§ Sviluppo & imprese

Radici amare dell'economia meridionale




Natalino Irti



Il Governatore della Banca d'Italia ha recentemente riproposto l'antica questione meridionale come vera e propria questione nazionale: che tocca il centro dello Stato e dell'economia italiana. Nessuno può scansarla o dimenticarla, neppure il Nord, che vede ridurre il numero dei disoccupati e aprirsi il mercato industriale e finanziario verso l'orizzonte europeo.
Il Governatore si è ristretto (come doveva) ai profili dell'intermediazione finanziaria, non mancando di segnalare che il disavanzo commerciale dell'area "è in larga misura coperto da risorse finanziarie indirizzate alle regioni meridionali a titolo di trasferimenti"; e che tale afflusso "ritorna in parte al resto del Paese sotto forma di domanda". Inoltre, ha sollecitato "l'incontro fra l'imprenditore di talento e la banca che lo sappia individuare e sostenere con una capacità di assistenza finanziaria estesa a tutte le esigenze dell'azienda".
In queste parole di Azeglio Ciampi abbiamo sentito riecheggiare i temi decisivi della questione meridionale; ed è parso di riudire le considerazioni sempre attuali di Francesco Saverio Nitti e di Antonio De Viti De Marco. Intorno ad esse non si può non consentire. Le grandi banche del Nord, ponendosi accanto agli istituti meridionali ed alle minori banche locali, sono chiamate ad offrire un'esperienza che non si impara nelle scuole di formazione né si elargisce nei programmi politici. E' un'esperienza moderno, che, con varietà organizzative, risponde a tutti i bisogni dell'impresa: dal consiglio tecnico all'analisi di bilancio, dal finanziamento agli strumenti parabancari. Sarebbe grave, ed assai pericoloso per la stessa espansione dell'industria settentrionale, se i grandi istituti del Nord si volgessero soltanto oltre i confini, e distogliessero attenzione ed impegno dai problemi del Sud. Anche questo è un terreno su cui possono attuarsi le "sinergie" delle tre Bin, che l'Iri, quale comune azionista di maggioranza, ha mostrato di voler promuovere e stimolare. Vi sono problemi rimasti a ragione estranei al discorso del Governatore e che pure stabiliscono le condizioni fondamentali di ogni progresso del Sud. La questione meridionale si è identificato, per circa un secolo, con la questione agraria, cioè con i conflitti tra lavoro e proprietà terriera. La riforma degli anni '50 ha dato soluzione al problema, segnando il declino del Sud latifondista e baronale.
Si sono invece riaperte, con acuta gravità, le questioni dell'ordine pubblico e del clientelismo politico. Le garanzie elementari dello Stato di diritto sono messe in dubbio: integrità dei beni e libertà della persona corrono quotidiani pericoli.
Il rapporto tra classe politica ed elettorato passa per i piccoli e grandi favori, e costituisce la fitta trama delle clientele. A questi problemi occorre dedicare non soltanto leggi speciali e organi straordinari, ma un nuovo e profondo dibattito in tutte le sedi, parlamentari e culturali, politiche ed economiche.
E' davvero allarmante, per recare un solo esempio, che nelle regioni meridionali si progettino nuove facoltà giuridiche o umanistiche, produttrici di disoccupazione, di folle sbandate e deluse, su cui si eserciterà fatalmente la seduzione del clientelismo politico e del torbido affarismo.
"Invece - ripeteremo col Nitti dell'inizio secolo - è l'educazione industriale che bisogno formare". E' l'ora di un nuovo meridionalismo, che sappia affrontare organicamente questi ed altri problemi del nostro Sud.

Benessere senza idee

L'Occidente ha percorso il 1989 in una situazione che non ha precedenti negli ultimi decenni: almeno per una parte del Paese, è finita l'emergenza economica, ma non si sa bene che cosa fare nel dopo-emergenza. I danni causati al sistema economico dalle durissime tempeste petrolifere sono stati ormai largamente riparati. Dunque, potremmo ripartire per lunghi percorsi. Non abbiamo, però, le idee chiare sulla direzione da prendere. Ci manca, in altre parole, sia un'urgenza immediata (ma nuova!) sia un obiettivo di lungo periodo sufficientemente entusiasmante, sul quale concentrare le nostre attenzioni. Tra i grandi Paesi, solo in Italia questo obiettivo sarebbe facilmente individuabile nel risanamento della finanza pubblica (problema non nuovo, ma emerso, cioè "di moda", di recente) inteso come occasione di trasformazione civile e sociale. Le forze politiche, tuttavia, insistono nel dare a questo problema un'impostazione eminentemente contabile, invece di farne l'occasione per costruire un modello del nostro futuro.
Negli anni '50 e '60, per l'Italia e per l'intera Europa, il modello era invece ben chiaro: democrazia politica e benessere economico erano considerati le strutture portanti, indispensabili e parallele, di una società più ugualitaria. Il miglioramento del tenore di vita individuale, mediante l'adattamento della nostra realtà di abitudini di consumo provenienti dall'America, era considerato una tappa importante di questo cammino ad un tempo di crescita economica e di crescita civile. Si era certi, inoltre, che una sapiente miscela di libertà di iniziativa economica e di direttive dal centro avrebbe garantito un'espansione continua, elevata e senza scosse, creando un sistema in cui tutti avrebbero trovato lavoro e goduto di un reddito adeguato. Oggi, invece, l'aumento illimitato dei consumi viene chiamato in causa dal sorgere del problema ecologico; l'ideale di una maggiore uguaglianza è compromesso dal manifestarsi di nuove forme di povertà; una fascia considerevole di disoccupati non appare riassorbibile dall'attuale espansione economica, oppure - è il caso americano - risulta riassorbibile solo a salari estremamente bassi e in lavori di scarsa qualificazione. Del resto, hanno perduto ogni credibilità i modelli alternativi che hanno ci lungo infiammato la sinistra, e cioè quello sovietico e quello maoista, mentre le nuove proposte liberiste, nelle due varianti reaganiana e tatcheriana, si sono dimostrate soprattutto buone come cure disincrostanti per economie sclerotizzate, ma non appaiono proponibili, allo stato attuale, come forme permanenti di organizzazione dell'economia e della società occidentale.
In sostanza, non sappiamo bene che cosa inventare. C'è un "vuoto di opposizione", come ha scritto Gianni Vattimo, ma c'è anche un "vuoto di maggioranza", con coalizioni di forze politiche che sono solo costrette a stare insieme (formule italiane, ma anche americane, con alleanze irrequiete di protezionisti estremi e di liberisti spinti). L'azione politica si esaurisce casi nella gestione del potere, con la neutralizzazione reciproca dei caratteri più distintivi dei rispettivi programmi e l'assenza di fatto di una progettazione del futuro.
Una conseguenza della scarsità di progetti è che ovunque la politica si fa sugli scandali. Se da noi l'attenzione è, ad esempio, sull'Irpiniagate, in Svizzera si tratta di narcodollari, e in Giappone di tangenti. Il ritrovato benessere materiale si accompagna così al deterioramento di un patrimonio di idee, di principii, di programmi. Non è bastato certo il saggio su Proudhon o l'adozione di qualche idea liberista per rilanciare un progetto socialista; i partiti laici, dal canto loro, hanno un gran bisogno di reinterpretare il liberismo; i comunisti assistono al crollo dell'ideologia maoista, mentre quella marxiana sbocca (non era, infatti, un'"eresia" occidentale?) nel mare mosso della socialdemocrazia; in campo cattolico, la confusione sul tipo di società desiderabile è assai grande; i verdi propongono istanze largamente condivise, ma non riescono a farne un programma coerente e credibile. Lo stesso "1992", la più articolata risposta europea ai problemi del futuro, viene prevalentemente vissuto come qualcosa di esterno, un cambiamento di regole che dovrebbe genericamente permettere a tutti di diventare più ricchi, senza sapere poi che fare di questa maggiore ricchezza: i rapporti tra pubblico e privato, i grandi divari territoriali, l'estendersi dell'economia criminale e tanti altri problemi non vengono affatto affrontati da questa nuova ricetta europea. Questa situazione di stanchezza intellettuale è transitoria? Vorremmo crederlo. Il 1990 può forse segnare il momento della presa di coscienza di quest'estrema povertà di idee e di programmi e della pericolosità per una società avanzata del venir meno di ideali collettivi per i quali valga la pena di impostare progetti di lungo periodo.

Il prezzo della qualità e il prezzo della crescita

L'Italia ha successo, va avanti, si afferma. In forme diverse ne abbiamo la consapevolezza, tanto che può persino accadere - cosa non frequente nella nostra storia - che ne siamo orgogliosi e lo diamo a vedere. Eppure viviamo questa stagione con ansie e con inquietudini, come se la ricchezza da sempre inseguita e ora raggiunta si fosse rivelata un inganno. Da questa constatazione muove un'analisi del Censis sulla situazione sociale del Paese. Ed è un avvio senza dubbio stimolante. Tanto più che, per chi se la sente di decifrare una prosa ermetica, gli ultimi rapporti del Centro mostrano una maggiore attenzione ai fenomeni più significativi dell'evoluzione radicata e durevole, riuscendo a selezionarli con più rigore da quelli che, invece, sono effimeri, frutto di mode caduche.
Perché, dunque, più gli italiani diventano ricchi e più mugugnano? Se la sintesi non tradisce il pensiero del Censis, potremmo dire che gli italiani si stanno accorgendo che la ricchezza non basta a conquistare una qualità della vita che si credeva implicita nella conquista di un più elevato reddito. Le incomparabili atmosfere che potevano aver fatto desiderare Venezia o Capri o Taormina, come la tensione che sa trasmettere un Riccardo Muti quando dirige MahIer, non sono beni moltiplicabili in funzione della capacità di spesa della gente al pari di uno stereo o di un abito firmato: così come erano stati sognati non esistono più, e il constatare che si è arrivati troppo tardi è motivo di risentimento e di insoddisfazione.
C'è da chiedersi perché questo malcontento sociale non sia emerso negli altri Paesi che ci hanno preceduto nella conquista di un reddito più elevato. Il Censis non offre una risposta diretta a questa domanda, ma la si può trovare nella sua analisi nella quale individua il "riconoscimento delle reciprocità" come un passaggio fondamentale che l'Italia deve ancora superare. Per tale si intende, in buona sostanza, la disciplina nell'uso dei beni che l'aumento della ricchezza ha offerto alla portata di tutti.
Se oggi tutti possono avere I' automobile, questo non significa che tutti possono recarsi in automobile nel centro delle città; se tutti vogliono un'occupazione, non si può credere che tutti possano trovarla vicino a cosa e assicurata per tutto la vita; se si vuole l'aria pulito, non si può pretendere di non pagare il costo aggiuntivo richiesto dai processi produttivi che evitano la polluzione. Il buon senso può fornire innumerevoli altri esempi, a ciascuno dei quali corrisponde, però, una resistenza da parte di chi non intende pagare quel prezzo, sia esso un costo economico o una limitazione amministrativa.
Il riconoscimento delle reciprocità si scontra così con l'individualismo. E poiché l'individualismo si afferma quando al potere politico non viene riconosciuto la capacità di tutelare equamente gli interessi generali della collettività, si sarebbe indotti a leggere l'analisi del Censis in chiave di pessimismo ed il suo sbocco in chiave di utopia. Invece non è così. Pur tenendosi alla larga da ogni interpretazione politica, il Centro rileva una tendenza del nostro sistema socio-economico ad "uscire dall'indistinto", ossia a riordinare, a razionalizzare, a precisare i termini di una crescita, non soltanto economica, portata avanti con impegno e generosità, ma anche con irruenza e confusione. La soddisfazione per i progressi compiuti si accompagno ad un bisogno di ordine sentito come esigenza funzionale, vale a dire come premessa perché dalle conquiste economiche, culturali, sociali degli anni passati si possa trarre tutto il potenziale di qualità della vita. Questo bisogno di ordine o razionalità potrebbe essere considerato il sintomo di un processo di maturazione se il Censis non ne attribuisse l'origine alla riaffermazione del ruolo e dei valori dell'economia reale. Secondo la sua interpretazione delle cose, è l'impresa che negli anni a cavallo tra il '70 e l'80 ha costretto a rifare i conti, ad abbandonare le utopie, a ricollocarsi sulla stesso carreggiata sulla quale stavano correndo le altre democrazie industriali dell'Occidente. Si potrebbe discutere all'infinito se sia vera questa tesi o piuttosto il suo contrario, ossia che un diverso clima culturale ha ripristinato l'attenzione dovuta alla funzione ed alle esigenze dell'impresa. Certo è che il dissesto economico era giunto a tal punto da provocare comunque una reazione, la quale poi può essere propagato anche al di là dell'impresa e al di là dell'economia. E' comunque un fatto che ha investito il sindacato, ha cominciato a modificare il rapporto tra cittadino e Stato, ha spento i movimentismi, ha indotto una verifica critica dell'efficienza delle istituzioni. Ha reso meno improbabile che la crescita del benessere, anziché rafforzare l'individualismo, lo sottometta a quelle esigenze di ordine e di razionalità dalle quali lo stesso benessere dipende.
D'altra parte, la composizione tra domanda e offerta non può riguardare solo i fatti economici, così come il censo non può essere l'unico criterio per razionare la distribuzione di consumi non riproducibili, di beni materiali, di servizi pubblici, di prestazioni sociali. Pertanto, Venezia o Firenze o Capri per tutti possono essere una conquista civile, resa possibile dal progresso economico; Venezia o Firenze o Capri per tutti a Ferragosto sono uno sperpero economico e un segno di inciviltà. Se è questa la direzione verso la quale il Censis vede incamminati la mentalità e i comportamenti degli italiani, speriamo solo che stia vedendo giusto.

E per scenario il Duemila

Mario Monti

La "pressione da 1992" sulla classe politica è destinata ad essere così importante ed efficace, da giustificare ogni cura affinché non venga interrotto. Essa si interromperebbe, almeno temporaneamente, se dovessero venire reintrodotte misure di protezionismo finanziario. La loro reintroduzione non sarebbe improbabile ove si verificassero tensioni sul fronte dell'inflazione o della bilancia dei pagamenti. Queste tensioni si verificherebbero nel caso di un surriscaldamento dell'economia italiana, il danno strutturale che ne deriverebbe - per l'allentamento di quella pressione sulle decisioni politiche di risanamento del settore pubblico - sarebbe maggiore del beneficio congiunturale di un mezzo punto percentuale di crescita in più del prodotto interno lordo, Ecco perché, da qui al 1992, è auspicabile una politica congiunturale di gestione della domanda improntata ad una cautela particolare nell'evitare il surriscaldamento dell'economia italiana.

 


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