§ Luci ed ombre della Medicina

Processo ad Ippocrate




Italo Vittorio Tondi



Se mi chiedessero di comporre un epitaffio per io Medicina del XX secolo, scriverei così: brillante nelle sue scoperte, superba nelle conquiste tecnologiche, ma dolorosamente incapace di applicarle a coloro che ne hanno maggior bisogno(Rex Kendall)

Fra i temi da trattare che un anziano medico, giunto al traguardo del suo iter professionale, percorso quasi per intero tra le corsie ospedaliere, penso che quello prescelto, permettendo uno sguardo nel passato e nel presente ed una previsione del futuro della Medicina, sia uno dei più suggestivi ed emblematici da scegliere perché i suoi proseliti, i neofiti, e tutti gli addetti ai lavori traggano le rispettive considerazioni, valutazioni e decisioni.
La ricorrente accusatoria e penalizzante espressione di una crisi della Medicina tarpa le ali degli aspiranti e mozza il respiro, delude le attese, le speranze, i sogni di chi in essa volle e vuole ancora credere, lungi da meri ed opportunistici traguardi o interessi, bensì indotti da un empito di abnegazione e solidarietà verso il prossimo: sofferente, anziano, emarginato, povero o depresso che sia.
Rileggendo i libri e rievocando le lezioni, le relazioni, gli articoli di illustri Maestri del passato e recenti (ne cito alcuni: Frugoni, Barni, Borghetti, Teodori, Villa, Condorelli, Stefanini, G.C. Dogliotti, Chini, Giunchi, Beretta Anguissola, Austoni, landolo, Albano, Migone et Al.) sulla spinosa, complessa e dibattutissima situazione della Medicina nei passati e nei recenti lustri, anche se nelle parole di alcuni di loro un certo ottimismo traspare per il suo futuro, in quelle dei più predomina una lampante amarezza ed un larvato pessimismo per il reiterato ed ossessivo rifiuto, da parte dei responsabili tutti del settore, ad accogliere proposte e realizzare programmi, talvolta già definiti.
Ecco, allora, un'altra spiegazione del tema prescelto. E' veramente e solo da ritenere triste, grama, angustiata ed angustiante la vita di questa nobile branca dello scibile? Mi si permettano dei richiami storici, sempre del periodo della mia attività professionale.
Alle precedenti scoperte di fine secolo di Koch, di Pasteur e di Ehrilch che portarono alla introduzione nella pratica medica dei sieri vaccini ed arsenobenzolici, con i risultati positivi ben noti, seguirono, nel ventennio 1930-1950, quelle di Domagh, di Fleming e di Waksman, rispettivamente dei sulfamidici della penicillina e della streptomicina, rappresentanti l'alba della cosiddetta "era chemio-antibiotica", che permise e permette e, certamente, permetterà ai medici di eradicare o dominare infezioni un tempo inguaribili od irreversibili, o poco o punto aggredibili, con l'ovvio risultato finale di un sensibilissimo calo della mortalità, elettivamente infantile, e di un prolungamento della vita. Arricchendosi, nel prosieguo, la lista degli antibiotici e del loro, razionale e talvolta irrazionale o inopportuno, impiego venne a determinarsi una nuova particolare situazione nella eziologia infettiva e negli aspetti clinici di alcune malattie.
Sotto il profilo microbiologico è a dirsi che a storici, resistentissimi germi patogeni del passato, nuove specie batteriche sono venute a sostituirsi o ad essi associarsi.
Una vasta gamma di nuovi patogeni, in parte già noti come saprofiti o commensali, in parte del tutto nuovi o ignoti, ha allargato e vieppiù allarga la schiera degli agenti responsabili della patologia infettiva, includendovi in essa i cosiddetti "opportunisti, gli emergenti o i riemergenti".
Senza entrare nel campo delle resistenze batteriche, dirò che è venuta a determinarsi una situazione apparentemente paradossale, inerente alla loro diversa attività sulle varie e singole specie e sottospecie batteriche. Certe infezioni, dapprima dominate o dominabili da alcuni di essi, si sono successivamente, dopo pochi o più anni, agli stessi appalesate resistenti o refrattarie o non sufficientemente sensibili. Ma non solo; dalla loro somministrazione nuove eziologie sono emerse, inducendo, conseguentemente, i Ricercatori ad identificarne di nuovi, più attivi, più specifici e, possibilmente, meno tossici. Sotto il profilo clinico, il loro impiego in alcune malattie infettive ha determinato un sovvertimento degli aspetti ed attributi semeiologici e, talora, anche siero-ematologici, causando così una modificazione del loro quadro clinico (patomorfosi) che rende non paradigmabile il confronto con quanto scritto nei libri di patologia ed ostacolandone o ritardandone la diagnosi, con potenziali implicazioni prognostiche.
Nel 1936, quasi contemporaneamente, venne isolato da E.C. Kendall e da Reichstein il cortisone dalla corteccia surrenalica, che P.S. Hench e lo stesso Kendall introdussero subito dopo in terapia. Nacque l'era dei cortisonici, la cui proliferazione continua alla ricerca di composti sempre più attivi e meno responsabili di effetti collaterali o controproducenti.
Come per gli antibiotici gli entusiasmi furono e sono forti per la loro efficacia in affezioni prive o quasi di qualsiasi ausilio terapeutico e su di altre per la prima volta dimostratesi sensibili ad un trattamento farmacologico, con risultati a dir poco sorprendenti ma con riflessi anche negativi.
Il loro impiego difatti se da una parte permette di utilizzarli in campo reumatologico, allergico, immuno-ematologico, oncologico, endocrino ed antinfiammatorio in modo crescente e, talora, aggressivo, da un'altra parte i loro effetti collaterali destano non poche perplessità, consigliandone un oculato uso ed una specifica indicazione. Non insignificanti e non sempre reversibili sono infatti gli effetti secondari da essi provocati: iperglicemia, ipertensione, edemi, osteoporosi, obesità tipo Cushing, ulcera gastro-duodenale, linfocito-eosinofilopenia, virilismo e, paradossalmente, azione proinfettiva. Un ordine cronologico delle più significative acquisizioni dell'ultimo cinquantennio nel campo della Scienza medica è del tutto impossibile, data la contemporaneità o quasi delle più significative di esse.
Nel settore della terapia cardiovascolare, e solo dal punto di vista farmacologico, menzionerò per la loro larga diffusione ed applicazione:
1) i betabloccanti, la cui azione di diminuire il consumo di Ossigeno da parte del miocardio si esplica con una riduzione della velocità e della energia contrattile e della frequenza cardiaca.
2) i calcio-antagonisti che, bloccando l'ingresso de Ca nelle cellule muscolari lisce e nelle fibre miocardiche, provocano un effetto coronaro-dilatatore.
Sempre nel campo della terapia cardiologica ed esattamente nella profilassi e nella cura dell'infarto del miocardio, ricordo che oltre agli anziani eparinoidi e dicumarolici si sono affiancati i tromboliti ci, streptochinasi ed urochinasi, attivatori del plasminogeno.
Altra categoria di medicinali che ha arricchito gli armadi dei farmacisti è quella degli antinfiammatori non steroidei (i cosiddetti Fans); ai salicilici (aspirina), ai pirazolici ed indolici di vecchia o non recente nascita si sono gradualmente aggiunti gli antranilici, gli aritacelici, i propionici e, recentemente, il piroxicam, la diacerina, la nimesulide, il meclofenato sodico, creandovi alquanta confusione ed incertezza nella applicazione pratica, anche per i loro non indifferenti effetti secondari sulla sfera digerente, sulla funzionalità epatica, sulla crasi ematica, ecc.
Nella fioritura dei medicamenti degli ultimi decenni un ruolo importante rivestono gli inibitori degli Idrogeno-recettori e, purtroppo, gli psicofarmaci. Ai precursori, antiacidi anticolinergici e carbenexolone, si sono da un decennio affiancati, nella cura della malattia ulcerosa, la cimetidina, la ranitidina, la famotidina, la nizatina e prossimi alla commercializzazione sono la etimotidina, la pipatidina, la etinidina e la roxatidina. Nel recente Congresso mondiale di Gastroenterologia di Roma, di un altro farmaco antiulcera, l'omeprazolo, del quale piuttosto complesso appare il meccanismo d'azione, si è molto favorevolmente discusso. Agli effetti citoprotettivi, e sempre per la stessa patologia, sono state proposte ed applicate, con risultati opinabili, le prostaglandine.
Il gruppo degli psicofarmaci è tale da incutere paura anche agli addetti ai lavori. Accenno ai più noti:
1) Timoanalettici (o antidepressivi): triciclici e tetraciclici, gli antiaminossidasici ed i nooanalettici. A proposito del loro uso riporto una ammonitrice osservazione di Zanussi: "La recente introduzione in terapia (circa venticinque anni) ed il loro rapido e continuo moltiplicarsi vengono a proporre una serie complessa di problemi generali e particolari inerenti il loro impiego ottimale in terapia"; per i loro effetti secondari, aggiungo io, per le reciproche incompatibilità o interazioni con altri farmaci, per le controindicazioni, le assuefazioni, le intossicazioni. Per completezza accenno all'uso del litio ed all'atteso TRH (thirotropin releasing hormone).
2) Ipnotici, anticonvulsivanti, tranquillanti: una foltissima schiera da renderci perplessi e, soprattutto, preoccupati, per la ampiezza e facilità del loro uso da parte di nevrotici e psiconevrotici e "dulcis in fundo" di tossicomani ed aspiranti al suicidio.
Una vasta gamma di preparati ad azione selettiva, da soli o in associazione, costituisce il patrimonio antiblastico nelle mani esperte degli oncologi. Ai non più giovani mecloretamina, clorambucil, melfalan, ciclofosfamide si sono gradualmente agganciati la actinomicina D, la mitomicina C, la bleomicina, la vincristina, la vinblastina, diversi ormoni e gli immancabili cortisonici. Il loro impiego, da soli o in associazione, trova giustificazione nelle diverse neoplasie, nelle loro varie dislocazioni e fasi evolutive.
A fronte dei loro sensibili e, talora, sorprendenti risultati sono però da porre i potenziali rischi di effetti indesiderabili e non sempre reversibili, se non riconosciuti tempestivamente, sulla mielopoiesi, sulla funzionalità epatica e renale, sull'apparato digerente e nervoso.
Non potendomi molto dilungare, accenno ad alcuni farmaci che pure hanno visto la luce in quest'ultimi decenni: gli antidiabetici orali, gli antidislipidemici ed i diuretici, in numero talmente massiccio che difficoltoso anziché semplificato appare, talvolta, il compito del medico per la loro differenziazione e prescrizione.Un cenno a parte, per i suoi riflessi nosologici ed epidemiologici, merita la scoperta da parte di Blumberg e coll. dell'antigene Australia, l'agente responsabile dell'epatite virale B e la successiva identificazione dei markers delle epatiti virali A-B-nonA-nonB-delta, nonché degli anticorpi anti-AlDS; scoperta che ha permesso passi ragguardevoli nella diagnostica, terapia e prognosi delle epatiti virali e, particolarmente, nella prevenzione della epatite virale B, con la introduzione della vaccino-profilassi specifica. La presenza degli anticorpi anti-AlDS ha infine consentito la identificazione dei portatori e facilitata quella dei malati, con impliciti vantaggi della epidemiologia.
Dai progressi degli studi di immuno-virologia tangibili risultati si sono ottenuti nel campo della chemioterapia antivirale e della vaccinoprofilassi.
Dei farmaci terapeuticamente attivi nelle malattie virali menziono i più noti:
1) Acyclovir: efficace nelle infezioni da herpes-virus di tipo 1 e 2, da virus varicella-zooster e, meno, in quella da virus di Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi infettiva.
2) Amantidina e rimantadina: efficaci nella influenza A e meno nella B.
3) Isoprinosina: più che un antivirale è considerato un immunomodulatore.
4) Adenina arabinoside: soddisfacenti risultati sarebbero stati osservati nelle infezioni erpetiche.
5) Ribavirina: agirebbe sia contro i virus a DNA che a RNA.
6) Suramina ed azidotimidina (quest'ultima meglio nota con la sigla AZT), entrambe impiegate nella infezione da HIV, essendosi dimostrate capaci di inibire la replicazione virale.
7) Interferoni: "Sono proteine rilasciate dalle cellule in risposta alle infezioni o a determinati stimoli che agiscono indirettamente inducendo una condizione di resistenza ai virus, temporanea, nelle cellule infettate e modulando le risposte immuni dell'ospite" (Zanussi).
Chiudo il capitolo con rapidissimo accenno alla immunità acquisita, passiva ed attiva; la prima ottenuta con sieri o immuno-globuline specifiche, la seconda con vaccini.
La passiva, efficace per breve durata, è da considerarsi propedeutica alla attiva, in attesa che si formino i suoi anticorpi. Si deve a quest'ultima la scomparsa nel mondo del vaiolo, la forte riduzione della poliomelite e della difterite; lo stesso dovrebbe anche verificarsi per la pertosse e per il morbillo.
Attualmente se l'attenzione è rivolta alla vaccino-profilassi dell'epatite virale B, largamente in corso, le speranze invece sono rivolte alla realizzazione di un vaccino per l'AIDS, per la malaria e per la sclerosi multipla.
Mentre rilevanti erano e sono da ritenersi i progressi della microbiologia, della farmacologia e della immuno-virologia, a che punto erano e sono, in comparazione, le indagini diagnostiche, radiologiche, nucleari, ultrasoniche e strumentali?
Penso di poter onestamente rispondere che il progresso è evoluto pressoché di pari passo. Sarò breve, limitandomi solo ad elencare le più note ed applicate: ultrasuonografia Doppler arteriosa e venosa, arterio-flebografie, fotopletismografia, cateterismo cardiaco e dei vasi, ecocardiografia e vettorcardiogramma, angiocardiografia, angiografia digitalizzata, esami endoscopici, tomografia assiale computerizzata, tomografia computerizzata a raggi X e tomografia computerizzata ad emissione di protoni; risonanza magnetica nucleare, eco-scintigrafia di vari organi e ghiandole, agobiopsia epatica-renale-splenica-prostatica mirata, broncoscopia e broncografia, colangiografia percutanea transepatica e colangiopancreatografia, angioplastica percutanea, litotrissia di calcoli renali e biliari con onde d'urto, il pancreas artificiale, applicazione di pace-maker, densitometria ossea, ecc. Questo profluvio di indagini (ed ovviamente non ho accennato ai contemporanei progressi della Chirurgia) non sempre ha agevolato ed agevola la diagnosi, che compete alla intelligenza, alla preparazione e alla esperienza del medico, ma ha comportato e comporta, talvolta, un inutile dispendio di energie umane e finanziarie, perché non razionalmente finalizzate od interpretate o perché superflue o ripetitive.
E per chiudere il discorso sulle "luci", una rapida scorsa è d'obbligo sui risultati della bioingegneria nel campo medico, destando essa grande interesse ed entusiasmo ma anche non poche preoccupazioni.
A partire dalla conquista dell'informatica e della telematica, le ricerche biotecnologiche hanno consentito e consentono la diagnosi prenatale di alcune emopatie e malformazioni, la identificazione dei geni responsabili della malattia fibrocistica del pancreas, della distrofia muscolare di Duchenne, della corea di Huntington, pervenendo fino al mappaggio genico dei singoli cromosomi (Larizza).
Per la fine del secolo è prevista la mappatura di tutto il genoma umano.
La bioingegneria ha altresì permesso la sintesi della somatostasina, che inibisce la liberazione dell'ormone della crescita; la sintesi batterica dell'insulina ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante, come è avvenuto per la realizzazione del vaccino dell'epatite B. Sempre con la stessa tecnica si è pervenuti alla biosintesi batterica dell'ormone somatotropo, mentre con la biosintesi per clonazione sono stati realizzati i tre interferoni: l'alfa dai leucociti, il beta dai fibroblasti ed il gamma dai linfociti attivati.
E sempre con le stesse tecniche sono state prodotte le interleuchine, la timosina, l'urochinasi, il fattore Vili della coagulazione (globulina antiemofilica) ed il fattore IX, la cui carenza è responsabile dell'emofilia B. Di prossima realizzazione sembrerebbe essere la biosintesi dello attivatore tessutale del plasminogeno, tanto atteso dai cardiologi e sospirato dai candidati all'infarto miocardico.
Recentissima, infine, è la notizia della scoperta da parte di due ricercatori dell'Università americana di Stanford, Gilbert Chu ed Elaine Chang, di una proteina organica (la cui carenza sarebbe responsabile di una rara malattia ereditaria: lo xeroderma pigmentosum) che, influendo sui processi riparativi, agirebbe positivamente sulle alterazioni del DNA genetico. Chiuderei a questo punto il discorso perché alla elencazione delle "luci" non seguissero le "ombre" che, oggi, si condensano nella non desueta espressione di "crisi della Medicina"; quasi una epigrafe per una storica professione, dalle più antiche nobili ed umane tradizioni. Quali le cause? Esse sono figlie dell'insipienza, del pressappochismo, della superficialità, della improvvisazione e della incompetenza delle amministrazioni politiche e demagogiche, della situazione socioeconomica, delle riforme e controriforme sanitarie.
Da qualche decennio si parla e si discute animosamente di pletora medica e si implorano rimedi e provvedimenti, proponendo il "numero chiuso" per l'accesso alla Facoltà medica. In contrapposto il numero degli aspiranti (anche se da un paio d'anni il fenomeno sembra, per forze naturali, affievolirsi) è cresciuto vertiginosamente, essendo le porte rimaste ostinatamente aperte. Con qualsiasi diploma di scuola medio-superiore, senza preventivi test attitudinari e criteri di valutazione, l'aspirante è iscritto al primo corso.
Se i responsabili della istruzione e della salute pubblica ricordassero e riflettessero che solo un quarto degli immatricolati perviene alla laurea alla fine del sesto corso e che la maggioranza va ad accrescere la fiumana del fuoricorso e che di essa la massima parte perviene al dottorato oltre i trent'anni d'età dovrebbero, secondo buon senso, bloccare lo straripamento con dighe e paratie stagne, ma la legislazione e le politiche demagogiche persistono nella latitanza.
Nell'iter universitario lo studente si troverà presto di fronte ad una inadeguatezza delle strutture, ad una deficienza di ausili didattici, allo studio di materie in parte stantie, alla impossibilità o quasi di partecipare ad esercitazioni tecnico-pratiche ed erudirsi in metodiche semeiologiche, di fronte ad alcuni docenti di livello opinabile e, soprattutto, non aperti al dialogo, alla mancanza di un insegnamento di carattere etico-psicologico ed epistemologico, acquisendo una educazione prevalentemente teorico-nozionistico ed informativa.
Con tale bagaglio e senza alcun preventivo tirocinio-pratico perviene alla laurea; superata poi una parvenza di esame di Stato il neo-dottore è autorizzato all'esercizio professionale, alle prese cioè con la medicina di base. Ma i più optano per una specializzazione, quasi sempre tra le più ambite economicamente, e questa volta la loro preparazione è indirizzata in senso unilaterale, cioè settorialmente, con la implicita e logica conseguenza di una cultura non globale ed una visione riduttiva della unità somato-psichica biologica.
"Si va così risuscitando nella prassi professionale di basso livello - ammoniva Condorelli - l'orientamento organicistico della medicina preippocratica. Non è l'uomo malato bensì il suo cuore, o il fegato, o il rene, o l'occhio, o il polmone: e si ignora, nonché la personalità umana, persino la stessa unità somatica del sofferente".
Ma già alcuni decenni fa Alexis Carrel scriveva: "L'avvenire della Medicina è subordinato al concetto dell'uomo. La sua grandezza dipende dalla ricchezza di questo concetto. Anziché limitare l'uomo a certi suoi aspetti, deve abbracciarlo tutto quanto, cogliendo il corpo e lo spirito nella unità della loro realtà".
Nel marzo del 1984 in una assise di autorevolissimi personaggi di varia estrazione culturale, organizzata dalla Fondazione Carlo Erba e dalle Università di Milano, Pavia e Brescia, si discusse ampiamente del problema e furono avanzate concrete proposte per la riforma della Medicina.
In precedenti e successivi dibattiti (specie nei Congressi nazionali della Società di medicina interna) se ne ribadì l'urgenza, ma gli appassionati appelli di Villa, Condorelli, Beretta Anguissola et Al. rimasero persistentemente inascoltati.
E Beretta Anguissola, nell'intento di alleviare il disagio degli studi medici propose la creazione di Comitati didattici, costituiti da docenti e discenti, mentre Austoni redasse uno schema di apprendimento sperimentale per una più consona corrispondenza dell'insegnamento universitario alle nuove esigenze della professione e della società, con la obbligatorietà per i neo-laureati della iscrizione ai corsi di formazione permanente, in strutture qualificate, adeguatamente attrezzate e finanziate dallo Stato. Voci clamanti nel deserto! A dischiudere la mente e l'animo a qualche speranza è giunta la notizia della approvazione da parte del Senato di un disegno di legge per la istituzione di un Ministero dell'Università e delle ricerche scientifica e tecnologica.
Intanto la situazione rimane ibrida a tal punto che "motu proprio" le immatricolazioni a Medicina da un paio d'anni vanno affievolendosi. Riprendo il discorso sul neo-dottore per seguirlo nel suo cammino post-laurea.
Chi ha optato per la medicina di base affronterà una quantità e qualità di prestazioni impostegli, impelagato nelle trafile cartacee delle burocratiche unità sanitarie locali, appannaggio dei politici, arbitri della assistenza dentro e fuori degli Ospedali; e viene così conculcato quel diritto di scelta che ha caratterizzato da sempre il rapporto fiduciario tra medico e malato. E quale sarà il suo domani senza quell'aggiornamento culturale e tecnico-pratico che lo metta al corrente delle nuove biotecnologie e metodiche semeiologiche, sempre più avanzate?
Lo stesso discorso vale per lo specialista. Solo l'amor proprio, le etiche e/o religiose responsabilità, un sentimento umanitario ed una mentalità ippocratica indurranno l'uno e l'altro ad un auto-apprendimento che per essere solo teorico non potrà che essere parcellare.
Vuoto legislativo, deficienza di strutture, di mezzi finanziari e di ausili didattici, l'interesse economico a non interrompere l'attività professionale impediscono quel l'aggiornamento periodico di formazione permanente, pur previsto dalla riforma sanitaria e dal codice deontologico.
E la situazione negli Ospedali è migliore o l'immagine speculare di quella esterna?
Una legge discussa e discutibilissima ha chiuso gli Ospedali psichiatrici con le conseguenze che i mass-media e la stampa quotidiana hanno segnalato e stigmatizzato. L'aumento della sopravvivenza ha sensibilmente accresciuto il numero degli anziani, malati o no; ma adeguate strutture di accoglimento per essi sono pressoché inesistenti. E negli altri settori ospedalieri, tranne eccezioni, la situazione non è idilliaca.
Il rapporto tra personale sanitario ed infermi risulta spesso compromesso da atteggiamenti e comportamenti contrastanti; i rapporti tra il personale sanitario (medico e paramedico) dello stesso reparto, talora in dissidio, non consentono univocità di pensiero e di condotta; quelli tra le diverse équipes non sempre sono di simpatia e di leale collaborazione. Con la eliminazione del Consiglio dei Primari anche la Direzione Sanitaria risulta decapitata ed avulsa dal contesto amministrativo e decisionale se non per meri compiti igienico-sanitari e disciplinari. Anche per gli Ospedali si annotano deficienze delle strutture e dei servizi (talora fatiscenti come documentano le cronache televisive); scarsezza di ausili diagnostici e di apparecchiature, e quelle presenti in parte viete ed in parte in intermittente efficienza, talvolta mancanza o scarsezza di medicinali e materiali di medicazione, deficienza di personale tecnico, altamente qualificato, per l'esercizio di sofisticati presidi diagnostico-terapeutici, carenza di personale sanitario anche per un esagerato e non sempre giustificabile assenteismo; un diritto allo sciopero opinabilissimo quando a soffrirne le conseguenze sono degli utenti malati o sofferenti; un polisindacalismo litigioso; atteggiamenti del personale sanitario non sempre consoni con una educazione e formazione etico-psicologica e mentale, indispensabili per una professione che non deve vedere nel malato una entità numerica, ma una entità psico-fisica, diversa per età, cultura, ceto, religione, ideologie, razza, temperamento e comportamento. Si è pertanto avvertito il bisogno della istituzione dei tribunali dei diritti del malato e dei comitati etici ospedalieri, con funzioni di sorveglianza e di tutela perché sia prestato una assistenza qualificata ed umana e per denunciare carenze, ritardi, omissioni e soprusi, qualora si verificassero.
Non dovrebbe esservi giustificazione ché un caso di urgenza medico-chirurgica o specialistica, senza preventivi solleciti controlli dei medici del reparto di destinazione, sia rinviato, per i provvedimenti di emergenza, al giorno successivo perché arrivato al pronto-soccorso di sera tardi o di notte; come non può essere giustificato l'evento che un traumatizzato non venga tempestivamente sottoposto alle indagini radiologiche per il guasto, non imprevisto, delle apposite apparecchiature; che un malato debbo attendere più giorni perché arrivi l'esito degli esami di routine e che lo stesso venga invitato ad acquistare medicinali di cui la farmacia ospedaliera, sia pure provvisoriamente, ne è sprovvista; né ritengo sia giustificabile il persistente o frequente sistema di servirsi di laboratori e studi privati per l'espletamento di indagini diagnostiche, col dubbio, non sempre infondato, di sospette convenzioni; non è deontologico che un paziente sia visitato dopo giorni di ricovero e saltuariamente durante il periodo di degenza dal capo-reparto, trasgredendo egli in tal modo un suo imprescindibile dovere e conculcando un sacrosanto diritto del malato.
E' la débâcle di una assistenza che promuove l'esodo verso cliniche ed istituzioni private, ove l'ammalato trova più sorrisi, più sollecitudine, più rispetto della sua "privacy". E' la débâcle di una ortodossa assistenza intesa in senso ippocratico. E' una débâcle che demoralizza e mortifica quanti della famiglia ospedaliera, consci di avere adempiuto con comprensione, abnegazione e altruismo sempre il proprio dovere, si vedono coinvolti nell'ingranaggio di una assistenza tacciata spesso di disumanità. Ho parlato forse più di "luci" che di "ombre"; e pure a leggere i quotidiani ed i rotocalchi e vedere la televisione queste rivestirebbero, talvolta, il ruolo delle tenebre!
E' mia convinzione, però, che sia prudente non enfatizzare tale anacronistica o paradossale situazione per non accentuare il discredito popolare sulle istituzioni pubbliche ospedaliere e sulle unità sanitarie locali.
Al termine dirò di sfuggita degli effetti negativi e delle potenziali, pericolose implicazioni della ingegneria genetica, già da me analizzati in un recente articolo (Il leccio, 1988, n. 2, pag. 3), riportando sul delicatissimo ed interessantissimo problema alcuni non univoci pareri di Autorità della Scienza medica.
Sul rapporto rischi/benefici della bioingegneria e sulla eventuale costituzione e formazione di Comitati etici di controllo, Rita Levi Montalcini scrive: "Stiamo vivendo un momento di eccessivo allarmismo nei confronti dei progressi scientifici. Credo che non vadano dimenticati in queste valutazioni i vantaggi delle nuove tecniche biologiche e credo che su di esse non possono esprimersi che persone con competenza specifica". Ma nel timore che l'entusiasmo e/o l'interesse per la ricerca biotecnologica oltrepassi i limiti della morale e della legge, l'altro premio Nobel, Renato Dulbecco, asserisce: "Non credo nell'auto-disciplina degli Scienziati, sono uomini come lo sono io stesso, con interessi e coinvolgimenti tali da non poter garantire libertà di giudizio. A decidere sul proseguimento ed uso di certe tecniche dovrebbero essere Comitati formati da non Ricercatori".
La ricerca di nuovi farmaci sempre più attivi, ma sempre potenzialmente più pericolosi, la produzione di vaccini mediante il DNA ricombinante, la contraccezione, la inseminazione artificiale e la fecondazione in vitro ed extracorporea, la diagnosi prenatale mediante sonde DNA di malattie ereditarie, gli ipotizzati interventi sulle cellule somatiche ed elettivamente germinali per rimediare ad alcune alterazioni ereditarie, nonché la prospettata terapia genetica, per gli impliciti riflessi eticogiuridici, non possono che provocare perplessità, paure e diversità di giudizio, dovendo la sperimentazione sull'uomo avere una finalità euristica, rivolta cioè alla cura ed al mantenimento della salute e che l'interesse clinico del singolo paziente non può essere precluso da un profitto generale della Scienza (Claude Bernard).
In un recente pregevolissimo articolo (Giornale di Clinica Medica, 1988, n. 1, pag. 3) il clinico medico prof. Larizza, analizzando acutamente lo spinoso, complesso e controverso problema delle manipolazioni genetiche, ha proposto la istituzione di un codice di comportamento che ne disciplini le attività e che non consenta di violentare la natura, avvertendo che "i limiti fra il lecito e l'illecito, fra il razionale e l'irrazionale, fra la scienza e la religione, fra il bene e il male, fra la morale e il suo contrario, già di per sé labili, potrebbero alla fine diventare così impercettibili da legittimare ogni trasgressione".
E con un'altra sua considerazione e raccomandazione, di alto significato etico-deontologico e di tono quasi implorativo, chiudo il discorso: "i campi fra fantascienza e realtà si vanno facendo sempre più indistinti; non si so più dove cominci l'una e finisca l'altra e viceversa ... la conoscenza non deve offendere il senso religioso della vita ed uccidere la poesia o quel poco dì poesia che ancora è rimasto della vita".


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