Le rotte del sole




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



"Chi ci diede la spugna per cancellare l'intero orizzonte? Che facemmo sciogliendo la Terra dal suo Sole? Dove va, esso, ora? Dove andiamo noi, lontani da ogni Sole? Non continuiamo a precipitare e indietro e dai loti e in avanti? C'è ancora un alto e un basso? Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla forse lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte, e sempre più notte? Così parla Nietzsche nel momento in cui si oscura il Sole, la grande metafora dell'Occidente, la Terra destinata dal suo stesso nome a ospitare il tramonto di quella luce che aveva accecato lo schiavo appena uscito dalla caverna, dove era solito riminar le ombre, scambiandole per cose vere.
Platone lo accompagna fuori dall'antro dove l'umanità mediterranea si era trattenuta per secoli nel culto della Grande Madre, dove i temi erano quelli dell'utero, della generazione, della nutrizione, della Terra, e dove gli occhi si levavano al cielo solo per pronosticare gli effetti sulla fertilità della Terra. Ma Platone avverte: "Noi non siamo come le piante, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine dell'anima e dove Dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l'intero nostro corpo, che perciò è eretto".
Un corpo eretto è un corpo aperto alla visione, all'orizzonte, al progetto, allo sguardo, alla luce del Sole che tutte queste cose rende possibili inaugurando quella forma di civiltà che possiamo chiamare civiltà della luce, dove si adora Dio che ha la stessa radice di Dies: il giorno.
Liberatosi dai ceppi che, lo trattenevano nel fondo della caverna dove si stagliavano le ombre delle cose che erano fuori dalla caverna, lo schiavo è abbagliato dalla luce del Sole che acceca il suo sguardo e rende la sua visione indistinta e imprecisa; poi, educandosi alla luce, vede le cose come effettivamente sono e con esse, recita il testo platonico, "il Sole che produce le stagioni e il corso degli anni a tutto presiede in questo regno dell'essere ed è causo di tutti quei fenomeni che il prigioniero vede". Ma le cose illuminate dal Sole non sono ancora per Platone le cose vere, ma la copia della loro essenza, o idea, che dimora sopra il cielo (yper-Uranio) nella purezza incontaminata della luce solare.
Idea è una parola costruita, sulla radice id, che rintracciamo nel verbo vedere. Gli abitanti della civiltà della luce hanno idee perché sono ospitati dalla visione che la luce solare concede. Ma i secoli passano e gli uomini che si sono incamminati lungo il sentiero del tramonto abbandonano il cielo e la sua luce per abitare la propria mente le cui idee, meno ferme delle stelle, sono illuminate da un Sole più impallidito che Cartesio chiamerà cogito. Per Nietzsche è ancora "l'antico Sole", ma visibile attraverso la nebbia e l'ascepsi per cui le idee diventano sublimi, pallide, nordiche, königsburghesi.
Nasce la scienza, ma la sua luce non redime; la verità, non più illuminata dal sole greco, diventa esattezza, prodotto del metodo, vaglio critico, luce artificiale; la natura, che in Grecia ama nascondersi, cede i suoi nascondigli, e gli uomini, incamminati verso il tramonto, hanno l'idea di un nuovo giorno che libera dall'oscurità delle antiche persuasioni. "Grigio mattino -scrive Nietzsche - primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo". Abolito il mondo vero, che mondo resta? Quello apparente? "Ma no, affatto - scrive Nietzsche -col Mondo vero abbiamo abolito anche quello apparente! Mezzogiorno, istante dell'ombra più corta".
Che significa per l'uomo avviato sul sentiero del tramonto, per l'Occidente, dove le ombre sono lunghe, ritrovarsi improvvisamente a Mezzogiorno, dove il Sole gioca la sua perpendicolarità e abolisce le ombre? Significa perdere qualsiasi riferimento, non avere più intorno a sé paesaggio, profili, dimensioni, orizzonte, ma luce non contrastata, quindi abbaglio, solarità accecante, simile a quella dello schiavo platonico che, appena uscito dalla caverna, vede meno di quel che prima vedeva e mal distingue le cose troppo soleggiate. Senza ombra, la luce del Sole non staglia le cose, non disegna le loro dimensioni, non contrasta, e il nostro occhio si fa buio in piena luce.
Una volta sapevamo di essere occidentali perché c'era un Oriente, sapevamo di essere sulla Terra perché c'era un cielo che non potevamo abitare, sapevamo di essere nell'al di qua perché c'era un al di là, distinguevamo il giorno dalla notte perché c'erano un bene e un male, un maschile e un femminile, un naturale e un artificiale, la luce del Sole e la sua ombra. Ma ora che la luce cade a perpendicolo, l'orizzonte cede, e insieme con lui il confine e il limite. Non sono perdite da poco, si sa. Confine e limite servivano per orientarci, e orientarsi serviva per abitare. L'eccesso di solarità ha abolito tutto questo e la luce della ragione si è propagata ovunque. Ovunque i perché-domanda si vanno cancellando nei poiché-risposta, mentre si addomesticano le potenze dell'insensatezza perché nella nostra anima non ci sia più tenebra.
Eppure sappiamo che dove il Sole offre i suoi raggi a perpendicolo la terra si fa deserto. Il deserto è una spiaggia senza mare, e la visione, per mancanza di profili, gioca quasi sempre con l'illusione.
Nelle sue Lezioni americane Calvino introduce il tema dell'esattezza, richiamando la precisione degli astronomi dell'antichità nell'osservazione dei fenomeni celesti. "La precisione per gli antichi Egizi era simboleggiata da una piuma che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime. Quella piuma leggero aveva nome Maat, dea della bilancia".
Nello studio dei movimenti degli astri, gli antichi Egizi dispiegarono le prime conoscenze matematiche. Per l'osservazione sistematica del moto apparente del Sole essi si servivano di una primitiva meridiana, un'asta di lunghezza nota - lo gnomone - posta verticalmente su una superficie piana. Ad ogni istante del giorno la posizione del Sole, l'estremità dello gnomone e quella della sua ombra sono allineate: misurando la lunghezza e la direzione dell'ombra era dunque possibile determinare la posizione del Sole e tradurre in valori numerici i rilevamenti empirici sulla variazione della posizione del Sole in cielo durante il giorno e nel corso dell'anno.
Su questa base, nell'antichità si incominciò a misurare il tempo, a stabilire la durata del giorno solare apparente, a costruire il calendario.
Agli astronomi egizi e babilonesi risale la suddivisione del giorno in ventiquattro ore, dell'ora in minuti e secondi, così come l'osservazione che la lunghezza dell'ombra dello gnomone a mezzogiorno nel corso dell'anno varia col variare delle stagioni: nel solstizio d'inverno è massima, ed è minima nel solstizio d'estate. Dopo il solstizio invernale i punti in cui il Sole sorge e tramonta si spostano lentamente lungo l'orizzonte verso Nord fino al punto di equinozio di primavera, quando la notte dura quanto il giorno. Inversamente accade per l'equinozio autunnale. Questo movimento del Sole lungo l'orizzonte corrisponde al ciclo delle stagioni e presso gli antichi il Sole era la divinità che governava il trascorrere delle stagioni e i cicli fondamentali dell'esistenza. Un culto che si ritrova non solo nelle civiltà del Mediterraneo, ma anche presso gli Indiani e i Maya, e più lontano ancora nel tempo, presso le popolazioni preistoriche, che hanno lasciato testimonianza di sé nelle imponenti pietre di Stonehenge, disposte in cerchio in modo tale che dal centro si poteva vedere il sorgere del Sole, nel solstizio invernale, esattamente dietro la Heel Stone.
Come già scoprirono gli antichi, i punti equinoziali si spostano lungo l'eclittica in direzione opposta a quella seguita dal Sole nel suo cammino annuale. Un fenomeno che Ipparco, nel II secolo d.C., chiamò "processione degli equinozi" e che si compie in un ciclo di 26 mila anni. "Il sistema copernicano - ha scritto lo storico della scienza De Santillana - ha spogliato la processione della sua solenne grandiosità, facendone una questione puramente terrestre, il barcollare del corso individuale di un pianeta qualsiasi", la Terra. Ma certo un tempo tale fenomeno poté essere visto come il comportamento "misteriosamente preordinato" della sfera celeste e poté alimentare miti di natura cosmica e religiosa. Un fenomeno che secondo un ecclesiastico dell'Ottocento, Domenico Testa, forniva un argomento inoppugnabile per stabilire che la creazione era avvenuta nel 4000 a.C. Altrimenti, come avrebbe potuto sfuggire un fenomeno che "si sarebbe renduto manifesto e sicuro, non che agli astronomi, ma fin'anche cigli uscieri e agli scopatori delle specole, e de' i tempii egiziani?".
Il complesso meccanismo dei fenomeni celesti ispirò il misticismo numerico dei matematici pitagorici, che si ritrova nelle pagine del Timeo, dove Platone associa ai pianeti allora conosciuti i cinque solidi regolari. Il "sistema del mondo" elaborato dagli antichi trovò espressione nelle sfere di Eudosso e Aristotele, nel sistema eliocentrico di Aristarco di Samo e nell'Almagesto di Tolomeo, il testo che servi da riferimento per gli astronomi fino a Copernico, nel quale il moto del Sole e dei pianeti era descritto ricorrendo a un complesso sistema di cerchi, di epicicli e di equanti per dar conto delle irregolarità osservate nei movimenti degli astri. Ma proprio la consapevolezza che "i matematici non hanno idee chiare intorno a questi moti" spinse Copernico ad abbandonare teorie consolidate da secoli e ad abbracciare l'idea "nuova e assurda" del moto della Terra. E la sua opera annunciava di far vedere "il velo dell'assurdo squarciato da chiarissime dimostrazioni".
Nell'immensa schiera degli oppositori della teoria copernicana ci fu anche Tycho Brahe, un astronomo abilissimo che raccolse una messe enorme di dati osservativi, ordinandoli secondo un proprio sistema, con la Terra ferma al centro dell'universo e il Sole ruotante attorno ad essa, ma con i pianeti ruotanti su orbite circolari attorno al Sole. Un compromesso che fu superato proprio dall'allievo di Brahe, Keplero, il quale nell'Astronomia Nova mise le basi della moderno teoria, sostituendo i cerchi di Copernico con ellissi, con il Sole in un fuoco, e stabilendo le leggi delle aree e dei periodi di rotazione.
Per catturare il Sole, o meglio la sua ombra preziosa che si sposta sempre con una certa regolarità, niente di meglio delle meridiane che ancora capita di vedere dipinte o scolpite sul muro di qualche edificio pubblico.
Antichissimo strumento di misurazione del tempo, indica l'ora del giorno, ma anche il mese, il periodo dell'anno o altro ancora. Famosissime erano le meridiane arabe, costruite secondo gli insegnamenti degli scrittori greci, con l'aggiunta delle ore equinoziali. Semplici e divise spesso in solo quattro zone, secondo l'antica suddivisione anglosassone del giorno, quelle delle chiese medioevali britanniche. In Italia, la più antica sembra sia stata quella costruita nell'XI secolo per il Battistero di San Giovanni, a Firenze, da Strozzo Strozzi.
Una grande meridiana disegnata addirittura sulle quattro pareti di un cortile orna le case degli Atellani, celebrato dimora milanese nel "Borgo delle Grazie", acquistata da Ludovico il Moro, che vi ospitò anche Leonardo.
Passata di moda nei tempi moderni la loro importanza pratica, le meridiane vennero costruite per diletto e per abbellimento di ville, palazzi, chiese e giardini. Così anche in Lombardia. Per adeguare il Lombardo-Veneto alla nuova organizzazione sociale e alla sempre maggiore diffusione degli orologi meccanici, il primo dicembre 1786 fu abolito dal conte Wilzeck, presidente del governo e ministro plenipotenziario, il sistema delle ore all'uso italico (le ventiquattro ore si contavano dall'Ave Maria della sera, mezz'ora dopo il tramonto, secondo regole fisse, contenute nel Breviario dei sacerdoti). Cambiamento che venne preceduto tuttavia dalla costruzione della meridiana del Duomo, che divenne così l'orologio ufficiale di Milano. Quando i raggi del Sole illuminavano attraverso il foro ricavato nel tetto la linea meridiana posta sul pavimento, il Sole è nel mezzo del cielo. In quei tempi, un segnale scambiato tra valletti posti in punti strategici arrivava fino al Castello Sforzesco, dove un colpo di cannone faceva sapere ai milanesi che era mezzogiorno, ossia la dodicesima ora all'uso europeo o francese.
Lasciata la provinciale che da Varese porta alla Valganna e girato a sinistra verso la frazione di Sant'Ambrogio, dopo aver attraversato il piccolo borgo di Olona, si volta a destra e ci si trova piacevolmente immersi in un'atmosfera d'altri tempi: nei pressi delle sorgenti del fiume Olona, dove le acque sono ancora incredibilmente limpide, esiste un complesso di mulini, una volta numerosissimi lungo il fiume, e già documentati nel 1200, ancora ben conservati e circondati dal verde: i Mulini Grassi di Sant'Ambrogio.
"Mulini da grano ad acqua con porzione di cara", furono costruiti in epoche diverse: dal XVI al XIX secolo. Costituivano un complesso molto importante per l'economia locale, possedendo nel 1881 addirittura sette ruote per la macina. Rimasti in funzione fino al 1966, vennero in seguito abbandonati finché furono acquistati dagli eredi antichi proprietari Ponti. Costoro restaurarono le strutture esistenti, le pale delle ruote e i meccanismi di macinazione, oltre a un affresco popolare con la rappresentazione sacra del "Riposo nella fuga in Egitto", alcune gustose decorazioni che fanno riferimento all'attività molitoria, e soprattutto tre preziose meridione. Su queste ultime, probabilmente realizzate all'inizio del Settecento, con eleganti e leggere decorazioni e con la tipica iscrizione "Breve il sol a noi viventi", furono aggiunti i nuovi sistemi della misurazione delle ore. Legate oltre che a una volontà di abbellimento decorativo e a una precisa esigenza pratica, stabilivano i periodi di funzionamento dei mulini.
Numerosissime anche le meridiane nelle aree meridionali dell'Italia. Praticamente, non c'è regione del Sud che non conti meridiane realizzate in diverse epoche, molto spesso da astronomi, matematici o studiosi di varia umanità locali. Non esiste un catalogo di questi sistemi di misurazione del tempo, neanche nel Mezzogiorno. Ovunque, tuttavia, tranne casi di esecrabili distruzioni, sono state restaurate, anche se solo i superstiti contadini, quelli non macinati dalla tecnologia produttiva, riescono a leggerle senza difficoltà.
Quando il re Gilgames decise nel poema intitolato Gilgames e la Foresta dei Cedri di intraprendere insieme con l'amico Enkidu il periglioso viaggio verso le foreste del Libano con l'intento di uccidere il mostro Hubaba, rivolse la sua accorata preghiera al dio Sole, perché gli concedesse la sua benevola protezione affinché potesse tornare sano e salvo nella sua Uruk.
In un altro mito, il dio re Dumuzi, sposo della dea Inanna, condannato dalla cattiva sorte agli Inferi e per questo inseguito in ogni dove dai demoni che lo volevano catturare per trascinarlo in un luogo buio, rivolse disperato un appello al dio Sole, perché gli consentisse di sfuggire ai suoi inseguitori.
Questi sono due dei numerosissimi esempi della letteratura mesopotamica in cui il dio Sole, chiamato in sumerico Utu e in assiro-babilonese Samas, svolge un ruolo non indifferente nella vita quotidiana. Infatti, pur non appartenendo alla triade suprema del Pantheon babilonese, il dio Sole è una divinità molto importante della religiosità sia sumerica sia assiro-babilonese.Figlio del dio Luna e del fratello di Inanna, la dea dell'amore, il dio Sole è per i mesopotamici il dio della giustizia, il dio dell'equità, appunto perché nulla può sfuggire al suo sguardo vigile e onnipresente. A lui infatti non si rivolgono soltanto i re come Gilgames o gli stessi dei come Dumuzi, ma anche i semplici cittadini del mondo mesopotamico, ogni qualvolta essi sono angustiati da qualche problema o si sentono frustrati in qualche loro diritto. E così, quando il re Hammurapi di Babilonia vuole mettere per iscritto il famoso codice di Leggi che lo avrebbe reso immortale nei secoli a venire, e fa incidere il testo delle leggi su una stele conservata oggi al Museo del Louvre, si fa raffigurare nell'atto di ricevere le istruzioni dallo stesso Samas, assiso su un trono.
Il Codice delle Leggi di Hammurapi diventa in tal modo più che una emanazione del diritto del sovrano, l'espressione del volere del dio Sole, il vero garante della giustizia nel Paese. I 282 paragrafi di leggi in cui si affrontano il diritto patrimoniale, quello familiare e quello penale, vanno letti e interpretati alla luce del Prologo e dell'Epilogo, in cui il re si qualifica come "re della giustizia", appunto perché rappresenta in terra il dio Sole, il re per eccellenza della giustizia e dell'equità.
Questi due concetti così complementari trovano la loro applicazione più concreta nel motivo ricorrente della letteratura babilonese di "garantire la vedova, gli orfani e i deboli", incombenza questa che tutti i sovrani di Sumer e di Babilonia si vantano di aver atteso con sollecitudine. E Hammurapi, dopo che ha sottolineato nel Prologo con dovizia di particolari come egli abbia assolto al compito di proteggere con le sue leggi "i deboli", conclude il Codice di leggi con l'affermazione: "Se qualcuno si sente oppresso e leso nei suoi diritti, venga davanti alla mia stele e legga quanto io ho stabilito per lui e si sentirà consolato".
Si potrà obiettare che le pene previste per i trasgressori sono molto dure: non è un caso che prevalga, infatti, la legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente). Ma anche tale durezza va vista in un'ottica diversa dalla nostra, perché l'equità per i Babilonesi consisteva in una condizione di parità che andava mantenuta a tutti i costi.
E l'occhio vigile di Samas, il dio Sole, il garante di tale equità, l'autore ultimo del Codice di Hammurapi, non si fa sfuggire nulla: esso è continuamente all'erta per benedire i buoni, per punire i colpevoli e per aiutare chi è in difficoltà.
I Babilonesi erano talmente convinti di questi aspetti qualificanti la figura del dio Sole, che ce ne hanno tramandato una meravigliosa sintesi nell'Inno al Dio Sole, in cui, appunto, Samas viene presentato come il dio della giustizia. Dapprima egli è descritto nella sua natura di essenza di luce e splendore che, diffondendosi nell'universo, tutto ravviva. Raggiungendo con la sua luce ogni regione, Samas ne è il naturale controllore e sorvegliante, funzione, che tutti gli esseri gli riconoscono. A questo punto, l'autore estende l'analisi alle qualità umanitarie del Sole, mostrandolo soccorritore benefico di varie categorie di individui che si trovano per varie contingenze di vita a percorrere le vie del mondo. Il vertice, come sviluppo di motivi e come altezza di concezioni, si ha nella parte che riguarda l'etica sociale. Qui il Sole non compare solo come vindice della giustizia distributiva e remunerativa, ma come promotore di una più alta e disinteressata bontà che va incontro alla necessità del prossimo, mettendo il proprio interesse materiale in secondo linea, per preferire l'approvazione morale della divinità.
Ecco un brano che concerne l'amministrazione della giustizia: "Al giudice iniquo fai vedere le catene/ a chi accetta regali e non è giusto, fai portare la pena./ Chi non accetta denaro e protegge il debole/ piace a Samas, prolunga la vita".
I popoli mesopotamici sentono il dramma sociale dei deboli e tentano di risolverlo ricorrendo al patrocinio di Samas, il dio Sole garante della giustizia e, per questo, una divinità centrale del Pantheon sumerico e assiro-babilonese.
La religione dell'antico Egitto conobbe due grandi sintesi teologiche: quella solare di Re, che emanava dalla città santa di On (Heliopolis), e quella funeraria di Osiride, con centro nel santuario di Abydos. La sintesi solare presentava caratteri ufficiali sofisticati ed elitari, accessibili soltanto alla ristretta cerchia culturale del Palazzo e del Tempio; quella osiriaca, popolare e semplice, presentava marcati risvolti individuali in fatto di culto.
Di questo dualismo rimane traccia negli antichissimi Testi delle Piramidi, con allusioni a un conflitto che forse non fu solo religioso e che, probabilmente, non ebbe vincitori né vinti, visto che da quei testi traspare una stentata situazione di compromesso.
Il capolavoro politico del collegio sacerdotale di On fu quello di legare teologicamente al dio Re il destino di eternità dei faraoni, in una tenace alleanza tra la religione solare e l'istituzione monarchica; non si trattò, peraltro, di imporre la supremazia del dio sulle altre divinità, ma piuttosto di definire i contorni dell'espressione dogmatica dio-faraone incentrata nella figura di Re che era una realtà visibile nel cielo e veniva spesso rappresentato iconograficamente appunto con le insegne regali.
La crescente importanza del dio comportò un diffuso fenomeno di assimilazione e molte divinità si accostarono alla sintesi solare, premettendo o aggiungendo al proprio nome quello di Re in sincretismi, a volte stentati, che avevano lo scopo di esaltare quegli dei che in tal modo riuscivano a partecipare della natura dell'astro che governava i destini dell'universo. Malgrado l'abilità del clero heliopolitano, peraltro, il successo politico di Re non fu immediato; solo verso la metà del III millennio a.C., infatti, Chephren, della IV dinastia, aggiunse al protocollo reale il titolo "Figlio di Re", al quale corrispondeva il nome di famiglia che il sovrano aveva ricevuto all'atto della nascita, per esprimere l'idea che, pur essendo figlio di suo padre, il faraone era anche figlio del dio solare. Questa proposizione sanciva il fatto che nella dottrina della regalità la purezza del sangue solare, che derivava da Re, costituiva l'essenza della legittimità al trono. I sovrani della V dinastia intesero sottolineare maggiormente la propria diretta discendenza da Re non solo adottando un suffisso teoforo nel nome di intronizzazione, ma erigendo dei templi solari di tipo inconsueto, caratterizzati dall'assenza di copertura e di statue divine, perché Re stesso risplendeva in cielo nella sua visibile presenza e immanenza. La parte più importante di questi templi era un tozzo obelisco ispirato, come le piramidi, al benben di Heliopolis che rievocava il tumulo primordiale dal quale il Sole fanciullo si era lanciato all'assalto del cielo, illuminando il mondo e ponendo ordine nell'universo.
Eppure Re, l'unico dio, insieme con Osiride, che non conobbe declino nel corso della lunga storia dell'Egitto, ha origini difficilmente definibili, confuse nelle credenze nebulose della preistoria e della protostoria: era tra gli dei che regnarono sull'Egitto prima delle dinastie terrestri e quando apparve nella sua sembianza teologica definitiva aveva già posta in ombra il dio supremo della religione heliopolitano, Atum; e riuscì a conservare le sue prerogative anche di fronte all'altra importante divinità solare, Horus l'Antico, dalla testa di falco, che il clero di Heliopolis aveva definito nella sintesi Re-Harahti (Re-Horus-dei-Due-Orizzonti), collegato al viaggio diurno dell'astro che sorge all'orizzonte orientale e tramonta all'orizzonte occidentale.
In tutti i culti solari si pone il problema delle ore durante le quali l'astro non è visibile. Per la sua stessa presenza nel cielo, infatti, il Sole può essere visto da tutti, ma scompare durante la notte. Gli Egiziani dividevano convenzionalmente il ritmo quotidiano dell'esistenza in dodici ore diurne e dodici ore notturne. Per dare continuità alla presenza del dio solare venne quindi elaborato un tortuoso itinerario notturno, che molte allusioni collegano a leggende remote e a miti purtroppo scomparsi. Re attraversava il cielo diurno sulla barca Mendjet con la quale entrava nella bocca della dea del cielo Nut, dal corpo variegato di stelle, per uscirne, ringiovanito e rinvigorito, il mattino seguente, dalla vagina della dea. Nel corso del viaggio notturno la barca di Re doveva affrontare e superare gli ostacoli frapposti dal serpente Appi, nemico dell'ordine cosmico, sempre vinto ma sempre rinfrancato nella sua essenza indistruttibile di elemento fisso dell'equilibrio universale.
Questo viaggio notturno di Re, irto di pericoli e di dubbi, rievoca indirettamente l'arcaico conflitto religioso con Osiride, che si era concluso con un malfermo compromesso. Nelle liturgie funerarie, Re, patrono del destino regale oltretomba, aveva dovuto cedere alle credenze dell'al di là popolare di impronta nettamente osiriaca. Che verso la metà del Il millennio a.C. si sia giunti a una codificazione teologica della controversia, facendo di Re e di Osiride due aspetti di una sola grande anima divina, non più avversari ma complementari, è prova dell'accomodamento raggiunto fra una concezione aristocratica e una concezione democratica dell'al di là.
Quando, verso la fine della XVIII dinastia, il giovane faraone Akhenaton intraprese una travagliata riforma religiosa dagli spiccati caratteri monoteistici, fu inizialmente costretto ad appoggiarsi al clero heliopolitano e ad assimilare in qualche modo il suo dio Aton a Re; e anche nei risvolti funerari e liturgici, e nella struttura degli edifici sacri, l'ingombrante presenza di Re si faceva sentire, né era pensabile di eliminarla, perché nell'antico Egitto non era concepibile l'espressione di un dogma solare non associato a Re, che era la divinità solare per eccellenza, quella il cui nascere all'alba veniva salutato dalle grida assordanti di babuini, che garantiva l'ordine cosmico e il mondo organizzato nel cielo, così come il faraone suo figlio garantiva sulla terra il rispetto della figlia prediletta di Re, Maat, personificazione della giustizia, dell'armonia, dell'equilibrio.
Re non riuscì mai a sottrarsi da una situazione che ne faceva una divinità piuttosto astratta ed elitaria, eppure sottolineata in modo stridente dal divario tra la complessità di una raffinata teologia e la carnale quotidianità dei miti e delle leggende che lo riguardavano.
Uno degli ultimi e più alti documenti del paganesimo ormai sul punto di scomparire è una lode al Sole: il discorso a Helios Re scritto da Giuliano l'imperatore, il sovrano che tentò inutilmente di far rivivere gli antichi dei di fronte al cristianesimo trionfante. Sol Invictus, di cui Helios è il nome greco, era stato proclamato da Aureliano divinità somma dell'impero: e la teologia solare dominava tutte le ultime manifestazioni religiose del paganesimo.
Del resto, il dies natalis del Sole invitto - il 25 dicembre, solstizio d'inverno - diventerà il Natale cristiano e circa vent'anni dopo la morte di Giuliano, Ambrogio celebrò, in uno dei suoi più celebri Inni, Christus come verus sol. Nulla in epoca antica avrebbe però fatto presagire nel mondo greco-romano i futuri fasti del dio Sole. Non vi è infatti alcuna presenza del dio Sol nella religione arcaica romana, e anche la splendida carriera del greco Helios, che precede quella di Sol, comincia in epoca ellenistica, sotto l'influenza della teologia stoica che identifica Helios col principio vivificatore dell'universo, e in concomitanza con l'affermarsi delle monarchie ellenistiche che trovano nella religiosità solare un supporto e un fondamento per la sovranità terrena del monarca. In epoca arcaica e classica Helios aveva invece una posizione marginale nella mitologia e nella prassi religiosa greca, almeno a livello panellenico. Un culto rilevante gli veniva tributato praticamente soltanto nell'isola di Rodi, dove la più grande statua del mondo greco, il celebre "Colosso", raffigurava appunto il dio Sole. Gli abitanti dell'isola offrivano ad Helios un sacrificio spettacolare e insolito: ogni anno una quadriga veniva immersa in mare con i suoi cavalli, a immagine forse del carro con cui il Sole attraversava la volta celeste.
L'isola di Rodi, d'altra parte, come narra un mito tramandatoci da Pindaro, sin dalle origini del mondo appartiene ad Helios. Quando infatti Rodi non era ancora visibile agli occhi degli uomini e degli dei, giaceva nascosta negli abissi marini, e Zeus e gli altri immortali si spartirono il cosmo senza accorgersi dell'assenza di Helios, che dunque non ottenne nulla. Di fronte alle rimostranze dello stesso Helios, Zeus voleva annullare la divisione e fare un nuovo sorteggio. Il Sole, onniveggente, però rifiutò: aveva scorto Rodi sul fondo del mare e la reclamò come suo eterno possesso. Rodi allora sbocciò dal mare madida come una rosa (Rhodon), e su quella fertile isola appena emersa dalle onde salmastre il Sole si unì alla ninfa eponima, Rhodo, generando sette figli, i più saggi fra tutti gli uomini dei primordi.
Oltre ai primi abitanti di Rodi, Helios avrà altri figli, di cui il più celebre è l'infelice Fetonte, lo "splendente" che volle guidare il carro fraterno precipitando però nell'Eridano e trovandovi la morte. Le sue sorelle lo piansero a lungo presso il fiume, e dalle loro lacrime nacque l'Ambra, mentre le sfortunate fanciulle si trasformarono in pioppi.
Ben diverse dalle dolci e sventurate sorelle di Fetonte sono però le figlie di Helios, che raggiunsero la fama maggiore nel mondo greco. Fra tutte, spicca l'inquietante figura della dea Circe, la bella incantatrice che si avvale di tutte le arti della seduzione e della magia per metaforizzare gli uomini in animali. Piegato dall'astuzia e dall'amore di Odisseo, Circe si trasformerà in una tenera amante e userà il suo sapere magico e profetico per indicare al re di Itaca la lunga strada del ritorno.
Alla stirpe del Sole appartiene anche un'altra terribile maga, Medea, figlia di un fratello di Circe, signora dei veleni e dei sortilegi, maestra ineguagliabile di filtri, malefici e insidie mortali. Nell'ultima scena della tragedia di Euripide, Medea, dopo aver commesso il più tremendo dei suoi delitti, l'assassinio dei propri figli, si allontana in un carro trascinato da due draghi alati, che il Sole le ha inviato per sfuggire ai nemici. La principessa Barbara sarà destinata ad altre nozze regali, con Egeo, signore di Atene, mentre a Giasone, lo sposo traditore, non resterà che meditare, schiantato dal dolore, su cosa significhi disprezzare l'amore di una discendente di Helios. Benchè sia una donna, e non una dea, Medea non conoscerà la morte: verrà rapita nell'isola dei Beati, dove questa tenebrosa figlia del Sole andrà in sposa ad Achille, il più luminoso degli eroi.

Tra vita e morte tra luce e notte

Anche sul piano delle acquisizioni correnti, si sa quanto il Sole, la luce, la notte siano i segni del linguaggio della poesia e dell'espressione artistico; riconducono anzi l'atto poetico alla primordialità della condizione umana: vita e morte, perdizione e salvezza. In questa riflessione, possiamo richiamare, per la letteratura italiana, due opere in cui la luce diviene pienezza di metafora, centralità della concezione poetica: la Divina Commedia e i Sepolcri.
In un volume, Studi su Dante, del filosofo Romano Guardini, c'è un saggio di stimolante efficacia per la limpidezza discorsiva e comunicativa: il fenomeno della luce nella "Divina Commedia".Luce come agostiniana visione: l'inferno è assenza di luce, il purgatorio è oblio e aspirazione; nell'Empireo, la più grandiosa visione della poesia, la luce è atto, assoluto spirito. La chiusa foscoliana dei Sepolcri ("finché il Sole/ risplenderà su le sciagure umane") che dura nell'emozione di ogni memoria scolastica sarà potentemente espressiva di una trascendenza di natura romantica della poesia, dell'eterno.
Agli inizi della poesia novecentesca, è soprattutto il Pascoli, con la sua "rivoluzione inconsapevole", a mettere in moto le poetiche del "declina della luce". Il correlativo più ricorrente, la nebbia, traduce la malattia delle cose, le accensioni e gli incerti simboli del mistero quotidiano.
A rileggere il libro di Montale si avrà la conferma del carattere debole, oscuro, trattenuto della luce: "Meriggiare pallido e assorto", la memoria grigia, le petraie di un greto, lontane scaglie di mare, "la cosa di questa/ mia sera". I volti, le occasioni, i ricordi sono recisi dal tempo e si dissolvono irreparabilmente. Sopravvive una pietà tanto più profonda, quanto più certa della mancanza di una via di salvezza. Testimonianza di una coscienza amara e disillusa, nel reciproco riflettersi di ragioni psicologiche e storiche, vorremmo citare una poesia di Montale apparso nel periodico milanese "Corrente" (diretto da Ernesto Treccani) il 28 febbraio 1939. Veniva indicato anche il titolo M balcone), che una breve noto dell'autore dichiarava puramente indicativo, "il riflettore di un momento, un 'sottinteso' per il lettore. "La vita che dà barlumi/ è quella che sola tu scorgi./ A lei ti sporgi da questa/ finestra che non s'illumina".

Il Sole reggitore del mondo
(Da Camillo Flammarion)

Sorgente abbagliante della luce, del colore, del movimento, della vita e della bellezza, il divin Sole ha in tutti i secoli ricevuto gli omaggi premurosi e riconoscenti dei mortali. L'ignorante lo ammira perché sente gli effetti della sua potenza, della sua virtù; il dotto l'apprezza perché ha appreso a conoscere la sua importanza, unica nel sistema del mondo; l'artista lo saluta, perché vede nel suo splendore la causa virtuale di tutte le armonie.
Questo astro gigante è veramente il centro dell'organismo planetario; ciascuna delle sue celesti palpitazioni invio lontan lontano, fino alla nostra piccola Terra, che voga alla distanza di 37 milioni di leghe, fino al remoto Nettuno, che circola a 1. 100 milioni di leghe, fino alle pallide comete più lontane ancora, abbandonate nel perpetuo inverno ( ... ), e fino alle stelle, a milioni di miliardi di leghe da noi ( ... ), ciascuna, dico, delle palpitazioni di questo cuore infiammato irraggio e diffonde senza misura l'incommensurabile forza vitale che va diffondendo la vita e il benessere su tutti i mondi. Questa forza emana senza posa dall'energia solare e spiega la propria energia intorno a lui nello spazio con una rapidità singolare: otto minuti bastano alla luce per attraversare l'abisso che ci separa dall'astro centrale; il pensiero stesso non concepisce distintamente questo balzo di 75 mila leghe valicato a ciascun secondo dall'onda luminosa. Quale non è mai l'energia di questo focolare! Di già noi abbiamo apprezzata l'entità del globo solare: 708 volte più largo della Terra in diametro; un milione e 279 mila volte più gigantesco in volume; 324 mila volte più grave come massa. Come possiamo figurarci così fatte dimensioni?
Rappresentando la Terra con un globo di un metro di diametro, il Sole sarà rappresentato con un globo di 108 metri. Si avrà un'idea di un siffatto globo, considerando che la più vasta cupola che l'architettura umana abbia mai costruito, la cupola di Firenze, lanciata nell'aria dal genio di Brunelleschi, non misura che 46 metri di diametro; la cupola di San Pietro in Roma e quella del Pantheon d'Agrippo misurano meno di 43 metri; la volta degli Invalidi, a Parigi, misura 24 metri, e quella del Così Pantheon 20 metri e mezzo solamente. Così se si rappresentasse il Sole con una sfera della grossezza della cupola del Pantheon di Parigi, la Terra sarebbe ridotta alla sua comparativa dimensione sotto la forma di una palla di 19 centimetri di diametro.
Del resto, non si potrebbe mai troppo insistere sull'importanza del Sole e sulla sua superiorità sul nostro globo. Ponendo il Sole sopra un piatto d'una bilancia abbastanza gigantesca per riceverlo, bisognerebbe mettere sull'altro piatto 324 mila Terre simili alla nostra per fargli equilibrio. Questa massa enorme comprende entro i suoi raggi tutto il suo sistema. Se il paragone non fosse offensivo pel dio Sole, si potrebbe dire che egli è là come il ragno al centro della sua tela. I mondi stanno attaccati alla ragnatela della sua attrazione. Egli domina al centro e tiene tutto sotto il proprio impero.
Relativamente alla sua grandezza e alla sua forza, i mondi sono balocchi che girano intorno a lui . . .


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