioni, che non concernono la misura salariale, bensì la permanenza nel posto di lavoro anche in casi di eccedenza rispetto alla manodopera economicamente utilizzabile. C'è in questi casi un costo per lo Stato, che esso può essere sempre in grado di sostenere indipendentemente dall'esercizio o meno di una gestione diretta.
Il secondo caso investe il fatto che in regioni arretrate, le nuove iniziative economiche, contribuendo al miglioramento delle condizioni ambientali recano vantaggi alle imprese esistenti ed a quelle che potranno sorgere ampliando i mercati e riducendo i costi. Tali vantaggi non presentano però alcun rendimento per le imprese che ne dovessero assumere l'iniziativa, o per lo meno ne possono provocare uno a lungo periodo.
Di qui secondo Steve, il ricorso a diverse direttive d'azione, e cioè attribuzione alle imprese private, mediante premi, ecc. parte dei vantaggi che esse creano per la collettività:
- unificazione dei risultati di diverse imprese in modo che i vantaggi che ognuna di esse crea per le altre imprese del gruppo si ritrovino nel bilancio unitario;
- ricorso all'esercizio da parte di enti pubblici, che possono valutare adeguatamente i vantaggi indiretti. Al riguardo è da tenere presente che non sempre gli interventi degli enti pubblici danno risultati soddisfacenti - lo si ammette - per cui sarà preferibile il ricorso all'impresa pubblica.
Sennonché uno Stato moderno per assolvere degnamente il proprio compito deve preoccuparsi nella generalità del sistema economico - zone avanzate e zone depresse - di creare e garantire un contesto economico valido ed efficiente, con quelle modulazioni di strumenti e di misure richieste dagli specifici ambienti, e che vanno ben oltre la sfera delle imprese pubbliche. Probante da questo punto di vista, la vecchia e nuova esperienza interessante il Mezzogiorno.
Abbiamo detto fin qui della depressione in atto o possibile in talune aree ed in taluni settori produttivi, ma è da considerare l'altra non meno grave che si riassume nell'inefficienza dei vari servizi pubblici ed in generale della macchina statale e di quella degli enti locali. Entrano in questa orbita le condizioni operative ed i riflessi che ne derivano per l'utenza delle poste, delle ferrovie, della sanità, della scuola, ecc.: altrettanti campi nei quali la chiave di volta dovrebbe essere costituita, secondo quanti rilevano e denunciano a questa sostanziale ed organica insufficienza, dalla rivalutazione imprenditoriale e dal maggiore spazio da riservare al privato.
Da una recente ricerca demoscopica sulla qualità dei servizi e sulle possibili soluzioni per un loro miglioramento, risulta che gli interrogati si sono dichiarati per due opzioni irrinunciabili, e cioè per la costrizione delle aziende pubbliche ed avere bilanci in pareggio e, in difetto, per il loro affidamento ai privati.
Il primo fine potrà essere conseguito in maniera reale eliminando sprechi, vuoti di produttività, ecc. e non giù prevalentemente con gli aumenti delle tariffe, che, anche quando sono stati praticati frequentemente, non hanno dato luogo al promesso miglioramento dei servizi. E' quanto si è verificato nelle poste, per le quali gli incrementi tariffari hanno condotto ad un loro allineamento al livello europeo, senza che ne sia derivato un corrispondente miglioramento del servizio, rinviato ad altre ipotesi e ad altri sbocchi, aziendali, non ancora definiti, ma che fra l'altro dovrebbero anche allargare lo spazio aperto al fattore privato.
Su di un piano generale, la tendenza che si afferma a questo riguardo, per colmare le voragini della spesa pubblica e dell'indebitamento, è quella di affidare alle autonomie istituzionali servizi fin qui gestiti dallo Stato. Ma ciò sottintende, come viene osservato da più parti, un aumento dei corrispettivi che si dovrebbero pagare per questi, senza che lo Stato diminuisca le imposte dirette ed indirette a fronte di minori spese, con conseguente aumento della pressione fiscale. Di qui la necessità di ricercare l'efficienza nell'ambito delle prestazioni dovute al cittadino, senza pretendere corrispettivi in più, ma dando quanto si è tenuto a dare, nelle forme migliori, e non è dato.
La filosofia e le strategie di base in questa materia sono quelle di una generale efficienza non solo di questo o di quel servizio, ma anche dell'intero apparato pubblico ed a questo devono tendere gli sforzi di razionalizzazione di uno Stato che voglia essere moderno ed allineato con quello degli altri Paesi della Comunità cui il nostro Paese appartiene. Il che è essenziale per l'esercizio delle funzioni irrinunciabili dello Stato e comporta lo smobilizzo di tutte quelle sovrastrutture che si sono venute indebitamente creando e che oggi non hanno più ragione di esistere.

La prospettiva IRI
Quando si parla di questa problematico l'occhio in questa fase è puntato con particolare' rigore sulla situazione e sulla prospettiva IRI. In questa struttura si riconosce uno dei maggiori impegni produttivi diretti dello Stato, fra l'altro rilevati dalla gravosità dei fondi di dotazione: ne sono richiesti, come è noto, per 11.500 miliardi in tre anni.
Gli obiettivi sono ambiziosi: un fatturato di oltre 73 mila miliardi, (banche a parte), nel 1991; un programma di investimenti industriali per 54.300 miliardi; un'occupazione lievemente ridotta; una persistente attenzione per il Mezzogiorno; una lievitazione dei ricavi, con la riscoperta degli utili anche nelle attività industriali. Telecomunicazioni ed autostrade dovrebbero costituire i settori di maggiori investimenti nel prossimo quadriennio, con l'attuazione di una strategia che si vuoi qualificare con caratteri imprenditoriali rigorosi.
Non vi sono, come si vede, motivazioni particolari di natura sociale, né loro implicazioni specifiche sulle opzioni interessanti la siderurgia e la cantieristica, o trasferimenti mediante la cessione a terzi di determinate aziende.
Rientrano in questa strategia i progetti relativi al polo ferroviario della Finmeccanica, la ricerca di un partner estero sia per l'Ansaldo sia per l'Italtel, la superStet, il rilancio della SME, la politica di alleanze ed acquisizioni dell'Alitalia, i programmi dell'Italstat per le autostrade, ecc.
L'ambizione dell'attuale managerialità è quella di trasformare l'IRI in una risorsa per il Paese, ma oggi come oggi, accanto ai programmi, vi sono da una parte i condizionamenti politici, dall'altra le cifre. E fra queste, indicative quelle relative al 1987, secondo le quali ad un fatturato di oltre 56 mila miliardi si affianca un utile estremamente modesto pur se lo si giudica nella comparazione con le precedenti cifre in rosso, e non certo allineato con una normale gestione privatistica.
Va sottolineato, comunque, che molteplici sono le condizioni del raggiungimento di questo finalismo, e cioè il contesto politico, di cui diremo oppresso; concessione da parte dello Stato di un fondo di dotazione nella misura più sopra indicata, dei mezzi necessari per le occorrenze che potrebbero costare allo Stato altri 3 mila miliardi per la commessa di Bandar Abbas e per la fornitura di navi all'Iraq, per la realizzazione del progetto Cisi della Spi e degli investimenti di reindustrializzazione.
Ci sono poi le attese dell'IRI in merito agli apporti degli azionisti privati che pur non essendo molto rilevanti nelle previsioni - si tratta comunque di ben 1.300 miliardi - sono condizionati dal grado di fiducia che il promesso nuovo corso dell'IRI saprà suscitare.
Perciò a livello di management IRI si afferma che si dovrà operare in condizioni di rigorosa economicità nel valutare le iniziative da intraprendere, specie nei settori innovativi caratterizzati da complessità tecnologiche. E si aggiunge (dichiarazioni del direttore generale dell'IRI, Zurzolo) che "non si può chiedere all'IRI di investire ovunque e comunque per rispondere a tutti i problemi di natura industriale ed occupazionale del Paese se non si vuole rapidamente, e senza aver risolto alcun problema, io caduta verticale, cioè l'avvitamento verso la situazione di squilibrio degli anni '70, quando nei bilanci i mezzi propri dell'Istituto figuravano per l'8,1% e l'indebitamento per il 91,9%".
Non diverse sono le valutazioni che provengono da un'altra parte dello scacchiere produttivo pubblico, e cioè da parte dell'ENI. Secondo il suo Presidente, le partecipazioni statali devono cambiare indirizzo e soprattutto eliminare le protezioni a quei settori che sopravvivono solo grazie alla condizione di grandi committenti di opere pubbliche. In particolare, egli aggiunge che, di fronte all'imperativo del mercato unico, i problemi più gravi non riguardano l'industria privata che si è aggiornata, e che ha raggiunto un elevato grado di efficienza grazie anche agli investimenti tecnologici effettuati negli anni passati, quanto invece il settore dei servizi, il più arretrato ed il meno produttivo, con riguardo anche a comparti rilevanti anche nel settore pubblico, si può aggiungere.

Il condizionamento del lavoro
Abbiamo fin qui parlato di alcuni condizionamenti in atto o da mettere comunque nel conto. Ce n'è un altro ed è fondamentale, riguardando il lavoro. Con quali scelte di fondo? Eccole, per quanto concerne le relazioni sindacali, avendo a base le direttrici indicate dall'Intersind:
- Prevalenza della contrattazione aziendale, perché è nell'azienda che si misura esattamente lo stato di salute dell'impresa ed è quindi in quell'ambito che è possibile capire con maggiore precisione quanto possano lievitare i solari.
- Modifica della cadenza delle trattative per la parte salariale e per quella normativa, la quale ultima potrebbe avvenire ogni 4 o 5 anni. Il salario, al contrario, andrebbe contrattato molto più spesso, per esempio ogni due anni. La trattativa al riguardo dovrebbe essere aziendale, il che però non comporta il trasferimento radicale della materia in quella sede, ma solo la prevalenza della negoziazione in essa di una quantità di salario maggiore che in passato.
- L'obiettivo è quello di negoziare quanto c'è da negoziare, individuando in quali situazioni aziendali esistono margini di produttività reale, tali da consentire una effettiva crescita salariale. Il che è colato in una strategia pronta ad informare sempre di più i Sindacati sulla reale situazione delle aziende. E' questa la filosofia dei protocolli firmati dall'IRI e dall'EFIM con le confederazioni dei lavoratori.
C'è in sostanza il fine di stabilire una peculiarità di rapporti nella specifica sfera delle relazioni impresa pubblica-lavoratori, ma c'è da tenere conto dell'ispirazione unitaria fra pubblico e privato anche a questi fini derivante dalla competitività, che è condizione della economicità delle gestioni perseguito dalle aziende pubbliche, o per lo meno da esse promessa.

Le strade degli investimenti nel Sud
Un altro aspetto da considerare - ne abbiamo accennato anche in precedenza - è l'impegno per il Sud delle tre strutture pubbliche dominanti, IRI, ENI, EFIM, e cioè la rispondenza o meno ad una delle condizioni motivazionali dell'intervento pubblico, di cui prima si è detto. Ed ecco cosa ci dicono le cifre, che costituiscono dichiarazioni di intenti, in un quadro nel quale dovrà essere ancora determinato il disegno complessivo.
Nel libro delle promesse delle Partecipazioni statali interessanti il Sud, vi sono 21 mila miliardi di investimenti ordinari in quattro anni, a quanto ammontano i programmi formulati dall'IRI, dall'ENI e dall'EFIM, sempre con lo scompenso ricorrente nel sistema pubblico fra intendimenti, realizzazioni effettive, entità dei residui.
Comunque, ecco le cifre preventivate e da approvare nelle sedi competenti:
IRI: investimenti ordinari per un totale di 13.218 miliardi entro il 1991. Si tratto di cifre che oscillano intorno ai 3 mila miliardi all'anno, con una punta maggiore (3.607 miliardi nell'anno prossimo) e per un ammontare pari al 28,3% degli investimenti complessivi del gruppo nell'intero Paese. Vi sono poi da considerare gli interventi straordinari aggiuntivi, di cui alla legge 64, e rientranti nel terzo piano di attuazione del Programma triennale per il Sud. Gli interventi previsti sono diretti al potenziamento delle grandi presenze manifatturiere, ad un impegno nei settori tecnologicamente avanzati, allo sviluppo della dotazione infrastrutturale meridionale, soprattutto delle grandi aree urbane. Preponderante sarà l'impegno della STET e dell'ITALSTAT. Telecomunicazioni per la prima ed infrastrutture e costruzioni per la seconda.
ENI: puntualizzazione degli impegni nella chimica e nell'energia: il tutto per 7.943 miliardi, di cui 1.363 quest'anno e 5.580 nel 1990.
EFIM: impegni per 982.8 miliardi, di cui 237.2 l'anno scorso, 384.6 nel 1989, 270.5 nel 1990 e 90.5 nel 1991. Alluminio, vetro, ecc. costituiranno i settori di impegno.
Quanto agli effetti che ne deriveranno per l'occupazione, eccezione fatta per quest'ultimo, che incrementerà complessivamente i propri organici meridionali di 686 addetti, i posti di lavoro creati al Sud dai nuovi investimenti dell'IRI e dell'ENI non basteranno a compensare del tutto la contrazione dell'occupazione che anche nelle regioni meridionali i due maggiori enti a partecipazione statale mettono in preventivo per i prossimi 4 anni: entro il 1991 l'IRI perderà infatti nel Sud fra i 2.600 ed i 4.200 addetti e l'ENI fra i 550 ed i 2.300 addetti, a secondo che si conteggi o meno anche il personale facente capo a società che verranno alienate. Sono cifre queste che ridimensionano l'apporto pubblico all'assorbimento delle energie di lavoro disponibili ed esorbitanti nel Sud rispetto al Centro-Nord, e che invece accentuano le attese e le possibilità derivanti dalle imprese private. Ciò naturalmente in propizie condizioni, da meglio organizzare ed incentivare con riguardo alle piccole e medie imprese.

L'urgenza di un adattamento del sistema pubblico
Affiora da tutto questo complesso di notazioni l'urgenza di un diverso adattamento dell'intero sistema delle partecipazioni statali, la cui urgenza è intesa anche sul piano politico, pur con motivazioni diverse e con colorazioni
spesso solo rispondenti a visuali partitiche, dure a morire, come si sa. Ne sono investiti molti aspetti, che vanno da quelli di carattere istituzionale a quelli puramente economici, dalla valutazione dell'utile dell'interesse generale e dell'effettiva operatività di fattori peculiari del pubblico e non egualmente ed economicamente perseguibili con l'intervento dell'iniziativa privata.
In concreto i punti base sono così riassumibili:
- ritorno all'economicità intrinseco della gestione in tutte le aziende delle Partecipazioni Statali;
- impegno che i fini pubblici da perseguire siano reali, essenziali, concretamente definiti e motivati;
- la privatizzazione delle aziende che non svolgono attività essenziali rispetto ci fini pubblici;
- la determinazione di un quadro istituzionale di competenze e responsabilità che eviti deviazioni dalle regole economiche e superi le ingerenze indebite o le strumentalizzazioni di parte.
Tutta questa materia è attualmente oggetto di vertici, di confronti, di audizioni in sede parlamentare, di convegni, ecc.
La posizione intanto espressa a questo riguardo dal ministero delle Partecipazioni Statali si estrinseca nel l'affermazione che la stragrande maggioranza delle decisioni sul tappeto è di competenza del ministro per legge e normativa, che la collegialità è in otto e viene concretizzato all'interno del CIPI come previsto dalla legge vigente, che il CIPI stesso non è un organismo consultivo ma deliberante, per cui ogni altra procedura deve evitare ogni più o meno mascherato ripartizione di aree di potere, che le richieste degli enti pubblici per i loro fondi di dotazione da una parte non siano eludibili (perché in grandissima parte indirizzate ad impegni di investimento e non a spese correnti) e dall'altra comportino un elevato, costante e preciso grado di verifica. Ed al riguardo non si possono sottacere le riserve da formulare sia rispetto a questa pretesa ineludibilità (il cui rispetto invece comporta sperequazioni e squilibri nei riguardi dell'attività extrapubblica) sia rispetto al rigore dei controlli e dei limiti da parte dei vari soggetti e delle varie sfere decisionali ed operative.
Ma quali sono le posizioni che si registrano al riguardo?
Cominciamo dalle forze economico-sociali. Per la Confindustria, fondamentali sono l'attuazione dell'indirizzo, pur dichiarato da qualche parte politica ed anche abbozzato da qualche timido accenno governativo, di trasferimento al settore privato di attività e servizi finora direttamente gestiti dallo Stato; il riconoscimento che il vecchio sistema sul quale è noto e si è retto l'edificio dell'impresa pubblica è superato; l'altrettanto concreto riconoscimento che le imprese pubbliche non possono più giovarsi dei vantaggi e dei privilegi normativi di cui attualmente godono; che i loro managers devono avere maggiore autonomia operativa; che le imprese pubbliche devono inserirsi, anche mediante cessioni, joint venture ed altri accordi con i privati, sul mercato interno e su quello internazionale, con una più elevata capacità concorrenziale; che la pubblica amministrazione deve essere liberato da attività soprattutto di servizio che possono essere gestite con più efficienza dai privati; che, oltre il caso Enimont, altre operazioni di riorganizzazione che coinvolgano imprese pubbliche e private sono necessarie.
Di opposto orientamento sono le categorie sindacali, che si pronunciano da una parte per il rinvigorimento del sistema e, dall'altra, per la denuncia degli indirizzi fin qui seguiti. Si contestano fra l'altro le scelte compiute per il Mezzogiorno (con un decentramento definito acefalo, caratterizzato dal mantenimento al Nord della direzione, della commercializzazione, della ricerca, ecc.), per il piano triennale per il quale occorrono chiarezza nei propositi e nelle strategie e la risoluzione dei problemi di lungo periodo nel modo di operare di queste aziende (assicurando autonomia decisionale e progettuale, nonché radicamento nei territori di competenza, per una strategia a carattere più assistenziale che non diretta alla creazione ed al consolidamento di un vero e proprio volano di sviluppo).
Come si vede, si tratto ancora di parziali abbozzi, che comportano completamenti e maggiori concretizzazioni, e che comunque si manifestano per un deciso cambiamento.
E veniamo ai partiti, con riferimento a quelli della maggioranza governativa. Per la DC, si tratto di recuperare il ruolo e la politica del sistema industriale pubblico, nella determinazione di una nuova funzionalità e dei rispettivi ruoli di iniziativa e di responsabilità, fondando il tutto sulla retto applicazione della normativa in atto.
Per il PSI, non mancano le contestazioni di ordine politico, rivolte soprattutto al partito di maggioranza relativa, accusato di prepotere ed egemonizzazione, mentre le proposte sono articolate settorialmente, con l'affermazione di via libera al polo ferroviario (acquisizione della Fiat ferroviaria) ed a quello energetico (acquisizione delle turbine a gas della Fiat e successivo accordo con Asea Brown Boveri), immaginati dall'IRI-Finmeccanica ed a condizione che l'EFIM venga rafforzato (con previsioni alternative per quest'ultimo, che concernono la cessione ad esso da parte dell'IRI dell'Aeritalia o della SME (che dovrebbe restare pubblica, salvo immaginare successive joint venture con i privati) o della Selenia o eventualmente della Finmare. L'ENI dovrebbe cedere all'EFIM la Samin. Altre notazioni - fatte dal vice presidente del Consiglio, socialista, De Michelis - sono che non c'è nessuna ragione al mondo per cui l'industria pubblica debbo mantenere una presenza nel settore alimentare; che bisogna evitare operazioni che assomiglino ad affiliazioni dell'intero mercato di un comporto ad un operatore straniero; che il problema numero uno dell'IRI è oggi l'ItalStat con una impostazione che non consente la sua preparazione all'apertura dei mercati. E così via: con denunce da una parte, ma con proposte correttive non a sufficienza determinate, almeno nelle proporzioni ricordate, rispondenti varie di esse ad immediate esigenze polemiche.
E veniamo ai repubblicani, più circostanziati nell'affermazione dei princìpi di base di economicità delle scelte da effettuare, in una sequenza di affermazioni che sono riecheggiate in vari dei punti prima esposti. Chiarimenti più o meno sulla stessa linea sono richiesti dai liberali, i quali li sollecitano nella convinzione che le imprese pubbliche restino per mesi e mesi al paio. Per quanto riguarda infine i socialdemocratici, le loro posizioni si dichiarano per l'assunzione da parte dei tre enti di gestione (IRI, ENI, EFIM) del finanziamento da soli e con denari delle attività Tesoro degli investimenti previsti, tanto più che hanno ormai superato la fase di crisi strutturale e per il riconoscimento che una via per ottenere le risorse necessarie è quella della vendita di attività non strategiche o di quote azionarie di aziende industriali, bancarie, finanziarie.
Come si vede, situazioni settoriali ed anche contingenti - e sono molte - si alternano a considerazioni di principio, che culminano in quelle della managerialità degli indirizzi e delle strategie e della privatizzazione di quelle branche che non riflettano attività che non possano essere più utilmente esercitate dalle imprese private.
E' questo il succo della nuova cultura delle partecipazioni statali, con gli sforzi da compiere nella più puntuale determinazione delle sfere di competenza che riguardano il Parlamento nella fissazione degli indirizzi e nell'esercizio del controllo conclusivo, il Governo nell'iniziativa da assumere nel promuovimento dei primi e del secondo, il management nell'autonomia operativa.
Nel modo di essere di tutte queste funzioni sta tutta l'evoluzione concettuale e di attuazione inerente alle partecipazioni statali, all'intervento pubblico nelle gestioni produttive, che, superati certi miti e certe ideologie quasi ovunque accantonate e rese flebili, ombra di se stesse, ricordano di essere tutt'altra cosa di quelle dei decenni trascorsi.
C'è voluta l'esperienza di questi anni, è stato necessario il travaglio politico che l'ha accompagnata, c'è la nuova configurazione del mondo economico e politico, ci sono i richiami, prima trascurati, derivanti dal confronto fra costi e benefici, c'è la puntualizzazione degli impegni pubblici nei campi che veramente contano e che possono essere utilmente esperiti che stanno provocando questa dialettica in movimento. Ma per noi ci sono ancora motivazioni più stringenti, quali quelle provocate dallo stato della finanza pubblica, che in questo revisionismo concettuale ed attuativo comporta fra l'altro la necessità di non disgiungere con organico coordinamento le scelte da compiere dalle decisioni riguardanti i conferimenti, al fondo di dotazione degli enti.


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