Se
mi chiedessero di comporre un epitaffio per io Medicina del XX secolo,
scriverei così: brillante nelle sue scoperte, superba nelle conquiste
tecnologiche, ma dolorosamente incapace di applicarle a coloro che ne
hanno maggior bisogno(Rex Kendall)
Fra i temi da
trattare che un anziano medico, giunto al traguardo del suo iter professionale,
percorso quasi per intero tra le corsie ospedaliere, penso che quello
prescelto, permettendo uno sguardo nel passato e nel presente ed una
previsione del futuro della Medicina, sia uno dei più suggestivi
ed emblematici da scegliere perché i suoi proseliti, i neofiti,
e tutti gli addetti ai lavori traggano le rispettive considerazioni,
valutazioni e decisioni.
La ricorrente accusatoria e penalizzante espressione di una crisi
della Medicina tarpa le ali degli aspiranti e mozza il respiro, delude
le attese, le speranze, i sogni di chi in essa volle e vuole ancora
credere, lungi da meri ed opportunistici traguardi o interessi, bensì
indotti da un empito di abnegazione e solidarietà verso il
prossimo: sofferente, anziano, emarginato, povero o depresso che sia.
Rileggendo i libri e rievocando le lezioni, le relazioni, gli articoli
di illustri Maestri del passato e recenti (ne cito alcuni: Frugoni,
Barni, Borghetti, Teodori, Villa, Condorelli, Stefanini, G.C. Dogliotti,
Chini, Giunchi, Beretta Anguissola, Austoni, landolo, Albano, Migone
et Al.) sulla spinosa, complessa e dibattutissima situazione della
Medicina nei passati e nei recenti lustri, anche se nelle parole di
alcuni di loro un certo ottimismo traspare per il suo futuro, in quelle
dei più predomina una lampante amarezza ed un larvato pessimismo
per il reiterato ed ossessivo rifiuto, da parte dei responsabili tutti
del settore, ad accogliere proposte e realizzare programmi, talvolta
già definiti.
Ecco, allora, un'altra spiegazione del tema prescelto. E' veramente
e solo da ritenere triste, grama, angustiata ed angustiante la vita
di questa nobile branca dello scibile? Mi si permettano dei richiami
storici, sempre del periodo della mia attività professionale.
Alle precedenti scoperte di fine secolo di Koch, di Pasteur e di Ehrilch
che portarono alla introduzione nella pratica medica dei sieri vaccini
ed arsenobenzolici, con i risultati positivi ben noti, seguirono,
nel ventennio 1930-1950, quelle di Domagh, di Fleming e di Waksman,
rispettivamente dei sulfamidici della penicillina e della streptomicina,
rappresentanti l'alba della cosiddetta "era chemio-antibiotica",
che permise e permette e, certamente, permetterà ai medici
di eradicare o dominare infezioni un tempo inguaribili od irreversibili,
o poco o punto aggredibili, con l'ovvio risultato finale di un sensibilissimo
calo della mortalità, elettivamente infantile, e di un prolungamento
della vita. Arricchendosi, nel prosieguo, la lista degli antibiotici
e del loro, razionale e talvolta irrazionale o inopportuno, impiego
venne a determinarsi una nuova particolare situazione nella eziologia
infettiva e negli aspetti clinici di alcune malattie.
Sotto il profilo microbiologico è a dirsi che a storici, resistentissimi
germi patogeni del passato, nuove specie batteriche sono venute a
sostituirsi o ad essi associarsi.
Una vasta gamma di nuovi patogeni, in parte già noti come saprofiti
o commensali, in parte del tutto nuovi o ignoti, ha allargato e vieppiù
allarga la schiera degli agenti responsabili della patologia infettiva,
includendovi in essa i cosiddetti "opportunisti, gli emergenti
o i riemergenti".
Senza entrare nel campo delle resistenze batteriche, dirò che
è venuta a determinarsi una situazione apparentemente paradossale,
inerente alla loro diversa attività sulle varie e singole specie
e sottospecie batteriche. Certe infezioni, dapprima dominate o dominabili
da alcuni di essi, si sono successivamente, dopo pochi o più
anni, agli stessi appalesate resistenti o refrattarie o non sufficientemente
sensibili. Ma non solo; dalla loro somministrazione nuove eziologie
sono emerse, inducendo, conseguentemente, i Ricercatori ad identificarne
di nuovi, più attivi, più specifici e, possibilmente,
meno tossici. Sotto il profilo clinico, il loro impiego in alcune
malattie infettive ha determinato un sovvertimento degli aspetti ed
attributi semeiologici e, talora, anche siero-ematologici, causando
così una modificazione del loro quadro clinico (patomorfosi)
che rende non paradigmabile il confronto con quanto scritto nei libri
di patologia ed ostacolandone o ritardandone la diagnosi, con potenziali
implicazioni prognostiche.
Nel 1936, quasi contemporaneamente, venne isolato da E.C. Kendall
e da Reichstein il cortisone dalla corteccia surrenalica, che P.S.
Hench e lo stesso Kendall introdussero subito dopo in terapia. Nacque
l'era dei cortisonici, la cui proliferazione continua alla ricerca
di composti sempre più attivi e meno responsabili di effetti
collaterali o controproducenti.
Come per gli antibiotici gli entusiasmi furono e sono forti per la
loro efficacia in affezioni prive o quasi di qualsiasi ausilio terapeutico
e su di altre per la prima volta dimostratesi sensibili ad un trattamento
farmacologico, con risultati a dir poco sorprendenti ma con riflessi
anche negativi.
Il loro impiego difatti se da una parte permette di utilizzarli in
campo reumatologico, allergico, immuno-ematologico, oncologico, endocrino
ed antinfiammatorio in modo crescente e, talora, aggressivo, da un'altra
parte i loro effetti collaterali destano non poche perplessità,
consigliandone un oculato uso ed una specifica indicazione. Non insignificanti
e non sempre reversibili sono infatti gli effetti secondari da essi
provocati: iperglicemia, ipertensione, edemi, osteoporosi, obesità
tipo Cushing, ulcera gastro-duodenale, linfocito-eosinofilopenia,
virilismo e, paradossalmente, azione proinfettiva. Un ordine cronologico
delle più significative acquisizioni dell'ultimo cinquantennio
nel campo della Scienza medica è del tutto impossibile, data
la contemporaneità o quasi delle più significative di
esse.
Nel settore della terapia cardiovascolare, e solo dal punto di vista
farmacologico, menzionerò per la loro larga diffusione ed applicazione:
1) i betabloccanti, la cui azione di diminuire il consumo di Ossigeno
da parte del miocardio si esplica con una riduzione della velocità
e della energia contrattile e della frequenza cardiaca.
2) i calcio-antagonisti che, bloccando l'ingresso de Ca nelle cellule
muscolari lisce e nelle fibre miocardiche, provocano un effetto coronaro-dilatatore.
Sempre nel campo della terapia cardiologica ed esattamente nella profilassi
e nella cura dell'infarto del miocardio, ricordo che oltre agli anziani
eparinoidi e dicumarolici si sono affiancati i tromboliti ci, streptochinasi
ed urochinasi, attivatori del plasminogeno.
Altra categoria di medicinali che ha arricchito gli armadi dei farmacisti
è quella degli antinfiammatori non steroidei (i cosiddetti
Fans); ai salicilici (aspirina), ai pirazolici ed indolici di vecchia
o non recente nascita si sono gradualmente aggiunti gli antranilici,
gli aritacelici, i propionici e, recentemente, il piroxicam, la diacerina,
la nimesulide, il meclofenato sodico, creandovi alquanta confusione
ed incertezza nella applicazione pratica, anche per i loro non indifferenti
effetti secondari sulla sfera digerente, sulla funzionalità
epatica, sulla crasi ematica, ecc.
Nella fioritura dei medicamenti degli ultimi decenni un ruolo importante
rivestono gli inibitori degli Idrogeno-recettori e, purtroppo, gli
psicofarmaci. Ai precursori, antiacidi anticolinergici e carbenexolone,
si sono da un decennio affiancati, nella cura della malattia ulcerosa,
la cimetidina, la ranitidina, la famotidina, la nizatina e prossimi
alla commercializzazione sono la etimotidina, la pipatidina, la etinidina
e la roxatidina. Nel recente Congresso mondiale di Gastroenterologia
di Roma, di un altro farmaco antiulcera, l'omeprazolo, del quale piuttosto
complesso appare il meccanismo d'azione, si è molto favorevolmente
discusso. Agli effetti citoprotettivi, e sempre per la stessa patologia,
sono state proposte ed applicate, con risultati opinabili, le prostaglandine.
Il gruppo degli psicofarmaci è tale da incutere paura anche
agli addetti ai lavori. Accenno ai più noti:
1) Timoanalettici (o antidepressivi): triciclici e tetraciclici, gli
antiaminossidasici ed i nooanalettici. A proposito del loro uso riporto
una ammonitrice osservazione di Zanussi: "La recente introduzione
in terapia (circa venticinque anni) ed il loro rapido e continuo moltiplicarsi
vengono a proporre una serie complessa di problemi generali e particolari
inerenti il loro impiego ottimale in terapia"; per i loro effetti
secondari, aggiungo io, per le reciproche incompatibilità o
interazioni con altri farmaci, per le controindicazioni, le assuefazioni,
le intossicazioni. Per completezza accenno all'uso del litio ed all'atteso
TRH (thirotropin releasing hormone).
2) Ipnotici, anticonvulsivanti, tranquillanti: una foltissima schiera
da renderci perplessi e, soprattutto, preoccupati, per la ampiezza
e facilità del loro uso da parte di nevrotici e psiconevrotici
e "dulcis in fundo" di tossicomani ed aspiranti al suicidio.
Una vasta gamma di preparati ad azione selettiva, da soli o in associazione,
costituisce il patrimonio antiblastico nelle mani esperte degli oncologi.
Ai non più giovani mecloretamina, clorambucil, melfalan, ciclofosfamide
si sono gradualmente agganciati la actinomicina D, la mitomicina C,
la bleomicina, la vincristina, la vinblastina, diversi ormoni e gli
immancabili cortisonici. Il loro impiego, da soli o in associazione,
trova giustificazione nelle diverse neoplasie, nelle loro varie dislocazioni
e fasi evolutive.
A fronte dei loro sensibili e, talora, sorprendenti risultati sono
però da porre i potenziali rischi di effetti indesiderabili
e non sempre reversibili, se non riconosciuti tempestivamente, sulla
mielopoiesi, sulla funzionalità epatica e renale, sull'apparato
digerente e nervoso.
Non potendomi molto dilungare, accenno ad alcuni farmaci che pure
hanno visto la luce in quest'ultimi decenni: gli antidiabetici orali,
gli antidislipidemici ed i diuretici, in numero talmente massiccio
che difficoltoso anziché semplificato appare, talvolta, il
compito del medico per la loro differenziazione e prescrizione.Un
cenno a parte, per i suoi riflessi nosologici ed epidemiologici, merita
la scoperta da parte di Blumberg e coll. dell'antigene Australia,
l'agente responsabile dell'epatite virale B e la successiva identificazione
dei markers delle epatiti virali A-B-nonA-nonB-delta, nonché
degli anticorpi anti-AlDS; scoperta che ha permesso passi ragguardevoli
nella diagnostica, terapia e prognosi delle epatiti virali e, particolarmente,
nella prevenzione della epatite virale B, con la introduzione della
vaccino-profilassi specifica. La presenza degli anticorpi anti-AlDS
ha infine consentito la identificazione dei portatori e facilitata
quella dei malati, con impliciti vantaggi della epidemiologia.
Dai progressi degli studi di immuno-virologia tangibili risultati
si sono ottenuti nel campo della chemioterapia antivirale e della
vaccinoprofilassi.
Dei farmaci terapeuticamente attivi nelle malattie virali menziono
i più noti:
1) Acyclovir: efficace nelle infezioni da herpes-virus di tipo 1 e
2, da virus varicella-zooster e, meno, in quella da virus di Epstein-Barr,
responsabile della mononucleosi infettiva.
2) Amantidina e rimantadina: efficaci nella influenza A e meno nella
B.
3) Isoprinosina: più che un antivirale è considerato
un immunomodulatore.
4) Adenina arabinoside: soddisfacenti risultati sarebbero stati osservati
nelle infezioni erpetiche.
5) Ribavirina: agirebbe sia contro i virus a DNA che a RNA.
6) Suramina ed azidotimidina (quest'ultima meglio nota con la sigla
AZT), entrambe impiegate nella infezione da HIV, essendosi dimostrate
capaci di inibire la replicazione virale.
7) Interferoni: "Sono proteine rilasciate dalle cellule in risposta
alle infezioni o a determinati stimoli che agiscono indirettamente
inducendo una condizione di resistenza ai virus, temporanea, nelle
cellule infettate e modulando le risposte immuni dell'ospite"
(Zanussi).
Chiudo il capitolo con rapidissimo accenno alla immunità acquisita,
passiva ed attiva; la prima ottenuta con sieri o immuno-globuline
specifiche, la seconda con vaccini.
La passiva, efficace per breve durata, è da considerarsi propedeutica
alla attiva, in attesa che si formino i suoi anticorpi. Si deve a
quest'ultima la scomparsa nel mondo del vaiolo, la forte riduzione
della poliomelite e della difterite; lo stesso dovrebbe anche verificarsi
per la pertosse e per il morbillo.
Attualmente se l'attenzione è rivolta alla vaccino-profilassi
dell'epatite virale B, largamente in corso, le speranze invece sono
rivolte alla realizzazione di un vaccino per l'AIDS, per la malaria
e per la sclerosi multipla.
Mentre rilevanti erano e sono da ritenersi i progressi della microbiologia,
della farmacologia e della immuno-virologia, a che punto erano e sono,
in comparazione, le indagini diagnostiche, radiologiche, nucleari,
ultrasoniche e strumentali?
Penso di poter onestamente rispondere che il progresso è evoluto
pressoché di pari passo. Sarò breve, limitandomi solo
ad elencare le più note ed applicate: ultrasuonografia Doppler
arteriosa e venosa, arterio-flebografie, fotopletismografia, cateterismo
cardiaco e dei vasi, ecocardiografia e vettorcardiogramma, angiocardiografia,
angiografia digitalizzata, esami endoscopici, tomografia assiale computerizzata,
tomografia computerizzata a raggi X e tomografia computerizzata ad
emissione di protoni; risonanza magnetica nucleare, eco-scintigrafia
di vari organi e ghiandole, agobiopsia epatica-renale-splenica-prostatica
mirata, broncoscopia e broncografia, colangiografia percutanea transepatica
e colangiopancreatografia, angioplastica percutanea, litotrissia di
calcoli renali e biliari con onde d'urto, il pancreas artificiale,
applicazione di pace-maker, densitometria ossea, ecc. Questo profluvio
di indagini (ed ovviamente non ho accennato ai contemporanei progressi
della Chirurgia) non sempre ha agevolato ed agevola la diagnosi, che
compete alla intelligenza, alla preparazione e alla esperienza del
medico, ma ha comportato e comporta, talvolta, un inutile dispendio
di energie umane e finanziarie, perché non razionalmente finalizzate
od interpretate o perché superflue o ripetitive.
E per chiudere il discorso sulle "luci", una rapida scorsa
è d'obbligo sui risultati della bioingegneria nel campo medico,
destando essa grande interesse ed entusiasmo ma anche non poche preoccupazioni.
A partire dalla conquista dell'informatica e della telematica, le
ricerche biotecnologiche hanno consentito e consentono la diagnosi
prenatale di alcune emopatie e malformazioni, la identificazione dei
geni responsabili della malattia fibrocistica del pancreas, della
distrofia muscolare di Duchenne, della corea di Huntington, pervenendo
fino al mappaggio genico dei singoli cromosomi (Larizza).
Per la fine del secolo è prevista la mappatura di tutto il
genoma umano.
La bioingegneria ha altresì permesso la sintesi della somatostasina,
che inibisce la liberazione dell'ormone della crescita; la sintesi
batterica dell'insulina ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante,
come è avvenuto per la realizzazione del vaccino dell'epatite
B. Sempre con la stessa tecnica si è pervenuti alla biosintesi
batterica dell'ormone somatotropo, mentre con la biosintesi per clonazione
sono stati realizzati i tre interferoni: l'alfa dai leucociti, il
beta dai fibroblasti ed il gamma dai linfociti attivati.
E sempre con le stesse tecniche sono state prodotte le interleuchine,
la timosina, l'urochinasi, il fattore Vili della coagulazione (globulina
antiemofilica) ed il fattore IX, la cui carenza è responsabile
dell'emofilia B. Di prossima realizzazione sembrerebbe essere la biosintesi
dello attivatore tessutale del plasminogeno, tanto atteso dai cardiologi
e sospirato dai candidati all'infarto miocardico.
Recentissima, infine, è la notizia della scoperta da parte
di due ricercatori dell'Università americana di Stanford, Gilbert
Chu ed Elaine Chang, di una proteina organica (la cui carenza sarebbe
responsabile di una rara malattia ereditaria: lo xeroderma pigmentosum)
che, influendo sui processi riparativi, agirebbe positivamente sulle
alterazioni del DNA genetico. Chiuderei a questo punto il discorso
perché alla elencazione delle "luci" non seguissero
le "ombre" che, oggi, si condensano nella non desueta espressione
di "crisi della Medicina"; quasi una epigrafe per una storica
professione, dalle più antiche nobili ed umane tradizioni.
Quali le cause? Esse sono figlie dell'insipienza, del pressappochismo,
della superficialità, della improvvisazione e della incompetenza
delle amministrazioni politiche e demagogiche, della situazione socioeconomica,
delle riforme e controriforme sanitarie.
Da qualche decennio si parla e si discute animosamente di pletora
medica e si implorano rimedi e provvedimenti, proponendo il "numero
chiuso" per l'accesso alla Facoltà medica. In contrapposto
il numero degli aspiranti (anche se da un paio d'anni il fenomeno
sembra, per forze naturali, affievolirsi) è cresciuto vertiginosamente,
essendo le porte rimaste ostinatamente aperte. Con qualsiasi diploma
di scuola medio-superiore, senza preventivi test attitudinari e criteri
di valutazione, l'aspirante è iscritto al primo corso.
Se i responsabili della istruzione e della salute pubblica ricordassero
e riflettessero che solo un quarto degli immatricolati perviene alla
laurea alla fine del sesto corso e che la maggioranza va ad accrescere
la fiumana del fuoricorso e che di essa la massima parte perviene
al dottorato oltre i trent'anni d'età dovrebbero, secondo buon
senso, bloccare lo straripamento con dighe e paratie stagne, ma la
legislazione e le politiche demagogiche persistono nella latitanza.
Nell'iter universitario lo studente si troverà presto di fronte
ad una inadeguatezza delle strutture, ad una deficienza di ausili
didattici, allo studio di materie in parte stantie, alla impossibilità
o quasi di partecipare ad esercitazioni tecnico-pratiche ed erudirsi
in metodiche semeiologiche, di fronte ad alcuni docenti di livello
opinabile e, soprattutto, non aperti al dialogo, alla mancanza di
un insegnamento di carattere etico-psicologico ed epistemologico,
acquisendo una educazione prevalentemente teorico-nozionistico ed
informativa.
Con tale bagaglio e senza alcun preventivo tirocinio-pratico perviene
alla laurea; superata poi una parvenza di esame di Stato il neo-dottore
è autorizzato all'esercizio professionale, alle prese cioè
con la medicina di base. Ma i più optano per una specializzazione,
quasi sempre tra le più ambite economicamente, e questa volta
la loro preparazione è indirizzata in senso unilaterale, cioè
settorialmente, con la implicita e logica conseguenza di una cultura
non globale ed una visione riduttiva della unità somato-psichica
biologica.
"Si va così risuscitando nella prassi professionale di
basso livello - ammoniva Condorelli - l'orientamento organicistico
della medicina preippocratica. Non è l'uomo malato bensì
il suo cuore, o il fegato, o il rene, o l'occhio, o il polmone: e
si ignora, nonché la personalità umana, persino la stessa
unità somatica del sofferente".
Ma già alcuni decenni fa Alexis Carrel scriveva: "L'avvenire
della Medicina è subordinato al concetto dell'uomo. La sua
grandezza dipende dalla ricchezza di questo concetto. Anziché
limitare l'uomo a certi suoi aspetti, deve abbracciarlo tutto quanto,
cogliendo il corpo e lo spirito nella unità della loro realtà".
Nel marzo del 1984 in una assise di autorevolissimi personaggi di
varia estrazione culturale, organizzata dalla Fondazione Carlo Erba
e dalle Università di Milano, Pavia e Brescia, si discusse
ampiamente del problema e furono avanzate concrete proposte per la
riforma della Medicina.
In precedenti e successivi dibattiti (specie nei Congressi nazionali
della Società di medicina interna) se ne ribadì l'urgenza,
ma gli appassionati appelli di Villa, Condorelli, Beretta Anguissola
et Al. rimasero persistentemente inascoltati.
E Beretta Anguissola, nell'intento di alleviare il disagio degli studi
medici propose la creazione di Comitati didattici, costituiti da docenti
e discenti, mentre Austoni redasse uno schema di apprendimento sperimentale
per una più consona corrispondenza dell'insegnamento universitario
alle nuove esigenze della professione e della società, con
la obbligatorietà per i neo-laureati della iscrizione ai corsi
di formazione permanente, in strutture qualificate, adeguatamente
attrezzate e finanziate dallo Stato. Voci clamanti nel deserto! A
dischiudere la mente e l'animo a qualche speranza è giunta
la notizia della approvazione da parte del Senato di un disegno di
legge per la istituzione di un Ministero dell'Università e
delle ricerche scientifica e tecnologica.
Intanto la situazione rimane ibrida a tal punto che "motu proprio"
le immatricolazioni a Medicina da un paio d'anni vanno affievolendosi.
Riprendo il discorso sul neo-dottore per seguirlo nel suo cammino
post-laurea.
Chi ha optato per la medicina di base affronterà una quantità
e qualità di prestazioni impostegli, impelagato nelle trafile
cartacee delle burocratiche unità sanitarie locali, appannaggio
dei politici, arbitri della assistenza dentro e fuori degli Ospedali;
e viene così conculcato quel diritto di scelta che ha caratterizzato
da sempre il rapporto fiduciario tra medico e malato. E quale sarà
il suo domani senza quell'aggiornamento culturale e tecnico-pratico
che lo metta al corrente delle nuove biotecnologie e metodiche semeiologiche,
sempre più avanzate?
Lo stesso discorso vale per lo specialista. Solo l'amor proprio, le
etiche e/o religiose responsabilità, un sentimento umanitario
ed una mentalità ippocratica indurranno l'uno e l'altro ad
un auto-apprendimento che per essere solo teorico non potrà
che essere parcellare.
Vuoto legislativo, deficienza di strutture, di mezzi finanziari e
di ausili didattici, l'interesse economico a non interrompere l'attività
professionale impediscono quel l'aggiornamento periodico di formazione
permanente, pur previsto dalla riforma sanitaria e dal codice deontologico.
E la situazione negli Ospedali è migliore o l'immagine speculare
di quella esterna?
Una legge discussa e discutibilissima ha chiuso gli Ospedali psichiatrici
con le conseguenze che i mass-media e la stampa quotidiana hanno segnalato
e stigmatizzato. L'aumento della sopravvivenza ha sensibilmente accresciuto
il numero degli anziani, malati o no; ma adeguate strutture di accoglimento
per essi sono pressoché inesistenti. E negli altri settori
ospedalieri, tranne eccezioni, la situazione non è idilliaca.
Il rapporto tra personale sanitario ed infermi risulta spesso compromesso
da atteggiamenti e comportamenti contrastanti; i rapporti tra il personale
sanitario (medico e paramedico) dello stesso reparto, talora in dissidio,
non consentono univocità di pensiero e di condotta; quelli
tra le diverse équipes non sempre sono di simpatia e di leale
collaborazione. Con la eliminazione del Consiglio dei Primari anche
la Direzione Sanitaria risulta decapitata ed avulsa dal contesto amministrativo
e decisionale se non per meri compiti igienico-sanitari e disciplinari.
Anche per gli Ospedali si annotano deficienze delle strutture e dei
servizi (talora fatiscenti come documentano le cronache televisive);
scarsezza di ausili diagnostici e di apparecchiature, e quelle presenti
in parte viete ed in parte in intermittente efficienza, talvolta mancanza
o scarsezza di medicinali e materiali di medicazione, deficienza di
personale tecnico, altamente qualificato, per l'esercizio di sofisticati
presidi diagnostico-terapeutici, carenza di personale sanitario anche
per un esagerato e non sempre giustificabile assenteismo; un diritto
allo sciopero opinabilissimo quando a soffrirne le conseguenze sono
degli utenti malati o sofferenti; un polisindacalismo litigioso; atteggiamenti
del personale sanitario non sempre consoni con una educazione e formazione
etico-psicologica e mentale, indispensabili per una professione che
non deve vedere nel malato una entità numerica, ma una entità
psico-fisica, diversa per età, cultura, ceto, religione, ideologie,
razza, temperamento e comportamento. Si è pertanto avvertito
il bisogno della istituzione dei tribunali dei diritti del malato
e dei comitati etici ospedalieri, con funzioni di sorveglianza e di
tutela perché sia prestato una assistenza qualificata ed umana
e per denunciare carenze, ritardi, omissioni e soprusi, qualora si
verificassero.
Non dovrebbe esservi giustificazione ché un caso di urgenza
medico-chirurgica o specialistica, senza preventivi solleciti controlli
dei medici del reparto di destinazione, sia rinviato, per i provvedimenti
di emergenza, al giorno successivo perché arrivato al pronto-soccorso
di sera tardi o di notte; come non può essere giustificato
l'evento che un traumatizzato non venga tempestivamente sottoposto
alle indagini radiologiche per il guasto, non imprevisto, delle apposite
apparecchiature; che un malato debbo attendere più giorni perché
arrivi l'esito degli esami di routine e che lo stesso venga invitato
ad acquistare medicinali di cui la farmacia ospedaliera, sia pure
provvisoriamente, ne è sprovvista; né ritengo sia giustificabile
il persistente o frequente sistema di servirsi di laboratori e studi
privati per l'espletamento di indagini diagnostiche, col dubbio, non
sempre infondato, di sospette convenzioni; non è deontologico
che un paziente sia visitato dopo giorni di ricovero e saltuariamente
durante il periodo di degenza dal capo-reparto, trasgredendo egli
in tal modo un suo imprescindibile dovere e conculcando un sacrosanto
diritto del malato.
E' la débâcle di una assistenza che promuove l'esodo
verso cliniche ed istituzioni private, ove l'ammalato trova più
sorrisi, più sollecitudine, più rispetto della sua "privacy".
E' la débâcle di una ortodossa assistenza intesa in senso
ippocratico. E' una débâcle che demoralizza e mortifica
quanti della famiglia ospedaliera, consci di avere adempiuto con comprensione,
abnegazione e altruismo sempre il proprio dovere, si vedono coinvolti
nell'ingranaggio di una assistenza tacciata spesso di disumanità.
Ho parlato forse più di "luci" che di "ombre";
e pure a leggere i quotidiani ed i rotocalchi e vedere la televisione
queste rivestirebbero, talvolta, il ruolo delle tenebre!
E' mia convinzione, però, che sia prudente non enfatizzare
tale anacronistica o paradossale situazione per non accentuare il
discredito popolare sulle istituzioni pubbliche ospedaliere e sulle
unità sanitarie locali.
Al termine dirò di sfuggita degli effetti negativi e delle
potenziali, pericolose implicazioni della ingegneria genetica, già
da me analizzati in un recente articolo (Il leccio, 1988, n. 2, pag.
3), riportando sul delicatissimo ed interessantissimo problema alcuni
non univoci pareri di Autorità della Scienza medica.
Sul rapporto rischi/benefici della bioingegneria e sulla eventuale
costituzione e formazione di Comitati etici di controllo, Rita Levi
Montalcini scrive: "Stiamo vivendo un momento di eccessivo allarmismo
nei confronti dei progressi scientifici. Credo che non vadano dimenticati
in queste valutazioni i vantaggi delle nuove tecniche biologiche e
credo che su di esse non possono esprimersi che persone con competenza
specifica". Ma nel timore che l'entusiasmo e/o l'interesse per
la ricerca biotecnologica oltrepassi i limiti della morale e della
legge, l'altro premio Nobel, Renato Dulbecco, asserisce: "Non
credo nell'auto-disciplina degli Scienziati, sono uomini come lo sono
io stesso, con interessi e coinvolgimenti tali da non poter garantire
libertà di giudizio. A decidere sul proseguimento ed uso di
certe tecniche dovrebbero essere Comitati formati da non Ricercatori".
La ricerca di nuovi farmaci sempre più attivi, ma sempre potenzialmente
più pericolosi, la produzione di vaccini mediante il DNA ricombinante,
la contraccezione, la inseminazione artificiale e la fecondazione
in vitro ed extracorporea, la diagnosi prenatale mediante sonde DNA
di malattie ereditarie, gli ipotizzati interventi sulle cellule somatiche
ed elettivamente germinali per rimediare ad alcune alterazioni ereditarie,
nonché la prospettata terapia genetica, per gli impliciti riflessi
eticogiuridici, non possono che provocare perplessità, paure
e diversità di giudizio, dovendo la sperimentazione sull'uomo
avere una finalità euristica, rivolta cioè alla cura
ed al mantenimento della salute e che l'interesse clinico del singolo
paziente non può essere precluso da un profitto generale della
Scienza (Claude Bernard).
In un recente pregevolissimo articolo (Giornale di Clinica Medica,
1988, n. 1, pag. 3) il clinico medico prof. Larizza, analizzando acutamente
lo spinoso, complesso e controverso problema delle manipolazioni genetiche,
ha proposto la istituzione di un codice di comportamento che ne disciplini
le attività e che non consenta di violentare la natura, avvertendo
che "i limiti fra il lecito e l'illecito, fra il razionale e
l'irrazionale, fra la scienza e la religione, fra il bene e il male,
fra la morale e il suo contrario, già di per sé labili,
potrebbero alla fine diventare così impercettibili da legittimare
ogni trasgressione".
E con un'altra sua considerazione e raccomandazione, di alto significato
etico-deontologico e di tono quasi implorativo, chiudo il discorso:
"i campi fra fantascienza e realtà si vanno facendo sempre
più indistinti; non si so più dove cominci l'una e finisca
l'altra e viceversa ... la conoscenza non deve offendere il senso
religioso della vita ed uccidere la poesia o quel poco dì poesia
che ancora è rimasto della vita".