Ancora una volta,
la Svimez giunge puntuale a riattizzare il fuoco -mai spento della
questione meridionale. Lo scopo è sempre quello di mettere
in luce i lati oscuri e le cause che continuano a fare del Mezzogiorno
un'area ai margini dello sviluppo economico e sociale. Nel mare del
fanatismo separatista che alimenta il sentimento popolare del Settentrione
e che è stato acquisito, con seri dubbi di costituzionalità,
dalle varie leghe razziste della Lombardia e del Veneto, Saraceno
viaggia controcorrente, predicando l'antiseparatismo, l'unitarietà
di trattazione dei problemi Nord-Sud, la nascita di una nuova coscienza
che accomuni i destini di un popolo ancora assurdamente perso dietro
rivendicazioni regionalistiche. In prospettiva, questa coscienza dovrebbe
condurre all'abbandono dell'ottica di sfruttamento che, da sempre,
ha imperniato le soluzioni di politica economica adottate per il Mezzogiorno.
Al di là di ogni giudizio di etica sociale, dobbiamo infatti
osservare - e in questo sta l'impegno assunto da Saraceno - che resterà
solo un'illusione quella del Nord di essere partecipe al grande problema
di unificazione economica e monetaria del '92 "ignorando i problemi
del Mezzogiorno e del Mezzogiorno di poter sopravvivere ai margini
del grande mercato europeo unificato". Non è un caso che
il Rapporto, questa volta, sia stato presentato e discusso a Milano
e non in una città meridionale. Milano, oggi, simboleggia l'Europa.
La scelta, è, quindi, coerente con quella visione antiseparatista
che vede anche le sorti del Sud strettamente legate alle decisioni
strategiche prese a livello europeo.
Ma si tratta di una visione che ha vita grama: nel paese delle piccole
e grandi corporazioni, ogni politica di sviluppo che riguardi il Mezzogiorno
si trasforma in uno scontro tra forze contrapposte e determina la
definizione di disegni tattico-compromissori al posto di grandi disegni
strategici. Nell'era della coesione, si assiste così alla paradossale
persistenza della scissione fra le due Italie.
Su tutti i fronti: soprattutto su quello occupazionale, dove il dislivello
fra i tassi di assorbimento della forza lavoro nelle due aree del
paese si fa sempre più netto. Infatti, mentre il Centro-Nord
ha raggiunto ormai la quasi piena occupazione, nel Mezzogiorno la
disoccupazione avanza ad un ritmo di centomila unità all'anno.
Nella maggioranza dei casi, si tratta di uomini alla ricerca del primo
impiego. Il dibattito meridionalistico, d'altra parte, si arena su
temi di basso livello e non fa che alimentare il vuoto contenutistico
della linea politica in atto. Come osserva Saraceno, "si disputa
sull'entità, sulle procedure e sulla distribuzione tra le varie
aree e vari beneficiari della spesa ordinaria e straordinaria; si
disputa soprattutto sulla titolarità dei poteri di proposta,
di decisione e di attuazione degli interventi; ma vi è sostanziale
indifferenza del dibattito all'esigenza di definizione di una strategia
di sviluppo, solo rispetto alla quale potrebbero correttamente impostarsi
le questioni relative alle risorse e agli strumenti".
L'erronea impostazione del dibattito è frutto di un complesso
di cause interagenti. L'esistenza di un intrigato insieme di norme
di ardua interpretazione determina ritardi nei provvedimenti di attuazione.
Lungaggini procedurali derivano anche dall'eccessiva burocratizzazione
delle strutture e dalla polverizzazione delle competenze istituzionali.
Per quanto riguarda queste ultime, poi, si è persa, nella pratica,
la distinzione tra "responsabilità politiche di direttiva
e di controllo e responsabilità tecnico-operative di esecuzione
di gestione", con conseguenti clamorose inefficienze nell'esercizio
delle funzioni stesse. Dal lato della destinazione della speso pubblica,
la mancata convenienza ad investire e il diffuso regime clientelare
favoriscono l'incanalamento dei flussi finanziari verso usi improduttivi
e assistenziali. Tutti questi fattori continuano ad esercitare un'influenza
negativa sull'economia meridionale, data la mancanza di una decisa
volontà politica che agisca in senso opposto.
Inoltre, come abbiamo in precedenza osservato, questa situazione di
sostanziale indifferenza verso le cause del malessere meridionale
è oggi ulteriormente condizionata da una visione distorta delle
potenzialità e delle prospettive di crescita del paese nell'ambito
del programma di integrazione europea. Si ritiene, infatti, che le
aree più progredite possano guardare al mercato europeo prescindendo
dalle difficoltà in cui versano le aree arretrate. Che di un'illusione
si tratti ce lo conferma lo stesso Saraceno, laddove sottolinea l'esigenza,
anche a livello comunitario, di un'integrazione degli obiettivi assegnati
al mercato unico con gli obiettivi di crescita produttiva e di riduzione
degli squilibri regionali, proprio in vista delle notevoli interdipendenze
che l'unione economica e monetaria provocherà tra le varie
regioni d'Europa. In altre parole, i vantaggi attesi da tale unione
saranno condizionati negativamente dai vincoli finanziari che le zone
in difficoltà pongono al resto del paese. Vincoli che rischiano
di pregiudicare la buona riuscita dell'unione stessa. Di conseguenza,
data la vastità degli interessi in gioco, il superamento delle
dicotomie regionali si presenta come un passo obbligato da compiersi
non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo. Da qui,
da parte della politica comunitaria, l'urgenza ad abbandonare l'atteggiamento
di maggior favore finora riservato ai programmi regionali, a scapito
di ampi progetti a carattere interregionale: il sacrificio di questi
ultimi è espressione di continuità a livello europeo
di una politica nazionale carente di piano e incapace di assicurare
alle regioni un ruolo decisionale privo di condizionamenti esterni.
Tale autonomia decisionale - osserva sempre Saraceno - "appare
più spesso e più seriamente minacciato dalla debolezza
dei governi regionali nei confronti delle proposte di soggetti dotati
di consistenti risorse tecniche e di rilevanti capacità di
pressione, che dai condizionamenti che ad essi potrebbero venire da
istanze superiori di governo".
Anche la politica comunitaria, al pari di quella nazionale, necessita,
dunque, di notevoli revisioni, soprattutto se si considera che la
riforma dei fondi strutturali sarà insufficiente, da sola,
a raggiungere l'obiettivo della coesione. E questo per una serie di
motivi.
In primo luogo, perché dal mercato unico trarranno vantaggi
essenzialmente i paesi più progrediti. Per cui, già
a monte del processo decisionale, notiamo che scopo precipuo di tale
riforma non è tanto quello di superare gli squilibri strutturali
in cui versano determinate aree, quanto quello di ottenere il consenso
alla realizzazione del mercato unico da parte di quei paesi, economicamente
arretrati, meno propensi all'unione. Il secondo motivo investe la
portata reale della riforma. A questo proposito, dobbiamo osservare
che, con l'estensione delle assegnazioni a Spagna e Portogallo, la
quota effettiva spettante ai singoli paesi destinatari si è
notevolmente ridotta. In sostanza, non di un raddoppio si tratta,
ma di un aumento di circa il 40% dell'importo procapite.

Altra nota dolente della politica comunitaria nelle aree depresse
o in via di sviluppo riguarda la natura degli interventi finanziari:
nella maggioranza dei casi, infatti, si tratta di sostegni alla costruzione
di nuove infrastrutture. Lo scopo sarebbe quello di creare il terreno
adatto all'insediamento delle attività produttive. In pratica,
però, tali sostegni si risolvono in una dispersione di risorse
intorno ad opere di dubbia utilità ai fini dello sviluppo (che,
in questo modo, viene perseguito indirettamente, con misure che esplicano
la loro efficacia solo nel lungo termine). D'altra parte, risultati
più incisivi sia dal lato dell'immediatezza sia da quello del
contenimento dei costi si potrebbero ottenere attraverso il potenziamento
o la ristrutturazione delle infrastrutture già esistenti. In
ogni caso, trattandosi di aree ad economia stagnante, che abbisognano
di forti stimoli per attivare o per portare a termine un processo
di sviluppo industriale, non si può prescindere da un'azione
più immediata, sotto forma di finanziamenti ad attività
direttamente produttive. E' anche chiaro che questa azione deve essere
promossa innanzitutto a livello nazionale e che è in quest'ambito
che si incontrano gli ostacoli maggiori. Scrive Saraceno: "La
richiesta all'Europa di una politica di sviluppo e di coesione è
tanto più difficile per il nostro Paese, quanto più
si continuano a praticare interventi che, magari inizialmente formulati
in nome dello sviluppo o dell'equità o dell'emergenza, hanno
finito invece con l'essere meri trasferimenti a favore di attività
senza prospettive o di soggetti tutt'altro che socialmente deboli.
Superare a livello nazionale una tale incoerenza è la prima
condizione perché il Mezzogiorno guardi all'Europa e l'Europa
al Mezzogiorno".
Situazione
occupazionale
Disoccupazione montante al Sud e pieno impiego al Nord caratterizzano
l'attuale mercato del lavoro e, al tempo stesso, segnano una tendenza
destinata a consolidarsi nel prossimo futuro. Questa contrapposta
evoluzione del tasso di crescita della domanda di lavoro è
propria di tutti i sistemi ad economia dualistica. Pertanto, la relativa
problematico desta preoccupazioni non solo a livello nazionale, ma
anche a livello comunitario.
Per quanto riguarda il nostro Paese, dai dati Svimez emerge che nel
Mezzogiorno il tasso di disoccupazione è cresciuto, durante
il 1989, dal 20,3% al 21,3%, mentre nel Settentrione è sceso
dal 6,7% al 5,8%, restando pressoché invariato al Centro. Si
prevede, inoltre, che il diverso andamento della domanda occupazionale
è destinato ad acquistare, nel prossimo quadriennio, connotati
sempre più netti. Più precisamente, l'offerta addizionale
di lavoro che si formerà fino al 1993, in seguito soprattutto
ad una maggiore partecipazione femminile, sardi: nel Nord, inferiore
all'aumento tendenziale della domanda; nel Sud, decisamente superiore
e pari, in assenza di flussi migratori, a circa 800 mila unità,
quasi la metà della disoccupazione attuale.
Questo stato di cose sembra preludere ad un ritorno dei grandi movimenti
migratori che negli anni '50 e '60 spopolarono le campagne meridionali.
Ma i tempi sono cambiati ed è estremamente difficile che si
ripeta anche oggi un fenomeno di simile entità. Soprattutto
per la divergenza che attualmente esiste tra il tipo di richiesta
e il tipo di offerta di lavoro. Siamo in presenza, infatti, di una
domanda che si concentra ai due estremi della gerarchia socio-professionale:
da un lato abbiamo i lavori manuali, scarsamente qualificati e senza
possibilità di carriera; dall'altro, i lavori per i quali sono
richiesti i gradi più alti di istruzione formale e di qualificazione
professionale. Considerando che il livello di cultura nel Sud si è
innalzato notevolmente e che la maggior parte dei giovani meridionali
è munita di diploma o di laurea, appare ovvio che le attese
dei più siano rivolte verso occupazioni qualificanti. E' dunque
impensabile una rinnovata disponibilità di massa ad emigrare
per accedere a lavori precari e poco retribuiti, magari in concorrenza
con lavoratori più "docili" provenienti dal Terzo
Mondo.
Emigrazione si potrebbe avere solo dal lato dei soggetti dotati dei
maggiori requisiti formali e sostanziali, in grado di intraprendere
carriere tecniche, direttive e professionali. Anche in questo caso,
però, sorgono difficoltà, dovute essenzialmente al fatto
che, nel Sud, il conseguimento del titolo di studio non si accompagna,
in genere, ad un'adeguata formazione professionale.
Ad ogni modo, l'emigrazione qualificata, anche se resa possibile attraverso
il potenziamento dei corsi formativi e di aggiornamento, non è,
comunque, da considerarsi la soluzione migliore, visto che si ridurrebbe
a smaltire temporaneamente il peso dei senza-lavoro, senza avviare
alcun processo di sviluppo dell'area. D'altra parte, come osserva
Saraceno, "non si può ignorare che, oltre certi limiti,
l'emigrazione qualificata depaupererebbe il Mezzogiorno di una risorsa
strategica per lo sviluppo dell'economia e, quindi, della complessiva
occupazione meridionale, in tutte le sue articolazioni di settore,
di qualifica e di status". Pertanto, è ancora e sempre
la strada dell'industrializzazione che occorre battere se si vuole
dare una soluzione concreta al problema occupazionale.
In questo settore, le prospettive non sono così pessimistiche
come un tempo. Il processo di ristrutturazione, che dura ormai da
10 anni, sta portando la capacità produttiva alla piena utilizzazione.
Di conseguenza, si aprono ampie possibilità di espansione della
capacità stessa e, quindi, di aumento dell'occupazione. Ma
perché questa occasione non vada perduta, è necessario
seguire determinate politiche, la cui adozione, ormai accolta sul
piano delle enunciazioni generali, è tutt'altro che pacifica
sul piano dell'attuazione pratica. Si tratta, a detta di Saraceno,
"di politiche dei redditi e di risanamento strutturale della
finanza pubblica, volte a regolare la dinamica dei consumi e ad accrescere
la quota del risparmio nazionale disponibile per investimenti reali".
E ancora, di azioni atte a riordinare l'attuale sistema di incentivi
alle imprese e di sostegni all'occupazione "allo scopo di eliminare
situazioni indebite di rendita, di privilegio e di abuso". Infine,
di azioni di rimozione "degli ostacoli normativi e amministrativi
che hanno finora impedito la funzionalità dell'intervento pubblico
nel Mezzogiorno all'obiettivo dell'effettivo sviluppo dell'area".
Queste politiche sono, nel nostro Paese, fortemente contrastate -
sia sul piano legislativo sia su quello attuativo - dagli interessi
di natura corporativa che dominano il mondo politico e quello sindacale.
Interessi radicati soprattutto laddove più deboli appaiono
le posizioni dei fautori dell'unificazione economica e sociale. Il
primo passo da compiere è, quindi, quello di dare maggiori
poteri a questi ultimi in modo da neutralizzare le forze contrapposte,
più restie a sopportare i costi che tale scelta implicherebbe.
Questione meridionale
o questione criminale?
L'immagine che il Mezzogiorno oggi dà al resto del Paese è
quella di un'area violenta, criminale, nella quale si è perso
il senso dello Stato. Con questa immagine si ripresenta l'annosa questione,
quasi una risposta a chi ha cercato di sotterrare, anziché
guarire, i mali che affliggono il Sud.
O in un modo o nell'altro, dunque, il Sud torna a turbare i cuori
dei benpensanti, la quiete mielosa dell'ignoranza, alias dell'alta
Italia, accogliente e razzista, priva di memoria, anche solo storica,
verso un popolo sfruttato da sempre e da sempre rinnegato. E anche
se oggi sono mutati i termini della questione, "l'essenza resta
quella dei grandi meridionalisti del passato: una centrale questione
etica e politica che investe le fondamenta morali della società
nazionale e dello Stato unitario". Una questione alla quale,
oggi come ieri, non sono state date risposte che non avessero il carattere
della repressione.
La mafia, la camorra, la 'ndrangheta, come il brigantaggio dell'ultima
ora, fanatico e omicida, hanno avuto vita facile nel Sud non perché
quaggiù si fosse perso il senso dello Stato, ma perché,
quaggiù, non è mai esistito il senso dello Stato. Anche
dopo l'Unità.
E come poteva essere diversamente? Arretratezza economica significava
fame e miseria... E al Nord si impiantavano industrie e si stringevano
patti di non intervento con i latifondisti del Sud...
Come poteva essere diversamente? In una terra abbandonata e osteggiata
da tutti, dallo Stato, dalla Chiesa, dall'opinione pubblica, dagli
ascari con la faccia pulita. Noi, invece, eravamo sporchi, con gli
occhi sanguinanti di rabbia e di disprezzo, pronti a tutto per un
pezzo di pane. E ci tenevano a bada con la menzogna delle parole,
con le promesse mai mantenute. La fame di terra era reale. Chi mai
se ne è preoccupato? Ed ecco i briganti, i ribelli, con le
espressioni di antistatalismo e di rivolta. Anche allora domati mediante
l'intervento delle forze armate. Quanto poco profonda era quella soluzione.
Ma, in fondo, non si voleva risolvere, si voleva reprimere. Barbari
eravamo. Non uomini, ma bestie da macello. Barbari siamo ancora, ancora
terroni e sempre più criminali. Terra maledetta? Forse sì.
Ma non da Dio: dagli uomini! lo spirito di sopravvivenza, da noi,
ha creato l'altro Stato, in sostituzione di quello legale, lontano
e assente, incapace con le sue regole di risolvere l'eterna questione.
E oggi non è più una lotta impari contro un branco di
affamati. L'altro Stato è una piovra. Nella sua ferocia efficiente.
Con propri codici e regole di vita. Contro questo "Stato"
si solleva lo sdegno del paese intero.
Sdegno - ripetiamo - ridicolo e tardivo. Sdegno doveva esserci, e
non c'è stato, quando dotti uomini venuti dal Nord svolgevano
inchieste sul regno degli schiavi.
Al puzzo di morte ci si tappava il naso e si voltavano le spalle alla
miseria. E come lebbrosi siamo stati isolati. Oggi lo sdegno è
fuori posto. Soprattutto se oggetto di sdegno continua ad essere la
gente comune. E se la questione meridionale viene fatta coincidere
con la questione criminale.
Questa identificazione, propria del fanatismo leghista lombardo, rischia
di giustificare metodi di intervento spicciolo che esulano dalle riforme
istituzionali. E, al tempo stesso, esprime l'incapacità dello
Stato legale a riaffermare la propria presenza e la propria sovranità
con azioni diverse dalla mera repressione. Lo stato d'assedio non
può cambiare una mentalità, a meno di non voler incorrere
negli stessi errori dell'era dei briganti.
D'altra parte, d'accordo con Saraceno, "non infondata, ma parziale
appare anche l'indicazione dello sviluppo economico come strumento
di promozione, nel lungo periodo, del progresso civile e dell'ordine
democratico". Non è sulla quantità dello sviluppo
che occorre puntare, bensì sulla qualità dello stesso
e su una più accurata selezione dei metodi e degli strumenti
da usare per perseguirlo.
Sempre più indispensabile appare, dunque, una presenza costante
dello Stato nelle istituzioni e nella vita sociale e politica del
Sud, allo scopo di eliminare le forme di inquinamento e di controllo
messe in atto dal potere illegale. Più che tra le montagne
dell'Aspromonte, occorre frugare tra i conti correnti bancari dei
cosiddetti "insospettabili"; tra il letamaio della politica
clientelare e truffaldina relativa agli appalti, ai subappalti, alle
commesse e alle assunzioni; tra le attività "pulite"
sorte grazie ai grandi traffici di droga e al riciclaggio del denaro
sporco. E per far questo, non occorre certo l'intervento dell'esercito!