§ Le scoperte e lo stupore

IL GRIFO BENIGNO DELLA PITTURA




Maurizio Nocera



Il Raffaele Spada che io conosco è un artista che ho incontrato solo qualche anno fa. Mattutino, boreale quasi, quotidianamente pronto alle prime luci delle nostre albe idruntine. Pochi battiti di palpebre e subito il cavalletto.
Me lo vedo spesso, come uno di quegli antichi maestri fiorentini, nello studio-bottega tra nuvolette di fumo, corte, tele, silicei profumi di sabbie dorate, terre, colori, luci. Oltre ogni limite è l'amore di quest'artista per la luce, non per quella artificiale, non per quella manipolato dall'uomo, ma per la astrale, la solare, per quella nostra baldanza luce che gioca, quando gioca, con le mille e mille rifrangenze possibili/inspiegabili sulla pietra (la pietra la pietra la pietra - avrebbe potuto scrivere Bodini - la pietra gialla, la pietra calda di via delle bombarde, in un sud/sud emisferico, in un mattino d'inverno di soli saraceni), pure quella angariata di certi vecchi angoli barocchi di terra d'Otranto. Con questa luce egli amo lavorare, giocare sulla tela appunto, nella solitaria quiete tufacea, in nascondigli messapici, e trasportarla senza riposo con infiniti, sottilissimi veli, impercettibili quasi; con essa poi inventa, crea, dà senso a quelle sue tele ormai già materiche, ormai già inspessite di figure sfangate, di vortici turbolenti, di sostrati di puro colore, ma al contempo leggerissime, leggerissime come voli voli voli della speranza (oh, Calvino, l'incanto della sua prima lezione americana).
Spada me lo vedo davanti alla tela non nevrotico, non eccessivo, non come uno di bordo - pure in lui, però, gonfiano sconcertanti stranezze premonitrici -ma metodico, come uno che vuole camminare sempre sulle certezze, con tempi e luoghi che sembrano non dover cambiare mai, che sembrano fissarsi in espansione in quei suoi azzurri verdi rossi sconfinati. Un uomo-città-boscoforesta esplode nei suoi cubi volanti (oh, Marquez, lo stupore della scoperta dell'afitica Macondo).
Dire che l'opera di Raffaele Spada sia il frutto di un rito sacerdotale è forse cosa ovvia, ma chi so, ad esempio, delle mille possibili trasfigurazioni che può un uomo, un artista, quest'artista davanti alla tela.
Me lo vedo come un grifo benigno dal lungo artiglio pennellato che svolge svolge svolge infiniti 8, ora ne svolge uno piccolo, ora uno un po' più grande, ora uno decisamente grande, e poi un altro un po' meno grande, medio, tomo nuovamente al piccolo, e ad un altro nuovamente grande, che copre l'intera tela, che va oltre essa, che prende l'intero studio-bottega, che ritorna nella suo mano-artiglio, intanto che sulla tela è cresciuta, cresce la trama pittorica in un incessante intreccio di questo magico numero, in un continuo smagliare le terre, le sabbie, in un insistente tessere e ritessere l'ordito di una stupefacente fantasia-paesaggio di luoghi storie della memoria (oh, Borges, le sue immaginifiche false finzioni).
Me lo vedo, il grifo benigno, la suo mano-artiglio, il suo artiglio-pennello, colare colore, fluire lungo tutto il corpo, attraverso i centomila canaletti rosso-blu fino alle selvatiche setole del segno. Poi lentamente, molto lentamente, granello di sabbia dopo granello di sabbia, abrasione dopo abrasione, incisione dopo incisione, la ricerca di un colore sempre più essenzializzato, il velo i veli le velature su veli sempre più aerei, e poi ancora un estenuante lavoro quasi di orafo antico, quasi di monaco miniaturista basiliano, toccare, far apparire sull'antico vergine lino la preziosità degli effetti ricercati, la miriade verderamata di gemme intrappolate dal colore. E' questo il momento in cui il gioco delle luci sulla/nella tela di Raffaele Spada diventa magia, trans, oltrepassamento. La bellezza ammaliatrice dell'opera sorregge ora anche i contenuti della stessa: la dicotomia gioia-dolore, la lotta tra il vecchio angelo e il decrepito diable, il vuoto spettrale della voragine e l'incanto di un cielo grigiazzurro squarciato a perenne giorno, e poi un'umanità sempre cubicizzata, sempre pupizzata, e la poesia di alberi de-strutturati, e infine una certa storia, un segno classico, neoclassico, oltreclassico, esaltano sulla tela la simbologia tutta misterica, sensitiva dell'artista, la suo forza di stare dentro l'opera, in lotta per chi vince.
E' impossibile pensare all'opera di Spada come all'evento di un guizzo veloce, di un'idea colta al volo, di un'improvvisazione risolta tecnicamente, è il risultato, invece, strabiliante,' di un lungo cercare, di un lungo soffrire, di un lungo andare oltre, al di là di schemi e schematismi.
In un angolo buio una tela vive di luce proprio, perennemente: un infante, bellissimo, roseo, divino, scende dal cielo mareazzurro spiegando possenti ali di aquila.

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