§ Rapporto Svimez

Questione etica questione Politica




Maria Rosaria Pascali



Ancora una volta, la Svimez giunge puntuale a riattizzare il fuoco -mai spento della questione meridionale. Lo scopo è sempre quello di mettere in luce i lati oscuri e le cause che continuano a fare del Mezzogiorno un'area ai margini dello sviluppo economico e sociale. Nel mare del fanatismo separatista che alimenta il sentimento popolare del Settentrione e che è stato acquisito, con seri dubbi di costituzionalità, dalle varie leghe razziste della Lombardia e del Veneto, Saraceno viaggia controcorrente, predicando l'antiseparatismo, l'unitarietà di trattazione dei problemi Nord-Sud, la nascita di una nuova coscienza che accomuni i destini di un popolo ancora assurdamente perso dietro rivendicazioni regionalistiche. In prospettiva, questa coscienza dovrebbe condurre all'abbandono dell'ottica di sfruttamento che, da sempre, ha imperniato le soluzioni di politica economica adottate per il Mezzogiorno. Al di là di ogni giudizio di etica sociale, dobbiamo infatti osservare - e in questo sta l'impegno assunto da Saraceno - che resterà solo un'illusione quella del Nord di essere partecipe al grande problema di unificazione economica e monetaria del '92 "ignorando i problemi del Mezzogiorno e del Mezzogiorno di poter sopravvivere ai margini del grande mercato europeo unificato". Non è un caso che il Rapporto, questa volta, sia stato presentato e discusso a Milano e non in una città meridionale. Milano, oggi, simboleggia l'Europa. La scelta, è, quindi, coerente con quella visione antiseparatista che vede anche le sorti del Sud strettamente legate alle decisioni strategiche prese a livello europeo.
Ma si tratta di una visione che ha vita grama: nel paese delle piccole e grandi corporazioni, ogni politica di sviluppo che riguardi il Mezzogiorno si trasforma in uno scontro tra forze contrapposte e determina la definizione di disegni tattico-compromissori al posto di grandi disegni strategici. Nell'era della coesione, si assiste così alla paradossale persistenza della scissione fra le due Italie.
Su tutti i fronti: soprattutto su quello occupazionale, dove il dislivello fra i tassi di assorbimento della forza lavoro nelle due aree del paese si fa sempre più netto. Infatti, mentre il Centro-Nord ha raggiunto ormai la quasi piena occupazione, nel Mezzogiorno la disoccupazione avanza ad un ritmo di centomila unità all'anno. Nella maggioranza dei casi, si tratta di uomini alla ricerca del primo impiego. Il dibattito meridionalistico, d'altra parte, si arena su temi di basso livello e non fa che alimentare il vuoto contenutistico della linea politica in atto. Come osserva Saraceno, "si disputa sull'entità, sulle procedure e sulla distribuzione tra le varie aree e vari beneficiari della spesa ordinaria e straordinaria; si disputa soprattutto sulla titolarità dei poteri di proposta, di decisione e di attuazione degli interventi; ma vi è sostanziale indifferenza del dibattito all'esigenza di definizione di una strategia di sviluppo, solo rispetto alla quale potrebbero correttamente impostarsi le questioni relative alle risorse e agli strumenti".
L'erronea impostazione del dibattito è frutto di un complesso di cause interagenti. L'esistenza di un intrigato insieme di norme di ardua interpretazione determina ritardi nei provvedimenti di attuazione.
Lungaggini procedurali derivano anche dall'eccessiva burocratizzazione delle strutture e dalla polverizzazione delle competenze istituzionali. Per quanto riguarda queste ultime, poi, si è persa, nella pratica, la distinzione tra "responsabilità politiche di direttiva e di controllo e responsabilità tecnico-operative di esecuzione di gestione", con conseguenti clamorose inefficienze nell'esercizio delle funzioni stesse. Dal lato della destinazione della speso pubblica, la mancata convenienza ad investire e il diffuso regime clientelare favoriscono l'incanalamento dei flussi finanziari verso usi improduttivi e assistenziali. Tutti questi fattori continuano ad esercitare un'influenza negativa sull'economia meridionale, data la mancanza di una decisa volontà politica che agisca in senso opposto.
Inoltre, come abbiamo in precedenza osservato, questa situazione di sostanziale indifferenza verso le cause del malessere meridionale è oggi ulteriormente condizionata da una visione distorta delle potenzialità e delle prospettive di crescita del paese nell'ambito del programma di integrazione europea. Si ritiene, infatti, che le aree più progredite possano guardare al mercato europeo prescindendo dalle difficoltà in cui versano le aree arretrate. Che di un'illusione si tratti ce lo conferma lo stesso Saraceno, laddove sottolinea l'esigenza, anche a livello comunitario, di un'integrazione degli obiettivi assegnati al mercato unico con gli obiettivi di crescita produttiva e di riduzione degli squilibri regionali, proprio in vista delle notevoli interdipendenze che l'unione economica e monetaria provocherà tra le varie regioni d'Europa. In altre parole, i vantaggi attesi da tale unione saranno condizionati negativamente dai vincoli finanziari che le zone in difficoltà pongono al resto del paese. Vincoli che rischiano di pregiudicare la buona riuscita dell'unione stessa. Di conseguenza, data la vastità degli interessi in gioco, il superamento delle dicotomie regionali si presenta come un passo obbligato da compiersi non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo. Da qui, da parte della politica comunitaria, l'urgenza ad abbandonare l'atteggiamento di maggior favore finora riservato ai programmi regionali, a scapito di ampi progetti a carattere interregionale: il sacrificio di questi ultimi è espressione di continuità a livello europeo di una politica nazionale carente di piano e incapace di assicurare alle regioni un ruolo decisionale privo di condizionamenti esterni. Tale autonomia decisionale - osserva sempre Saraceno - "appare più spesso e più seriamente minacciato dalla debolezza dei governi regionali nei confronti delle proposte di soggetti dotati di consistenti risorse tecniche e di rilevanti capacità di pressione, che dai condizionamenti che ad essi potrebbero venire da istanze superiori di governo".
Anche la politica comunitaria, al pari di quella nazionale, necessita, dunque, di notevoli revisioni, soprattutto se si considera che la riforma dei fondi strutturali sarà insufficiente, da sola, a raggiungere l'obiettivo della coesione. E questo per una serie di motivi.
In primo luogo, perché dal mercato unico trarranno vantaggi essenzialmente i paesi più progrediti. Per cui, già a monte del processo decisionale, notiamo che scopo precipuo di tale riforma non è tanto quello di superare gli squilibri strutturali in cui versano determinate aree, quanto quello di ottenere il consenso alla realizzazione del mercato unico da parte di quei paesi, economicamente arretrati, meno propensi all'unione. Il secondo motivo investe la portata reale della riforma. A questo proposito, dobbiamo osservare che, con l'estensione delle assegnazioni a Spagna e Portogallo, la quota effettiva spettante ai singoli paesi destinatari si è notevolmente ridotta. In sostanza, non di un raddoppio si tratta, ma di un aumento di circa il 40% dell'importo procapite.


Altra nota dolente della politica comunitaria nelle aree depresse o in via di sviluppo riguarda la natura degli interventi finanziari: nella maggioranza dei casi, infatti, si tratta di sostegni alla costruzione di nuove infrastrutture. Lo scopo sarebbe quello di creare il terreno adatto all'insediamento delle attività produttive. In pratica, però, tali sostegni si risolvono in una dispersione di risorse intorno ad opere di dubbia utilità ai fini dello sviluppo (che, in questo modo, viene perseguito indirettamente, con misure che esplicano la loro efficacia solo nel lungo termine). D'altra parte, risultati più incisivi sia dal lato dell'immediatezza sia da quello del contenimento dei costi si potrebbero ottenere attraverso il potenziamento o la ristrutturazione delle infrastrutture già esistenti. In ogni caso, trattandosi di aree ad economia stagnante, che abbisognano di forti stimoli per attivare o per portare a termine un processo di sviluppo industriale, non si può prescindere da un'azione più immediata, sotto forma di finanziamenti ad attività direttamente produttive. E' anche chiaro che questa azione deve essere promossa innanzitutto a livello nazionale e che è in quest'ambito che si incontrano gli ostacoli maggiori. Scrive Saraceno: "La richiesta all'Europa di una politica di sviluppo e di coesione è tanto più difficile per il nostro Paese, quanto più si continuano a praticare interventi che, magari inizialmente formulati in nome dello sviluppo o dell'equità o dell'emergenza, hanno finito invece con l'essere meri trasferimenti a favore di attività senza prospettive o di soggetti tutt'altro che socialmente deboli. Superare a livello nazionale una tale incoerenza è la prima condizione perché il Mezzogiorno guardi all'Europa e l'Europa al Mezzogiorno".

Situazione occupazionale
Disoccupazione montante al Sud e pieno impiego al Nord caratterizzano l'attuale mercato del lavoro e, al tempo stesso, segnano una tendenza destinata a consolidarsi nel prossimo futuro. Questa contrapposta evoluzione del tasso di crescita della domanda di lavoro è propria di tutti i sistemi ad economia dualistica. Pertanto, la relativa problematico desta preoccupazioni non solo a livello nazionale, ma anche a livello comunitario.
Per quanto riguarda il nostro Paese, dai dati Svimez emerge che nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione è cresciuto, durante il 1989, dal 20,3% al 21,3%, mentre nel Settentrione è sceso dal 6,7% al 5,8%, restando pressoché invariato al Centro. Si prevede, inoltre, che il diverso andamento della domanda occupazionale è destinato ad acquistare, nel prossimo quadriennio, connotati sempre più netti. Più precisamente, l'offerta addizionale di lavoro che si formerà fino al 1993, in seguito soprattutto ad una maggiore partecipazione femminile, sardi: nel Nord, inferiore all'aumento tendenziale della domanda; nel Sud, decisamente superiore e pari, in assenza di flussi migratori, a circa 800 mila unità, quasi la metà della disoccupazione attuale.
Questo stato di cose sembra preludere ad un ritorno dei grandi movimenti migratori che negli anni '50 e '60 spopolarono le campagne meridionali. Ma i tempi sono cambiati ed è estremamente difficile che si ripeta anche oggi un fenomeno di simile entità. Soprattutto per la divergenza che attualmente esiste tra il tipo di richiesta e il tipo di offerta di lavoro. Siamo in presenza, infatti, di una domanda che si concentra ai due estremi della gerarchia socio-professionale: da un lato abbiamo i lavori manuali, scarsamente qualificati e senza possibilità di carriera; dall'altro, i lavori per i quali sono richiesti i gradi più alti di istruzione formale e di qualificazione professionale. Considerando che il livello di cultura nel Sud si è innalzato notevolmente e che la maggior parte dei giovani meridionali è munita di diploma o di laurea, appare ovvio che le attese dei più siano rivolte verso occupazioni qualificanti. E' dunque impensabile una rinnovata disponibilità di massa ad emigrare per accedere a lavori precari e poco retribuiti, magari in concorrenza con lavoratori più "docili" provenienti dal Terzo Mondo.
Emigrazione si potrebbe avere solo dal lato dei soggetti dotati dei maggiori requisiti formali e sostanziali, in grado di intraprendere carriere tecniche, direttive e professionali. Anche in questo caso, però, sorgono difficoltà, dovute essenzialmente al fatto che, nel Sud, il conseguimento del titolo di studio non si accompagna, in genere, ad un'adeguata formazione professionale.
Ad ogni modo, l'emigrazione qualificata, anche se resa possibile attraverso il potenziamento dei corsi formativi e di aggiornamento, non è, comunque, da considerarsi la soluzione migliore, visto che si ridurrebbe a smaltire temporaneamente il peso dei senza-lavoro, senza avviare alcun processo di sviluppo dell'area. D'altra parte, come osserva Saraceno, "non si può ignorare che, oltre certi limiti, l'emigrazione qualificata depaupererebbe il Mezzogiorno di una risorsa strategica per lo sviluppo dell'economia e, quindi, della complessiva occupazione meridionale, in tutte le sue articolazioni di settore, di qualifica e di status". Pertanto, è ancora e sempre la strada dell'industrializzazione che occorre battere se si vuole dare una soluzione concreta al problema occupazionale.
In questo settore, le prospettive non sono così pessimistiche come un tempo. Il processo di ristrutturazione, che dura ormai da 10 anni, sta portando la capacità produttiva alla piena utilizzazione. Di conseguenza, si aprono ampie possibilità di espansione della capacità stessa e, quindi, di aumento dell'occupazione. Ma perché questa occasione non vada perduta, è necessario seguire determinate politiche, la cui adozione, ormai accolta sul piano delle enunciazioni generali, è tutt'altro che pacifica sul piano dell'attuazione pratica. Si tratta, a detta di Saraceno, "di politiche dei redditi e di risanamento strutturale della finanza pubblica, volte a regolare la dinamica dei consumi e ad accrescere la quota del risparmio nazionale disponibile per investimenti reali". E ancora, di azioni atte a riordinare l'attuale sistema di incentivi alle imprese e di sostegni all'occupazione "allo scopo di eliminare situazioni indebite di rendita, di privilegio e di abuso". Infine, di azioni di rimozione "degli ostacoli normativi e amministrativi che hanno finora impedito la funzionalità dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno all'obiettivo dell'effettivo sviluppo dell'area".
Queste politiche sono, nel nostro Paese, fortemente contrastate - sia sul piano legislativo sia su quello attuativo - dagli interessi di natura corporativa che dominano il mondo politico e quello sindacale. Interessi radicati soprattutto laddove più deboli appaiono le posizioni dei fautori dell'unificazione economica e sociale. Il primo passo da compiere è, quindi, quello di dare maggiori poteri a questi ultimi in modo da neutralizzare le forze contrapposte, più restie a sopportare i costi che tale scelta implicherebbe.

Questione meridionale o questione criminale?
L'immagine che il Mezzogiorno oggi dà al resto del Paese è quella di un'area violenta, criminale, nella quale si è perso il senso dello Stato. Con questa immagine si ripresenta l'annosa questione, quasi una risposta a chi ha cercato di sotterrare, anziché guarire, i mali che affliggono il Sud.
O in un modo o nell'altro, dunque, il Sud torna a turbare i cuori dei benpensanti, la quiete mielosa dell'ignoranza, alias dell'alta Italia, accogliente e razzista, priva di memoria, anche solo storica, verso un popolo sfruttato da sempre e da sempre rinnegato. E anche se oggi sono mutati i termini della questione, "l'essenza resta quella dei grandi meridionalisti del passato: una centrale questione etica e politica che investe le fondamenta morali della società nazionale e dello Stato unitario". Una questione alla quale, oggi come ieri, non sono state date risposte che non avessero il carattere della repressione.
La mafia, la camorra, la 'ndrangheta, come il brigantaggio dell'ultima ora, fanatico e omicida, hanno avuto vita facile nel Sud non perché quaggiù si fosse perso il senso dello Stato, ma perché, quaggiù, non è mai esistito il senso dello Stato. Anche dopo l'Unità.
E come poteva essere diversamente? Arretratezza economica significava fame e miseria... E al Nord si impiantavano industrie e si stringevano patti di non intervento con i latifondisti del Sud...
Come poteva essere diversamente? In una terra abbandonata e osteggiata da tutti, dallo Stato, dalla Chiesa, dall'opinione pubblica, dagli ascari con la faccia pulita. Noi, invece, eravamo sporchi, con gli occhi sanguinanti di rabbia e di disprezzo, pronti a tutto per un pezzo di pane. E ci tenevano a bada con la menzogna delle parole, con le promesse mai mantenute. La fame di terra era reale. Chi mai se ne è preoccupato? Ed ecco i briganti, i ribelli, con le espressioni di antistatalismo e di rivolta. Anche allora domati mediante l'intervento delle forze armate. Quanto poco profonda era quella soluzione. Ma, in fondo, non si voleva risolvere, si voleva reprimere. Barbari eravamo. Non uomini, ma bestie da macello. Barbari siamo ancora, ancora terroni e sempre più criminali. Terra maledetta? Forse sì. Ma non da Dio: dagli uomini! lo spirito di sopravvivenza, da noi, ha creato l'altro Stato, in sostituzione di quello legale, lontano e assente, incapace con le sue regole di risolvere l'eterna questione. E oggi non è più una lotta impari contro un branco di affamati. L'altro Stato è una piovra. Nella sua ferocia efficiente. Con propri codici e regole di vita. Contro questo "Stato" si solleva lo sdegno del paese intero.
Sdegno - ripetiamo - ridicolo e tardivo. Sdegno doveva esserci, e non c'è stato, quando dotti uomini venuti dal Nord svolgevano inchieste sul regno degli schiavi.
Al puzzo di morte ci si tappava il naso e si voltavano le spalle alla miseria. E come lebbrosi siamo stati isolati. Oggi lo sdegno è fuori posto. Soprattutto se oggetto di sdegno continua ad essere la gente comune. E se la questione meridionale viene fatta coincidere con la questione criminale.
Questa identificazione, propria del fanatismo leghista lombardo, rischia di giustificare metodi di intervento spicciolo che esulano dalle riforme istituzionali. E, al tempo stesso, esprime l'incapacità dello Stato legale a riaffermare la propria presenza e la propria sovranità con azioni diverse dalla mera repressione. Lo stato d'assedio non può cambiare una mentalità, a meno di non voler incorrere negli stessi errori dell'era dei briganti.
D'altra parte, d'accordo con Saraceno, "non infondata, ma parziale appare anche l'indicazione dello sviluppo economico come strumento di promozione, nel lungo periodo, del progresso civile e dell'ordine democratico". Non è sulla quantità dello sviluppo che occorre puntare, bensì sulla qualità dello stesso e su una più accurata selezione dei metodi e degli strumenti da usare per perseguirlo.
Sempre più indispensabile appare, dunque, una presenza costante dello Stato nelle istituzioni e nella vita sociale e politica del Sud, allo scopo di eliminare le forme di inquinamento e di controllo messe in atto dal potere illegale. Più che tra le montagne dell'Aspromonte, occorre frugare tra i conti correnti bancari dei cosiddetti "insospettabili"; tra il letamaio della politica clientelare e truffaldina relativa agli appalti, ai subappalti, alle commesse e alle assunzioni; tra le attività "pulite" sorte grazie ai grandi traffici di droga e al riciclaggio del denaro sporco. E per far questo, non occorre certo l'intervento dell'esercito!


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