§ Interrogativi per il terzo millennio

Cronache del non-potere




Aldo Bello



"Poiché, invero - scrive Dionigi Aeropagita - la causa buona di tutte le cose (...) non è né anima né mente; non ha immaginazione né opinione né ragione né pensiero [ ...]. Non è immobile né in movimento; non è in riposo né ha potenza [ ...]. Non vive e non è vita: non è sostanza né evo né tempo Non è scienza né verità ... ".
Verrebbe da chiedersi se possano esistere astrazioni più subliminali o problematicità con più alte punte di "delirio" di quelle della mistica teologica. Dalle quali, tuttavia, discendono i sistemi e i comportamenti, gli assetti e le modificazioni, cioè le liturgie della storia. "Tutto, dice Sciascia è "razionale" mistero di essenze e rispondenze, continua e fitta trama - da un punto all'altro, da una cosa all'altra, da un uomo all'altro - di significati: appena dicibili". Sicché lo scarto tra memoria e giudizio, per chi affidi alla cronaca il grimaldello della provocazione, si riduce al "vissuto"; al prezzo pagato, cioè, giorno per giorno, per tradurre in parole e in fatti la filigrana dell'essenza (il potere) e della rispondenza (il non-potere). Con i patti e i rapporti, le alternanze e compromissioni e parallele fluttuazioni ed escursioni di marea reciprocamente compensatrici. I quali, com'è naturale, sono i punti di forza ascensionale del ragionamento che ci proponiamo di fare: non essere esistita, cioè, in Italia, dal '46 ad oggi, una volontà (o scelta) politica di potere; e meglio si intenderebbe questa apparente tautologia con l'espressione: essere esistita una volontà (o scelta) politica di non-potere. Il potere inteso - al di là delle infinite, diverse e persino conflittuali definizioni ideologiche e giuridiche - nel senso corrente di esercizio dell'autorità e potestà di disporre e di agire legalmente in pubblici esercizi. In questo contesto, la nostra sembra essere, dall'inizio, una democrazia a sovranità limitata: motivata dalla storia, ma anche demodulata da sistemi di segnali e interferenze in qualche tempo convenuti, comunque non accidentali. Ma convenuti in quali tempi, e tra chi?
Ragionevolmente, si può ipotizzare quel breve arco che culminò nel 25 marzo 1947. In questo giorno, alla Costituente, 350 dissero sì, e 149 no, all'articolo 7 della Costituzione. Tra i 201 voti di scarto della maggioranza, i 95 del Pci. Già cinque volte l'Osservatore Romano (il 13, 19, 20, 21 e 22 marzo) aveva fatto irruzione nell'officina dei costituenti repubblicani. Papa Pacelli mandava a dire, e l'avvertimento fu raccolto. "Ora - disse Togliatti, quasi apostrofando i ribelli socialisti, azionisti, repubblicani e federali - siamo di fronte all'avvenire e a difficoltà nuove per il nostro paese. Siamo di fronte a problemi economici e politici che si stanno accumulando e intrecciando l'un l'altro. In questa situazione, abbiamo bisogno della pace religiosa, né possiamo in alcun modo consentire che essa venga turbata". "I comunisti non "aboliscono" né la religione né la morale né la filosofia - chioserà perifericamente Ambrogio Donini, a beneficio di chi era turbato o disorientato - Marx ed Engels anzi hanno coperto di ridicolo [ ... ] quel filosofastro borghese, il signor Dühring, il quale sosteneva che nella nuova società la religione doveva venir abolita per decreto". E laicamente Lucio Lombardo Radice: "La parola d'ordine [ ... ] "difesa e attuazione della Costituzione democratica e repubblicana" significa fine degli arbitrii, significa esigere che lo Stato sia - in tutti i suoi organi - il baluardo della Costituzione e dei diritti che essa dà ai cittadini, e non davvero uno strumento nelle mani del governo per distruggere ed "affossare" la Carta fondamentale della Repubblica".
Vaticano e Botteghe Oscure, dunque, garanti della legalità e dell'osservanza della Costituzione. In compagnia o con l'influenza di chi? Senza dubbio, dei potenti di allora. Che erano quelli lontani, riemersi a Yalta: Truman e Stalin; e quelli vicini, riemergenti in Italia: Pio XII, Togliatti e la Confindustria, che proprio De Gasperi definiva in quegli anni "il quarto potere". E vanamente la scuola storica socialista (Morandi in special modo, ma anche Nenni) rimprovererà ai comunisti di aver rinunciato al potere in quel torno di anni. Durante i quali, di fatto, De Gasperi aveva disinnescato il disegno pacelliano di un'Italia salazariana e aveva proceduto per coalizioni centriste persino dopo l'aprile '48; e il Pci aveva gettato acqua sul fuoco dell'attentato a Togliatti, palesemente rinunciando all'ultima occasione che legittimasse un atto rivoluzionario.
Giustificherà Arturo Colombi: "Una simile lotta richiede l'unità della classe rivoluzionaria; può tuttavia non richiedere l'uso effettivo della violenza materiale? Ciò dipende dalla resistenza che oppongono i nemici di classe". E altrove: "Le condizioni per un "capovolgimento della società capitalistica" in Italia esistono già da molto tempo, ma, come ci dice l'esperienza, le condizioni materiali non sono sufficienti, per se stesse, a risolvere i problemi che sono già divenuti una necessità storica [ ... ]. La via è quella indicataci dal compagno Togliatti: lotta tenace per la pace, per il lavoro, per le riforme di struttura, per un "governo della pace"".
Più che dalla fatica - anche improba - della ricostruzione, De Gasperi morì stremato da sette gabinetti di trasferimento dell'asse politico, dalle imboscate democristiane, dalle fughe in avanti di quelli che erano ancora soltanto "puledri di razza", (la "legge truffa" fu forse voluta da Fanfani? Certo, cadde per i tiri franchi dei centristi), ma anche per le ipoteche penitenziali del Vaticano. Pochi mesi prima, il congresso gli aveva fatto perdere il controllo del partito. Una costante cattolica, la decapitazione dei segretari all'apice del successo. L'altra costante è negli imprimatur alle aperture: così per il centro-sinistra (Giovanni XXIII), così per la solidarietà nazionale (Paolo VI). l'una e l'altra apertura con Moro promotore, e, a capo dei relativi gabinetti, Fanfani ed Andreotti.
"Gli stati possono favoleggiarsi creati da Dio o dalla forza o dalla ragione economica; la Storia non ha altro esempio così evidente di uno Stato nato dal trasferirsi della potenza economica in forza politica".
Traslato dal Medioevo barbarico ai nostri non meno barbari giorni, il discorso del Pepe riecheggia nello sciasciano Todo modo: "Sono un prete cattivo che, a differenza di quegli altri cattivi che ho conosciuto un tempo, ha letto tanti libri... Le voglio anzi regalare un piccolo paradosso, a spiegazione del mio classificarmi tra i cattivi non per modestia ma per convinzione: i preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza, e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni. E' dietro l'immagine dell'imperfezione che vive l'idea della perfezione: il prete che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in effetti la conferma, la innalza, la serve... Alessandro VI, malgré lui, è stato un grande papa ... ".
Fu, il dissoluto Borgia accoppatore del Savonarola, padre di sette figli legittimati a suon di bolle e padrone di terre e di re, alleato infido, giudice corruttibile, signore dissipato, mecenate antirinascimentale e sommo pastore nell'ufficio temporale. Un moderno animale politico, e spirito per tanta parte anticipatore. E fu, uno dei suoi figli, il saturnino Cesare, apprezzato dal Machiavelli; e una delle sue figlie, Lucrezia, lodata dal Bembo e dall'Ariosto.
Avidi e infedeli, maestri nell'arte del governo e dell'inganno, i Borgia ebbero in gran conto i due cardini della potenza rinascimentale: la ricchezza e il nepotismo. Con la prima muovendo gli eserciti e pagando i tradimenti, col secondo promuovendo alleanze tattiche e assicurandosi protezioni. Moderna a tal punto era dunque la loro visione della vita e del dominio, in un'Italia frantumata, e quasi atomizzata, in esangui Signorie, che per i secoli avvenire la loro - nella nostra storia - fu esemplare lezione di comportamento politico. Mai, infatti, in questa terra, si radicarono ideali collettivi; e la politica ha creato arte, non scienza o strumenti, e si è tradotta in gestione (oggi: software), non in passione. Così nel Seicento le lobbies porporate gestirono Galilei, fermando di nuovo il sole; e nel Settecento fu strozzato il riformismo illuminista; e nel secolo successivo l'aristocrazia e le banche furono bracci secolari dell'Unità. E da noi, infine, sempre la spinta è venuta dalle "emergenze": post-belliche, post-fasciste, anticomuniste, terroristiche, economiche. Alberoni invoca un "nuovo Rinascimento", ignorando di gridare nel deserto.
In nome dell'autonomia del politico, dobbiamo dire di almeno tre tentativi di svincolamento dell'alta finanza. Il primo fu cattolico, (segno, fra l'altro, che la Confindustria non garantiva un accordo con i comunisti). Di natura e ispirazione gollista, ebbe protagonisti Fanfani e Mattei, traducendosi nella politica dell'Eni. Con Mattei in seguito mafiosamente ridotto col sasso in bocca. Buon prete cattivo, a suo modo Fanfani fece scuola. Sicché gli allievi decisero di ricorrere alla razza padrona (Enti pubblici Crociani, Cefis, ecc.), senza passare per la Confindustria. Tant'è che questa razza, o caravanserraglio di comis, da Milano e da Torino fu ferocemente attaccata. Terzo tentativo, il pubblico finanziamento dei partiti.
Ma, a latere, due scorciatoie specificamente cattoliche, con Sindona e Calvi: controparti accanite, Mediobanca e il Pri. Progetti con differenze sostanziali e formali. Sindona fu creatura Dc-Vaticano; Calvi, P2-Vaticano. Con il primo, il disegno gestionale (una forte Presidenza) fu perseguito da Andreotti. Col secondo il progetto fu piduista-neogollista. Andreotti e Moro si mossero sempre nel contesto dell'equilibrio fra "progressisti" e "conservatori", ma reclamandone il controllo. Non trovando, in questa orditura, echi favorevoli in Fanfani e in Craxi, posti su un piano più popolare, diretto, di investitura dal basso, che superasse le "ragioni" degli equilibri. Come dire: la politica di Andreotti e di Moro puntava all'elezione da parte delle lobbies; quella di Fanfani e di Craxi aveva come obiettivo l'elezione diretta, plebiscitaria.
Le operazioni Sindona e Calvi tesero a spostare i centri decisionali della finanza italiana da Mediobanca (stanza di compensazione di Agnelli, Pirelli, Bonomi, Pesenti, Monti e altri) verso un "nucleo" cattolico autonomo. Il segnale (o interferenza) per il non-potere fu un siluro a doppia testata: repubblicana e comunista. A Sindona, La Malfa negò l'autorizzazione per la scalata OPA alla Bastogi. Per Calvi, il Pri sollevò la "questione morale". Sindona lasciò un gran buco finanziario, passò dalla suite d'albergo alla cella del carcere, e fu suicidato alla Pisciotta; Calvi, che non aveva mai sbagliato una speculazione, emblematicamente finì impiccato (per messinscena) sotto il ponte londinese dei Frati Neri: ma avendo in pugno le chiavi di 1.800 miliardi, in gran parte scomparsi con lui. Una piccola parte era stata versata a Solidarnosc, un'altra presumibilmente alla P2. Almeno mille miliardi, però, "vagano". Dove? Tre ipotesi: lo hanno appiccato per appropriarseli; sono dispersi - fiume di cento rivoli - fra banche e finanziarie, e nessuno ha il grimaldello di recupero; ce li ha qualcuno, che può usarli. Ma quando, e "contro" chi?
Perdute le razze padrona e padrina, la segreteria democristiana si riavvicina alla Confindustria (che non è solo quella con sede a piazza Venezia). Intanto, rimette i voti che doveva rimettere, variamente coagulati con manovre di tamponamento (il sorpasso, i morti ammazzati per terrorismo). Fuori dalle emergenze, la Dc ha una maggioranza più relativa. Per parte sua, il Pci ha già scelto per il non-potere, parallelamente rinunciando a Moro e all'opzione brigatista. Moro è vittima della fermezza e dell'abbandono da parte di quasi tutti, amici e alleati. Ed è vittima della paura di chi non sapeva quale o quanta altra "geometrica potenza" potessero dispiegare i brigatisti. I quali, d'altra parte, non si muovevano sul terreno della guerriglia diffusa o delle "notti dei fuochi", capaci di esaltare semmai il protagonismo di intellettuali locali, di rivoluzionari-chic, di espropriatori di pregevoli beni di consumo; ma su quello autenticamente sovvertitore del terrore mirato, da "cuore dello Stato" e golpista. Dopo via Fani, e meglio ancora, o più esplicitamente, dopo via Caetani, al Pci le Brigate rosse mandano a dire: senza Moro puoi fare il compromesso storico a tua misura; senza il suo carisma puoi egemonizzare una Dc divisa; il compromesso lo fai da una posizione di forza; soprattutto: con il viatico brigatista salvi il principio leninista della rivoluzione. E invece, nel settembre '79, Berlinguer indietreggia definitivamente: toglie l'appoggio ad Andreotti e alla solidarietà nazionale; va ai cancelli della Fiat e perora il recupero operaista, compreso quello di fiancheggiamento brigatista. Il non-potere è salvo.
"La famiglia è una grande cosa, ma è un cerchio chiuso; e lei non sarò mai che un bastardo". Con queste parole e con una promessa di rendita di quarantamila lire, nei gidiani Sotterranei del Vaticano il conte Juste-Agénor de Baragliuol rimette al mondo, cioè nella pratica delle cose della vita, l'adultissimo figlio illegittimo Lafcadio Wluiki. Così confermando il costume di rinnegamento e sconfessione non solo d'ogni colpa trascorsa o presente e persino vivente, nel senso di testimoniata in sé, ma anche d'ogni progetto o pensiero men che retto o non deviante; nella certezza quasi dogmatica d'aver connivente e favoreggiatore il frutto della colpa, o il complice del progetto; i pensieri essendo, anche se ben interpretati e letti dall'avversario, sempre soggetti a diverse decifrazioni e più spesso intercambiabili, e comunque astratti: adatti alla remissione. "Non importa - rumina Wluiki. - L'importante è liquidare il nostro passato". Il capro espiatorio è parte integrante del rito sacrificale. Purché sia "espressivo": tale cioè - come sostiene il Bonazzi in Colpa e potere - da appagare la richiesta ostile, ma pure che occupi nella scala gerarchica una posizione che non mini le basi stesse del potere. "La Chiesa saprà riconoscere quel che lei sacrifica per essa, e non vuole che venga a suo danno", annota Gide. La Chiesa ha una pratica di millenni alle spalle e l'eternità di fronte. Può permettersi queste riconoscenze. E l'uso politico della colpa consente i baratti.
E' accaduto così - questo costume riferendo ai nostri giorni - che Papa Woytila sia passato da una politica di "intervento in Polonia" a una di compromesso con Varsavia: Walesa prima in scacco, poi di nuovo in sella. E che Casaroli, richiesto - dal ministro del Tesoro - di chiarimenti sul caso Ambrosiano, abbia mandato a picco Marcinkus, (tra i due, vecchie ruggini e gelosie personali; in ballo anche la presenza di un papa straniero, dopo il XVI secolo). In tal modo il Portone di Bronzo perdette mezza Solidarnosc, il "Corriere della Sera" e l'Ambrosiano. Posta in palio: la prospettiva della libertà religiosa in Urss e satelliti. Da segnale a segnale. Berlinguer va a pranzo (una volta si diceva: a far penitenza) nel più importante convento francescano del mondo. Si badi, nessun Francesco che ammaestri il lupo. Dice Baget Bozzo: chi ha paura, oggi, di Berlinguer nel mondo cattolico? le acque del "popolo comunista" e del "popolo cattolico" si son mischiate e confuse: il Pci è servito come valvola di sfogo alla crisi della Chiesa, alle tensioni aperte e non risolte dal Concilio prima, dal dibattito fallimentare dopo. Nel Pci, o attorno al Pci, preti, frati, cattolici impegnati, hanno trovato una nuova loro identità storica, magari attraverso la mediazione del "dissenso". Di fatto, la questione comunista sembra chiusa nel mondo cattolico; e il Pci, anch'esso - ma più in ritardo - ha chiuso la questione cattolica. Questioni passate di mano (da fatto politico a fatto culturale): a Rodano, a Cardia, a Scoppola, Berlinguer in convento appare sotto il segno della curiosità, non più della significanza: "E' la trascrizione di un accaduto, piuttosto che il messaggio di un avvenimento". Perché? Perché l'incontro tra il "popolo cattolico" e il "popolo comunista" avviene in forma plenaria quando queste categorie sono ambedue entrate in desuetudine. la società secolarizzata ha frantumato le identità tradizionali e il vento dell'Ovest ha disseccato le radici della partecipazione di massa. Dopo anni di esercizio di non-potere, l'incontro tra cattolici e comunisti avviene nel momento in cui i protagonisti sono così diversi da non poter essere più antagonisti. Sono un "non-popolo". Nel senso che sono ormai atomizzati in innumerevoli condizioni sociali, che annullano le classi come grandi blocchi di interesse vitale e di partecipazione politica, divisi in occupati, sottoccupati, cassintegrati, disoccupati, prepensionati, possessori di Bot o di case, inquilini, proprietari, supertassati, superassistiti, ciascuno con un raggio di anomalia collettiva e di tipicità propria: tutti insieme soggetto globale inafferrabile. Siamo un paese senza simboli, nel quale "i simboli di ieri divengono le oleografie di oggi". Babele idiomatica e fonetica, di ceppi, di pelli, l'Italia è diventata una Babele di interessi. E per una singolare astrazione generale, ciò che tocca gli interessi comuni non suscita passioni individuali. la vita del singolo non è povera, nel materiale e nello spirituale, così come materialmente e spiritualmente è povera la vita dello Stato e della politica. Ma non c'è liaison tra qualità personale e comportamento comune. Il massimo che è concesso dal non-potere è lo struggimento per il remoto ieri (cossuttismo) o per l'intrigante poco fa (zaccagninismo); o l'impegno congiunto a sabotare le esperienze nuove. In nome di che cosa: dell'immobilismo? Questa piovra, l'immobilismo, così speculare alla nostra storia: Giolitti in declino chiama Turati, poi i cattolici: ma il giolittismo muore con Facta e col Fascismo; Moro apre a Nenni, poi allarga il ventaglio e traduce la "strategia dell'attenzione" verso i comunisti in una solidarietà che - discorso alla Camera in difesa di Gui e Tanassi - non deve scalfire il primato cattolico. Moro e Giolitti in declino sono espressione della nostra storia più autentica, quella degli "equilibri". Persino Mussolini era stato avvantaggiato: aveva di fronte un establishment in grado di dare un'investitura, che oggi non c'è; nel '22 c'erano ancora residui del primo dopoguerra, mentre oggi non ci sono neanche quelli del terrorismo. Resta l'emergenza economica: e su questa è nata l'esperienza laica (Spadolini, Craxi) che rifiuta - con gli alleati più leali - il non-potere, e che rischia di essere dinamica. Chi ha paura di chi? Chi ha paura di che cosa?
Opportunamente riprenderemo questo discorso. Al momento volendo rilevare che il potere del non-potere è anche chiave di volta per chi, non avendo l'opportunità, o l'ingegnosità, o semplicemente l'attitudine a proporre una generale strategia, è comunque in grado di procacciarsi una fetta di clientelismo. Avendo valenza e caratura speculari alla disponibilità, ampiezza e possibilità di manovra della quota clientelare. Esempio: mai un Gava potrà modificare Napoli, ma può assumere, se lo voglia, una generazione di postini partenopei. Cioè: neppure da ministro specifico uno può gestire una politica settoriale, ma può garantirsi un protettorato. Passando poi ad altro ministero. Altro esempio: le minoranze, e segnatamente quelle cosiddette "turbolente". Un gruppo di sindacalizzati dal cuore viola - quattro o cinque, poniamo - può condizionare una trattativa, (leggere: Quanto contano i sindacati, di Walter Tobagi). Ma questo non-potere in sé è democrazia? Malintesi a parte, non può esserlo. Perché agisce elettivamente in posizione di scontro permanente. E perché - lungo il crinale della violenza per la violenza - predica e attua la prevaricazione delle maggioranze; queste essendo, in fatto e in diritto, fondamento di democrazia. La democrazia è espressione delle maggioranze in rapporto dialettico con le minoranze. Con la dialettica delle armi in lista di proscrizione.
Si riconoscono tre maggiori legittimazioni del potere: la forza (violenza pura o astuzia della ragione); un principio universale (l'Allah di Khomeini; o l'etica di Grozio e dei giusnaturalisti); la maggioranza (e meglio: il consenso della maggioranza più o meno qualificata dei cittadini). In una parola: Machiavelli, Dio, Patto Sociale. Ora, la violenza elettiva di quattro o cinque o dieci camici verdi o tute blu o colletti bianchi non rientra in alcun principio di legittimazione: non incide nel generale e nel collettivo, perché non si ispira al superiore. Non è maggioranza. Entra, però, nel gioco delle "autonomie". E qui sorge il problema del filo doppio tra azione autonoma delle minoranze e potere delle maggioranze. In un corretto regime parlamentare, a ciascuna minoranza va riconosciuto tutto quanto teoricamente occorra perché diventi maggioranza, ove trovi consenso: libertà di stampa e d'opinione, anzitutto; e libertà d'agire, entro gli invalicabili confini del rispetto dell'altrui libertà. Poi ancora: legali possibilità di finanziamento, coinvolgimento, non-emarginazione. E così di seguito.
Particolarmente là dove agiscono minoranze stabili, il problema è: valutare oggettivamente se gli interessi da quelle rappresentati siano o meno meritevoli d'ogni più ampia tutela e difesa. In una struttura esecutiva liberale o socialista occidentale, tutela e difesa sono demandate allo Stato, (il rischio è che lo Stato garantisca prima e specialmente se stesso, poi gli altri; o che ad alcuni non riconosca la meritevolezza). In una struttura teocratica o monarchica pura, ("Per grazia di Dio e volontà della nazione"), sono i principii fondamentali di legittimazione della sovranità a determinare anche i valori generali e individuali di meritevolezza, (rischi analoghi ai precedenti, con presumibili distorsioni e aggravamenti). Dunque: in realtà, le minoranze sono autonome solo in quanto dispongano di propria forza politica e culturale tesa al raggiungimento della condizione di maggioranza (o di partecipazione attiva a maggioranze). L'"idea" di Autonomia operaia non avrebbe fatto una grinza, se poche o non poche variabili impazzite non l'avessero degradata in "idea armata". Suicida.
"Chi non vede quanto importi che al di fuori di questo moto ed agitazione ci sia alcun che di certo ed invariabile intorno alla pubblica amministrazione, in modo che possa ritenersi che il bene amministrare sia un bisogno di tutte le posizioni sociali ... ": così, nel 1839, Giovanni Manna, giurista e ministro delle Due Sicilie, anticipatore di successive e nostre realtà contemporanee, e lucida mente nel configurare la funzione della pubblica amministrazione, di garanzia della continuità dei rapporti di classe come contrappeso a fronte di imprevedibili indirizzi ed esiti del sistema istituzionale. Talché oggi la pubblica amministrazione, coacervo di sprechi e inefficienze, è l'imputata prima del dissesto economico che conduce all'instabilità politica; e che alimenta quella criminalità politico-amministrativa che sembra aver sostituito quella politico-rivoluzionaria, ormai relegata in faraonici processi.
Ma non è, questa, la sola mutazione; il soggetto stesso, promotore delle indagini, essendo visibilmente cambiato: la magistratura. Dall'Unità alla Costituzione, l'ordinamento sostanzialmente subordinava il giudice all'esecutivo; e nel tempo seguente il principio della separazione dei poteri consentì la pratica abolizione d'ogni controllo giudiziario su comportamenti e scelte della pubblica amministrazione, che ha dunque operato con proprie regole speciali, esenti e immuni da verifiche di responsabilità. Ora è in dissoluzione, mentre si consolida il "primato" del giudice sull'esecutivo (ma con accanito contrasto dei nemici della trasparenza), quando questo operi su aree regolate dal diritto comune. Ma la magistratura, allora, è tanto più forte (e credibile) quanto meno è organica al potere? Nei fatti, il magistrato applica la determinazione generale di un potere superiore, quello del legislatore. Ha un potere derivato e vincolato. Ma mentre un potere amministrativo è subordinato agli interessi che è chiamato a difendere ed è garantito dal ricorso giurisdizionale, il potere del pretore o del presidente di corte d'assise, pur essendo formalmente più vincolato, non deve rispondere a interessi amministrativi. Non risponde a un altro giudice.
Che è come dire: mentre un funzionario dello Stato, il quale eserciti una potestà amministrativa, è sottoposto gerarchicamente all'intervento del suo superiore, un'eventuale riforma in appello del giudizio erroneo del magistrato (malafede a parte) non prevede intervento censorio del superiore e non produce sanzioni disciplinari. La Cassazione può dire mille volte come vada interpretata una legge: se il magistrato di merito (giudicante) o il Pm intende disapplicare o interpretare diversamente, ne ha facoltà, e comunque potestà.
In questi nostri anni si è particolarmente osservato che l'esercizio del potere (autonomia e conseguente diritto d'azione) del magistrato è direttamente proporzionale alla presa di distanza dal Potere (Palazzo). Chi poi intenda lamentare l'eccessivo potere del magistrato, valuti quante volte il legislatore ha qualificato come reati e formalizzato come attività giuridica fatti che in altre civiltà sono ritenuti, per il diritto, irrilevanti. Nel campo dell'ecologia, emblematicamente. Una norma del diritto civile vietava gli agenti molesti. Il contravventore era citato in giudizio per il blocco dell'attività nociva e per la riparazione del danno. Formalmente, quanto meno, il diritto a non esser molestati era tutelato. Di fatto, se nessuno agiva (o se preventivamente l'autore risarciva) non esisteva difesa adeguata contro gli inquinamenti. Il legislatore, invece di legittimare i comuni o altri enti pubblici e collettivi alla tutela amministrativa o civile di quell'interesse, ha ritenuto di dover sanzionare penalmente la violazione. Alla radice di questa scelta, la consapevolezza che le istituzioni rappresentative di una comunità non avrebbero garantito l'interesse pubblico; mentre altrove proprio questo si verifica: agisce il sindaco o l'ombudsman, i quali controllano con strumenti amministrativi, e non penali, che le leggi siano rispettate. In ultima analisi: lo Stato ha accettato l'irresponsabilità
amministrativa e politica dei gestori del potere, pagando i guasti con un sovraccarico penale. E però oggi nessuna mitigazione del rigore penale compenserà la caduta d'iniziativa amministrativa e pubblica. là dove il mondo moderno richiede un elevato grado di responsabilità e di flessibilità dell'operatore.
Esempio: l'addetto a una macchina sofisticata comanda su un sistema di grandi dimensioni ed è chiamato a supplire a tutte le carenze di fantasia e di creatività proprie di quella macchina. Per la grandezza degli effetti del comando e per la professionalità richiesta, l'operatore non può non essere altamente responsabile. Altro esempio: nel sistema commerciale è propositivamente produttivo quel tipo di iniziativa che riesca a coordinare al millimetro previsioni di mercato, produzione, tempi e modi di distribuzione; non essendovi più una catena automatica dalla produzione alla distribuzione, ma più rilevanti che in passato rivelandosi i problemi del gusto, chi opera la scelta produttiva dev'essere estremamente responsabile e deve poter contare su una struttura molto flessibile. Così per il potere pubblico: per essere efficace e tempestivo, dev'essere flessibile e responsabile. Altrimenti è potere (auto)limitato.
Le esigenze della vita associata e la velocità delle relazioni richiedono che ciascuno abbia la certezza di aver di fronte interlocutori con poteri decisionali determinati e chiari, con responsabilità non divisibili né delegabili (eccezioni a parte), con sfera operativa autonoma e autosufficiente. I correttivi all'abuso di potere, all'omissione di atti d'ufficio, o per chi contravvenga all'interesse pubblico, debbono prevedere una sanzione elevata. E proprio in questa direzione un'attenuante della malversazione potrebbe essere l'efficacia dell'azione politico-amministrativa. Ippolito cadde per una storia di peculato, ma tutti riconobbero che la sua politica energetica era utile allo Stato.
Quale danno è stato maggiore: annientare Ippolito o annientare la sua politica per l'energia? La risposta pone una questione morale. Ma la morale, scriveva Pavese nel Mestiere di vivere, è il mondo dell'astuzia. In un sistema non statuale, il funzionario capace ma ladro viene sanzionato ma rimane al suo posto, a meno che il suo ladrocinio non si traduca in infedeltà nei confronti delle finalità della struttura. Se alla Sip uno ruba sugli straordinari o sulle spese di rappresentanza, è penalizzato amministrativamente; ma se abilissimo nel lavoro, resta al suo posto. Nello Stato, se un funzionario è ladro e viene scoperto, è trasferito, con immancabile - fino a poco fa - copertura della responsabilità penale.
Obiezione: questo sistema è valido quando ci sia identità d'intenti all'interno di una struttura; allora soltanto si possono assumere criteri di valore. Ma nella struttura politica, quel che va bene a un partito non va bene a un altro, perché sono differenti le finalità che convivono in precari equilibri nell'identica struttura. Un modo per rendere efficace e flessibile la struttura politica è quello di farla operare nei campi in cui le varie componenti siano comunque d'accordo.
Esempio: sono, le forze politiche italiane, tutte d'accordo sulla difesa di questo Stato? E lo sono sulla lotta all'inflazione? E sulla sanità? Non lo sono. Allora: a ciascuno le proprie responsabilità. Per i metodi di lotta all'inflazione, si trasformi in potere il non-potere della Banca d'Italia, che è organo tecnico preposto. Per la sanità, si ricorra semmai al sistema assicurativo (europeo, visto che quello italiano è infido). E per lo Stato?
Ha scritto Dante Troisi né I bianchi e i neri: "Confondiamo la tolleranza con la debolezza. La tolleranza sottintende una vigorosa, illuminata fiducia nel bene senza violenza, e però non esclude la denuncia sistematica del male. Invece, il nostro atteggiamento di irosa remissività, di passivo disgusto, rivela la scarsa coscienza del mio, del tuo diritto alla denuncia, e crea un conformismo più dannoso dell'acquiescenza pura e semplice. I volontari dell'obbedienza ad ogni costo non hanno scrupoli: colgono il lato conveniente della loro condotta e stanno in pace; noi, i protestanti velleitari, con l'incapacità di durare nella indignazione, di colmare la misura del rifiuto, con la tendenza a minimizzare i contrasti, a coprire di riserve il dissenso, concorriamo a consolidare il prestigio di qualunque Potere [ ...].Una condotta, questa, che riduce all'impotenza: non incoraggia i deboli, non contrasta l'arbitrio e ci rende complici del sistema, col ricatto diventato regola, io corruzione una norma, l'ambizione gabellata per disinteresse ... ".
Si è da tempo notato che le procedure dello Stato liberal-democratico sono state cambiate e persino stravolte dalla pratica dei rapporti sociali. Specie nei casi più significativi, come i grandi accordi tra sindacato e imprenditori, o tra Stato e parti sociali, la natura e i limiti della concezione liberal-democratica sono stati sostituiti da forme diverse di mediazione. Usando una terminologia tradizionale: la politica degli interessi ha modificato la struttura giuridica e consuetudinaria prevista dalla teoria liberal-democratica. Mentre in quest'ultima l'enfasi sempre è stata posta sull'individuo e sulle sue capacità razionali di scelta, ora l'attenzione è rivolta principalmente alle istituzioni collettive. Ma non è solo la natura associativa di queste nuove forme di organizzazione a caratterizzare una diversa percezione dei fenomeni. Un'intera gamma di interessi, prima trascurati, quanto meno formalmente, sono adesso considerati parte integrante di ogni politica sociale di respiro. Il caso classico vede riconosciuti, accanto ai diritti civili e politici che da sempre accompagnano la vita degli Stati liberal-democratici, i diritti sociali che si accompagnano allo "stato del benessere". E tuttavia, una crisi economica mondiale trasforma la lotta distributiva in un "gioco a somma zero". Non ci sono, cioè, nuovi vantaggi da distribuire, e dunque si devono ripartire i costi della crisi tra le parti sociali. la scarsità delle risorse impone nuove modalità di interazione sociale. Di conseguenza, cambia la natura degli attori, che da individui razionali diventano organizzazioni collettive. Sicché nessuno scienziato sociale, neanche il più affezionato all'eredità liberale classica, condivide oggi gli anatemi che Adam Smith e John Locke lanciarono contro ogni forma di associazionismo che in qualche modo ricordasse le corporazioni medioevali. Né, ai nostri giorni, può esaltarsi un neo-corporativismo (corporate), che implica solo un aumento delle capacità di controllo e oscilla (nei grandi accordi) tra il danno a terzi e l'immobilismo.
Allora? Allora: occorre trovare un'altra base d'intesa. In realtà, questo Stato è così slabbrato, sfibrato, privo di omogeneità d'intenti, rigido operativamente, perché il suo ordinamento costituzionale è frutto del concorso di forze politiche divergenti. Questo Stato non poteva essere diverso da quello che è. Il problema è ancora e sempre trovare una linea di minima sopravvivenza con la quale incidere con la prontezza (minor vischiosità) e l'energia (minor debolezza) necessarie; oppure far emergere da un tipo nuovo di contratto sociale una classe dirigente meno disomogenea. Ipotesi quanto mai improbabile: perché la gente stradale è quanto mai smagata e offesa dalle parole d'ordine e gabbie moralistico-ideologiche; e il frazionamento di interessi e poteri (il non-potere generale) ha creato isole inespugnabili, irriducibili persino in arcipelaghi più che in continenti, in presenza di mezzi tanto scarsi che si possono favorire solo alcuni a danno di molti.
Esiste un criterio fondamentale di reggimento dei governi, che è quello di incidere sul sociale facendo leva sugli interessi più evidenti dei consociati. E in ogni caso, potranno esserci frange radicalmente antagoniste nei confronti delle quali, di norma e istintivamente, gli altri tendono ad applicare il più stretto apartheid, dal ghetto al ku klux klan, fino al genocidio, indio, pellerossa, armeno, albanese, palestinese che sia. E' Sparta: dove i più, e soprattutto i più forti, erano omogenei. E Sparta, senza produrre nulla, signoreggiò il Peloponneso. L'eterna Sparta ha reso omogenea e libera la società americana: cancellando l'autoctona.
E qui entriamo nel secondo principio, della libertà degli uguaii. I Pari di Spagna, dello stesso livello del Re, (il quale comunque si riservava un empireo sovrano e preminente), avevano diritto a un proprio tribunale e a precise guarentigie: anche contro il potere regio. Come accadde in seguito in Francia, nel Regno Unito e in tutto il mondo post-feudale. A Londra il Parlamento, eletto fra chi pagava le tasse, nacque come tutela del contribuente da spese che non fossero da costui approvate. Primigenia, la democrazia britannica non nacque come democrazia, ma come tutela di un'entità contro le presumibili prepotenze di un'altra entità, superiore. Una rivoluzione borghese.
Saranno i francesi a introdurre nel filone inglese la componente radicale. Nel 1642, Cromwell capeggiò una rivolta di eguali contro una monarchia disomogenea agli interessi costituiti con la riforma del decapitatore di Tommaso Moro, Enrico VIII: re poligamo e provocatore, indispettito con Roma, il Tudor creò una quantità di borghesi e di piccoli nobili, arricchendoli a spese della Chiesa cattolica.
E proprio costoro si rivoltarono contro Carlo I; il quale, volendo restaurare un diverso ordine e potere monarchico e confessionale, colpiva interessi prevalenti e in consolidamento; appoggiandosi ai quali, e issando la bandiera della libertà religiosa, Cromwell borghesemente stravinse.
Nato da una rivoluzione borghese, di concomitanti interessi emergenti, e liberatosi di Danton, Robespierre non possedeva l'arma della religione. Allora fece ricorso a quella del proletariato: la plebe di Parigi, gli spartachisti della nuova età. Nacque il moderno radicalismo. Che Napoleone sostituì, poi, con un altro idolo: l'interesse nazionale, l'anelito patriottico, la grandeur imperiale. Ma nel cono d'ombra di un'astuzia: la liberalizzazione della scala gerarchica, su base strettamente meritocratica. "Ognuno di voi può diventare maresciallo di Francia". Ma una plebe incolta non può acquisire il merito attraverso l'attività imprenditoriale. Può acquisirlo in guerra. Cioè: la violenza è un tipo di "arte" che accomuna, quanto ad abilità, il nobile al plebeo. In sua assenza, e in surrogato, nel mondo emerso da due sterminii planetari, il coacervo delle attività politiche, le infinite e caotiche punte emergenti di minuscoli icebergs intralcianti e contraddittoriamente vaganti, come malintesa geografia della "partecipazione": la quale, per non essere non-potere, dovrebbe coonestarsi e agire in un campo e materia diversi.
Ci si chiede quale sia il minimo comun denominatore sul quale tutti possano trovare convergenza. E si risponde: occorre stonacare la vita politica; disincrostarla dalle ferree ideologie, dai dogmi imperforabili. Perché ancora ai nostri giorni troppe scelte sono state tatticamente accolte o respinte non per criteri di utilità pubblica, ma in funzione di strategie d'equilibrio. E, nella più nobile delle ipotesi, in proiezione non della polis, ma del blocco: per l'Est o per l'Ovest. Di qui, anche, il massimo dei non-poteri: quello dell'Europa.
"Come tutte le voci più autentiche, anche quelle della letteratura, dell'arte e della cultura non hanno molte possibilità di farsi ascoltare: il condizionamento dell'industria culturale, il suo apparato capillare che è gestito al Nord, non permettono perforazioni, rotture, intoppi. Ma l'uomo di cultura del Sud non deve mollare, non deve demordere... Non si lascino incantare gli uomini del Sud dalle sirene della cultura "nazionale" o "europea" che arrivano dal Nord (evasione, alta evasione!). Essi hanno un grande compito e penso ai più giovani, a quelli che hanno le forze ancora intatte ... ". Così Nino Palumbo, nel '72. Vittime di una povertà nera, i giovani. Povertà politica, innanzitutto: nel senso di una pestilenziale aridità che ha trasformato la polis in città fantasma, o in città di fantasmi portati come vuole il vento, che non ha pensiero; politico-culturale, con smisurata ubriacatura di de-responsabilità e con micidiali teorie del non-lavoro che creano oggetti di assistenzialismo, non soggetti di progettualità; con l'effimero, con la società-spettacolo; politico-economica, infine, cioè razziale, emarginatrice, antiscientifica, neocoloniale, di solide e redditizie colonie al servizio di un Commonwealt lontano occhiuto inesorabile. Di autoctono, la nostra incultura ha riproposto il "nicolinismo" (panern et circenses). E intanto oltre Atlantico si abbandonava l'effimero (Febbre del sabato. sera, Non si uccidono così anche i cavalli?, Staying Alive), nel nome della cultura della rivincita, del riscatto (Rambo), e dell'agonismo, dell'uscita di sicurezza da una vita da pattumiera, della professionalità anche nelle cose minime e microscopiche.
Da noi, la passività ha abolito persino l'utopia. Ha scritto una volta Lamartine: "Le utopie sono spesso delle verità premature". Dovremmo dunque temere l'avvento dell'orwelliano "Grande Fratello", invisibile e oppressore? O della "Grande Sorella", l'elettronica disattivatrice del pensiero, e soprattutto del pensiero critico? O ci stiamo avvicinando a quell'"era Ford" dalla quale comincia a scandirsi il tempo storico del Nuovo mondo di Aldous Huxley? Oppure sta per realizzarsi lo Stato unico, con la sua "felicità matematicamente esatta" preconizzata in Noi di Evgénij Zamjàtin? Queste utopie (che risalgono al '22, al '32, al '48) hanno in comune due cose: lo sfondo tecnico-scientifico (matematica-ingegneria per Zamjàtin, biologia per Huxley, tecnica dei mass media per Orwell); e la caratteristica di "distopie" o "neg-utopie": utopie negative. Perché?
A partire almeno dalla Repubblica di Platone, attraverso l'Utopia di Tommaso Moro, la Città del Sole di Campanella, la Nuova Atlantide di Bacone, il Robinson Crusoe di Defoe o i Viaggi di Gulliver di Swift, fino agli inizi di questo secolo, la letteratura utopistico aveva sempre disegnato città o società perfette, o aveva svolto critiche alle società reali, ma sempre in nome e per conto di società ideali future e migliori. Perché una tradizione bimillenaria si è arrestata? Soprattutto: per chi? Una frase di Nicola Berdiaeff posta ad epigrafe del romanzo di Huxley è l'indizio di una risposta: "Le utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse un tempo". Il dato è storico: il nostro è il secolo che ha visto le utopie trasformate in realtà, a cominciare dalla mitica Erewhon (il luogo utopico di Samuel Butler, anagramma di Nowhere, "in nessun posto"). Esse sono discese tra noi. Ma non per tutti. Da qualche parte, "Dio ha fallito", il suo Verbo non si è fatto carne e storia. In un'area del mondo che ha il nome più antico del mondo: il Sud. Quello oltre Eboli. E quello oltre la linea planetaria dell'opulenza.
Di "letteratura e industria" si parlò, a cavallo della morte di Stalin, in un numero di "Nuovi argomenti" (1958) e in due di "Menabò" (1962). Che fatica ricordare quegli anni, dice Renzo Zorzi: "E quante passioni rimosse, che sprechi di menzogna, che inconfessate nostalgie arcaiche (e arcadiche), mentre una parte del paese cercava, confusamente, spesso in un clima di ferro, crudelmente anche, di darsi una struttura moderna, di diventare, tra mille errori, una società industriale!".
E quanto sperimentalismo linguistico - anche nell'intrigante Una nuvola d'ira di Arpino - e quante pagine maldestre per tentare di "rivestire scheletriti manichini narrativi [ ...] di un sociologismo ridotto a briciole, ma perentorio" che avrebbe prodotto nell'Università di Trenta il laboratorio-matrice dell'idea rivoluzionaria e alla Pirelli di Milano la prima struttura (la "Brigata Rossa") dell'idea armata. A Nord, dove la fabbrica era di casa, tutto nacque e tutto morì, con Ottieri (Donnarumma all'assalto) e con Volponi (Memoriale), nell'area olivettiana, cioè nel più caratterizzato spazio di riformismo industriale, peraltro astiosamente disinterpretato e irriso soprattutto dai letterati. Altri libri del momento, che son fatti entrare nel discorso, sono invece cosa diversa. La costanza della ragione, di Pratolini, ne è fuori, anche se ha una fabbrica sullo sfondo; come ne è fuori Lo scialo, che cede al patetismo e si concede anche al torbido, dunque è altro dalla coscienza della "condizione operaia" e della "proletarietà" che vi è più puntigliosamente affermata che realmente mostrata.
Così anche il Cassola degli anni migliori: l'identità dei suoi personaggi è più popolana, ottocentesca, che proletaria; la loro vita non conosce l'urto con la società dell'industria, che semmai è presenza sentita per ciò che sottrae: il lavoro nelle botteghe artigiane, che sono l'unico, modesto orizzonte. Ed è fuori Pavese, tanto scrittore più intenso quanto più i suoi tormentati vagabondi si gettano la vita alle spalle, eradicati, attoniti, grumi di fatalità, rudi anime affabulanti. E marginale il Calvino di Una nuvola di smog, splendido e asciuttissimo racconto di un dramma individuale per un mutamento di identità, più che di un'autentica sociologia dell'urbanesimo industriale. E più marginali ancora l'arruffone Bianciardi delle nostalgie maremmane e il Mastronardi dei padroncini vigevanesi.
A parte le frivolezze del Buzzi e del Pirelli, fu il controverso Padrone di Parise ad aprire le ostilità sulla questione dell'industria culturale, mentre il Micheli di Tutta la verità rimase perfettamente illegibile, e il raffinato Bigiaretti tentò di innestare alla sfera delle relazioni sentimentali la categoria economica delle "ragioni di mercato". Romanzo di anticipazione, invece, fu Tre operai di Bernari, forse insieme con La masseria di Bufalari. E potrebbe essere tutto qui il quadro di un'insolvente letteratura industriale italiana, se poi non si dovesse registrare la produzione del quindicennio successivo al '68, quella degli ideologi degli anni di piombo, "abbeverati d'infelicità", e "affamati di dolore", con la loro volontà di denuncia, con il loro rancore, con le loro rabbie in corpo. "Certo - diceva Brecht - ci vorrebbe una gran rabbia, ma dove trovarla?". La trovarono, costoro, nella descrizione di fabbriche non contemporanee, se non in casi sporadici, e in ritratti in buona parte postumi, nel senso di ritardati; frutto di lettura pregresse, più che di esperienze coeve, e dunque con la frattura dell'anello che concatenava il paleo-vetero-capitalismo al neo-capitalismo. Così, l'operaio sociale teorizzato negli anni '70 sopraggiunse in fabbriche che non esistevano più, quelle inerti, statiche, vuote, del passato. Anche l'idea armata, allora, lavorava a un non-potere, ad un'opera senza nome, come le streghe di Macbeth.
E al Sud? Giunta faticosamente - come il carbone, come la macchina a vapore - la fabbrica fu subito vecchia catena automatica di produzione. Alienante anche per energie vergini, forse proprio per questo ancora più alienante. Il rigetto di Di Ciaula (Tuta blu) fu comunque il solo segnale spartachista. Poi la fame diede un nome al silenzio di tutti. D'altra parte, la "rivoluzione scientifico-industriale", di cui parla Snow, era destinata comunque a investire la società meridionale per la legge interna del suo sviluppo autonomo e per quella
evolutiva del mondo contemporaneo. "Sul piano delle giustapposizioni e contraddizioni storiche di cui è impossibile afferrare tutte le forze - ha scritto Cassieri - in un processo così sconvolgente, il problema [ ... ] investe e impegna la sostanza dell'uomo, di tutto l'uomo". Di quale uomo, e in quale società?
Bobbio distingue in Italia due tipi di cultura, corrispondenti a due tipi di società sviluppate parallelamente: una in prevalenza scientifica, nel Nord industriale (Romagnosi-Cattaneo-Scuola Positivista); e l'altra in prevalenza storicistica, nel Sud post-contadino, con le sue alternanze spiritualistiche e materialistiche (Spaventa-Labriola; Croce-Gramsci). Questa, speculativa, posta "al di sopra delle questioni proposte dalle diverse scienze e dall'esperienza comune", corre spesso il rischio di cadere nella retorica o nella demagogia; l'altra, scientifica, corrispondente a una mentalità empirica che procede "per gradi, esaminando una questione per volta, e non accetta altro criterio di verità che la verifica sperimentale", che corre spesso l'altro rischio, di cadere nell'evasione o nel grigiore. Chi non le ha orchestrate? Storia, geografia, linguaggi, ethnos, clima, rapporti con il tempo e, rapporti con gli altri uomini. lo spazio, insomma: sicché chi ammira Gadda ammira anche Beckett e Borges, e chi ammira Silone ammira anche Faulkner e Caldwell.
Ha scritto Calvino né Gli ultimi fuochi: "Oggi questo senso dell'emergere di nuovi continenti del sapere non c'è in nessun posto, e da noi meno che mai. Le condizioni per far nascere un nuovo movimento d'avanguardia potrebbero essere solo nell'insoddisfazione per quel che c'è, e questa certo non può mancare. La letteratura si è andata atomizzando (non solo in Italia); ognuno di noi pensa a quel poco o tanto che può fare e s'interessa sempre meno di situarlo in un contesto; e questo atteggiamento pare prevalente anche e soprattutto nei più giovani. Come se nessuno sapesse più immaginare un discorso che colleghi e opponga opere, impostazioni, tendenze, nel momento del loro farsi, ricavando un senso generale dall'insieme delle produzioni individuali. E' qui che avanguardia, pre-avanguardia e post-avanguardia non hanno avuto eredi". Fra undici anni è terzo millennio.

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