Il
Governatore della Banca d'Italia ha recentemente riproposto l'antica
questione meridionale come vera e propria questione nazionale: che tocca
il centro dello Stato e dell'economia italiana. Nessuno può scansarla
o dimenticarla, neppure il Nord, che vede ridurre il numero dei disoccupati
e aprirsi il mercato industriale e finanziario verso l'orizzonte europeo.
Il Governatore si è ristretto (come doveva) ai profili dell'intermediazione
finanziaria, non mancando di segnalare che il disavanzo commerciale
dell'area "è in larga misura coperto da risorse finanziarie
indirizzate alle regioni meridionali a titolo di trasferimenti";
e che tale afflusso "ritorna in parte al resto del Paese sotto
forma di domanda". Inoltre, ha sollecitato "l'incontro fra
l'imprenditore di talento e la banca che lo sappia individuare e sostenere
con una capacità di assistenza finanziaria estesa a tutte le
esigenze dell'azienda".
In queste parole di Azeglio Ciampi abbiamo sentito riecheggiare i temi
decisivi della questione meridionale; ed è parso di riudire le
considerazioni sempre attuali di Francesco Saverio Nitti e di Antonio
De Viti De Marco. Intorno ad esse non si può non consentire.
Le grandi banche del Nord, ponendosi accanto agli istituti meridionali
ed alle minori banche locali, sono chiamate ad offrire un'esperienza
che non si impara nelle scuole di formazione né si elargisce
nei programmi politici. E' un'esperienza moderno, che, con varietà
organizzative, risponde a tutti i bisogni dell'impresa: dal consiglio
tecnico all'analisi di bilancio, dal finanziamento agli strumenti parabancari.
Sarebbe grave, ed assai pericoloso per la stessa espansione dell'industria
settentrionale, se i grandi istituti del Nord si volgessero soltanto
oltre i confini, e distogliessero attenzione ed impegno dai problemi
del Sud. Anche questo è un terreno su cui possono attuarsi le
"sinergie" delle tre Bin, che l'Iri, quale comune azionista
di maggioranza, ha mostrato di voler promuovere e stimolare. Vi sono
problemi rimasti a ragione estranei al discorso del Governatore e che
pure stabiliscono le condizioni fondamentali di ogni progresso del Sud.
La questione meridionale si è identificato, per circa un secolo,
con la questione agraria, cioè con i conflitti tra lavoro e proprietà
terriera. La riforma degli anni '50 ha dato soluzione al problema, segnando
il declino del Sud latifondista e baronale.
Si sono invece riaperte, con acuta gravità, le questioni dell'ordine
pubblico e del clientelismo politico. Le garanzie elementari dello Stato
di diritto sono messe in dubbio: integrità dei beni e libertà
della persona corrono quotidiani pericoli.
Il rapporto tra classe politica ed elettorato passa per i piccoli e
grandi favori, e costituisce la fitta trama delle clientele. A questi
problemi occorre dedicare non soltanto leggi speciali e organi straordinari,
ma un nuovo e profondo dibattito in tutte le sedi, parlamentari e culturali,
politiche ed economiche.
E' davvero allarmante, per recare un solo esempio, che nelle regioni
meridionali si progettino nuove facoltà giuridiche o umanistiche,
produttrici di disoccupazione, di folle sbandate e deluse, su cui si
eserciterà fatalmente la seduzione del clientelismo politico
e del torbido affarismo.
"Invece - ripeteremo col Nitti dell'inizio secolo - è l'educazione
industriale che bisogno formare". E' l'ora di un nuovo meridionalismo,
che sappia affrontare organicamente questi ed altri problemi del nostro
Sud.
Benessere senza
idee
L'Occidente ha
percorso il 1989 in una situazione che non ha precedenti negli ultimi
decenni: almeno per una parte del Paese, è finita l'emergenza
economica, ma non si sa bene che cosa fare nel dopo-emergenza. I danni
causati al sistema economico dalle durissime tempeste petrolifere
sono stati ormai largamente riparati. Dunque, potremmo ripartire per
lunghi percorsi. Non abbiamo, però, le idee chiare sulla direzione
da prendere. Ci manca, in altre parole, sia un'urgenza immediata (ma
nuova!) sia un obiettivo di lungo periodo sufficientemente entusiasmante,
sul quale concentrare le nostre attenzioni. Tra i grandi Paesi, solo
in Italia questo obiettivo sarebbe facilmente individuabile nel risanamento
della finanza pubblica (problema non nuovo, ma emerso, cioè
"di moda", di recente) inteso come occasione di trasformazione
civile e sociale. Le forze politiche, tuttavia, insistono nel dare
a questo problema un'impostazione eminentemente contabile, invece
di farne l'occasione per costruire un modello del nostro futuro.
Negli anni '50 e '60, per l'Italia e per l'intera Europa, il modello
era invece ben chiaro: democrazia politica e benessere economico erano
considerati le strutture portanti, indispensabili e parallele, di
una società più ugualitaria. Il miglioramento del tenore
di vita individuale, mediante l'adattamento della nostra realtà
di abitudini di consumo provenienti dall'America, era considerato
una tappa importante di questo cammino ad un tempo di crescita economica
e di crescita civile. Si era certi, inoltre, che una sapiente miscela
di libertà di iniziativa economica e di direttive dal centro
avrebbe garantito un'espansione continua, elevata e senza scosse,
creando un sistema in cui tutti avrebbero trovato lavoro e goduto
di un reddito adeguato. Oggi, invece, l'aumento illimitato dei consumi
viene chiamato in causa dal sorgere del problema ecologico; l'ideale
di una maggiore uguaglianza è compromesso dal manifestarsi
di nuove forme di povertà; una fascia considerevole di disoccupati
non appare riassorbibile dall'attuale espansione economica, oppure
- è il caso americano - risulta riassorbibile solo a salari
estremamente bassi e in lavori di scarsa qualificazione. Del resto,
hanno perduto ogni credibilità i modelli alternativi che hanno
ci lungo infiammato la sinistra, e cioè quello sovietico e
quello maoista, mentre le nuove proposte liberiste, nelle due varianti
reaganiana e tatcheriana, si sono dimostrate soprattutto buone come
cure disincrostanti per economie sclerotizzate, ma non appaiono proponibili,
allo stato attuale, come forme permanenti di organizzazione dell'economia
e della società occidentale.
In sostanza, non sappiamo bene che cosa inventare. C'è un "vuoto
di opposizione", come ha scritto Gianni Vattimo, ma c'è
anche un "vuoto di maggioranza", con coalizioni di forze
politiche che sono solo costrette a stare insieme (formule italiane,
ma anche americane, con alleanze irrequiete di protezionisti estremi
e di liberisti spinti). L'azione politica si esaurisce casi nella
gestione del potere, con la neutralizzazione reciproca dei caratteri
più distintivi dei rispettivi programmi e l'assenza di fatto
di una progettazione del futuro.
Una conseguenza della scarsità di progetti è che ovunque
la politica si fa sugli scandali. Se da noi l'attenzione è,
ad esempio, sull'Irpiniagate, in Svizzera si tratta di narcodollari,
e in Giappone di tangenti. Il ritrovato benessere materiale si accompagna
così al deterioramento di un patrimonio di idee, di principii,
di programmi. Non è bastato certo il saggio su Proudhon o l'adozione
di qualche idea liberista per rilanciare un progetto socialista; i
partiti laici, dal canto loro, hanno un gran bisogno di reinterpretare
il liberismo; i comunisti assistono al crollo dell'ideologia maoista,
mentre quella marxiana sbocca (non era, infatti, un'"eresia"
occidentale?) nel mare mosso della socialdemocrazia; in campo cattolico,
la confusione sul tipo di società desiderabile è assai
grande; i verdi propongono istanze largamente condivise, ma non riescono
a farne un programma coerente e credibile. Lo stesso "1992",
la più articolata risposta europea ai problemi del futuro,
viene prevalentemente vissuto come qualcosa di esterno, un cambiamento
di regole che dovrebbe genericamente permettere a tutti di diventare
più ricchi, senza sapere poi che fare di questa maggiore ricchezza:
i rapporti tra pubblico e privato, i grandi divari territoriali, l'estendersi
dell'economia criminale e tanti altri problemi non vengono affatto
affrontati da questa nuova ricetta europea. Questa situazione di stanchezza
intellettuale è transitoria? Vorremmo crederlo. Il 1990 può
forse segnare il momento della presa di coscienza di quest'estrema
povertà di idee e di programmi e della pericolosità
per una società avanzata del venir meno di ideali collettivi
per i quali valga la pena di impostare progetti di lungo periodo.
Il prezzo della
qualità e il prezzo della crescita
L'Italia ha successo,
va avanti, si afferma. In forme diverse ne abbiamo la consapevolezza,
tanto che può persino accadere - cosa non frequente nella nostra
storia - che ne siamo orgogliosi e lo diamo a vedere. Eppure viviamo
questa stagione con ansie e con inquietudini, come se la ricchezza
da sempre inseguita e ora raggiunta si fosse rivelata un inganno.
Da questa constatazione muove un'analisi del Censis sulla situazione
sociale del Paese. Ed è un avvio senza dubbio stimolante. Tanto
più che, per chi se la sente di decifrare una prosa ermetica,
gli ultimi rapporti del Centro mostrano una maggiore attenzione ai
fenomeni più significativi dell'evoluzione radicata e durevole,
riuscendo a selezionarli con più rigore da quelli che, invece,
sono effimeri, frutto di mode caduche.
Perché, dunque, più gli italiani diventano ricchi e
più mugugnano? Se la sintesi non tradisce il pensiero del Censis,
potremmo dire che gli italiani si stanno accorgendo che la ricchezza
non basta a conquistare una qualità della vita che si credeva
implicita nella conquista di un più elevato reddito. Le incomparabili
atmosfere che potevano aver fatto desiderare Venezia o Capri o Taormina,
come la tensione che sa trasmettere un Riccardo Muti quando dirige
MahIer, non sono beni moltiplicabili in funzione della capacità
di spesa della gente al pari di uno stereo o di un abito firmato:
così come erano stati sognati non esistono più, e il
constatare che si è arrivati troppo tardi è motivo di
risentimento e di insoddisfazione.
C'è da chiedersi perché questo malcontento sociale non
sia emerso negli altri Paesi che ci hanno preceduto nella conquista
di un reddito più elevato. Il Censis non offre una risposta
diretta a questa domanda, ma la si può trovare nella sua analisi
nella quale individua il "riconoscimento delle reciprocità"
come un passaggio fondamentale che l'Italia deve ancora superare.
Per tale si intende, in buona sostanza, la disciplina nell'uso dei
beni che l'aumento della ricchezza ha offerto alla portata di tutti.
Se oggi tutti possono avere I' automobile, questo non significa che
tutti possono recarsi in automobile nel centro delle città;
se tutti vogliono un'occupazione, non si può credere che tutti
possano trovarla vicino a cosa e assicurata per tutto la vita; se
si vuole l'aria pulito, non si può pretendere di non pagare
il costo aggiuntivo richiesto dai processi produttivi che evitano
la polluzione. Il buon senso può fornire innumerevoli altri
esempi, a ciascuno dei quali corrisponde, però, una resistenza
da parte di chi non intende pagare quel prezzo, sia esso un costo
economico o una limitazione amministrativa.
Il riconoscimento delle reciprocità si scontra così
con l'individualismo. E poiché l'individualismo si afferma
quando al potere politico non viene riconosciuto la capacità
di tutelare equamente gli interessi generali della collettività,
si sarebbe indotti a leggere l'analisi del Censis in chiave di pessimismo
ed il suo sbocco in chiave di utopia. Invece non è così.
Pur tenendosi alla larga da ogni interpretazione politica, il Centro
rileva una tendenza del nostro sistema socio-economico ad "uscire
dall'indistinto", ossia a riordinare, a razionalizzare, a precisare
i termini di una crescita, non soltanto economica, portata avanti
con impegno e generosità, ma anche con irruenza e confusione.
La soddisfazione per i progressi compiuti si accompagno ad un bisogno
di ordine sentito come esigenza funzionale, vale a dire come premessa
perché dalle conquiste economiche, culturali, sociali degli
anni passati si possa trarre tutto il potenziale di qualità
della vita. Questo bisogno di ordine o razionalità potrebbe
essere considerato il sintomo di un processo di maturazione se il
Censis non ne attribuisse l'origine alla riaffermazione del ruolo
e dei valori dell'economia reale. Secondo la sua interpretazione delle
cose, è l'impresa che negli anni a cavallo tra il '70 e l'80
ha costretto a rifare i conti, ad abbandonare le utopie, a ricollocarsi
sulla stesso carreggiata sulla quale stavano correndo le altre democrazie
industriali dell'Occidente. Si potrebbe discutere all'infinito se
sia vera questa tesi o piuttosto il suo contrario, ossia che un diverso
clima culturale ha ripristinato l'attenzione dovuta alla funzione
ed alle esigenze dell'impresa. Certo è che il dissesto economico
era giunto a tal punto da provocare comunque una reazione, la quale
poi può essere propagato anche al di là dell'impresa
e al di là dell'economia. E' comunque un fatto che ha investito
il sindacato, ha cominciato a modificare il rapporto tra cittadino
e Stato, ha spento i movimentismi, ha indotto una verifica critica
dell'efficienza delle istituzioni. Ha reso meno improbabile che la
crescita del benessere, anziché rafforzare l'individualismo,
lo sottometta a quelle esigenze di ordine e di razionalità
dalle quali lo stesso benessere dipende.
D'altra parte, la composizione tra domanda e offerta non può
riguardare solo i fatti economici, così come il censo non può
essere l'unico criterio per razionare la distribuzione di consumi
non riproducibili, di beni materiali, di servizi pubblici, di prestazioni
sociali. Pertanto, Venezia o Firenze o Capri per tutti possono essere
una conquista civile, resa possibile dal progresso economico; Venezia
o Firenze o Capri per tutti a Ferragosto sono uno sperpero economico
e un segno di inciviltà. Se è questa la direzione verso
la quale il Censis vede incamminati la mentalità e i comportamenti
degli italiani, speriamo solo che stia vedendo giusto.
E per scenario
il Duemila
Mario Monti
La "pressione
da 1992" sulla classe politica è destinata ad essere così
importante ed efficace, da giustificare ogni cura affinché
non venga interrotto. Essa si interromperebbe, almeno temporaneamente,
se dovessero venire reintrodotte misure di protezionismo finanziario.
La loro reintroduzione non sarebbe improbabile ove si verificassero
tensioni sul fronte dell'inflazione o della bilancia dei pagamenti.
Queste tensioni si verificherebbero nel caso di un surriscaldamento
dell'economia italiana, il danno strutturale che ne deriverebbe -
per l'allentamento di quella pressione sulle decisioni politiche di
risanamento del settore pubblico - sarebbe maggiore del beneficio
congiunturale di un mezzo punto percentuale di crescita in più
del prodotto interno lordo, Ecco perché, da qui al 1992, è
auspicabile una politica congiunturale di gestione della domanda improntata
ad una cautela particolare nell'evitare il surriscaldamento dell'economia
italiana.
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