La necessità
di ricercare una nuova etica pubblica, razionale e laica, mi trova
pienamente d'accordo. Intendo però riferirmi al termine "etica"
e ancor più alla cosiddetta "etica degli affari"
con molta parsimonia. Ritengo che di questo termine oggi si tenda
ad abusare come per tutte le parole di moda; e poi temo che si rischi
di cadere in discorsi di ambiguo moralismo. Per non cadere in equivoci,
voglio subito dire che il problema dell'etica in economia è
essenzialmente un problema di "intelligenza" dei comportamenti
economici e delle regole del gioco che una collettività deve
fissare, per attuare gli obiettivi che si è proposta, pena
la rinuncia al suo essere collettività libera e democratica.
Oggi il capitalismo non è più in discussione, come lo
è stato invece per un lungo periodo nel nostro Paese; un periodo
che ha prodotto conseguenze pesanti che ancora ci portiamo dietro;
che ha impedito l'allargamento della base strutturale del nostro sistema
industriale; che ha favorito la crescita delle non-imprese parassitarie,
la dilatazione abnorme dello Stato sociale, la corruzione mafiosa
alimentata da una gestione della spesa pubblica deliberatamente incontrollata.
Oggi il sistema capitalistico e il profitto non sono più messi
in discussione. Si giunge persino all'eccesso di nascondere sotto
l'etichetta di capitalismo iniziative che sarebbe più corretto
definire come abuso o sfruttamento; si confondono con il profitto
quelle che sono rendite più o meno parassitarie. Non è
capitalismo e non è profitto quello che è ottenuto a
spese della collettività presente o futura, che sottrae risorse
per il futuro, che distrugge senza creare, che non è il risultato
di un impegno innovativo dell'imprenditore.
Mi pare che sull'onda della rivincita dei concetti di capitalismo,
imprenditorialità, mercato, dopo la fase di oscurantismo degli
anni '70, oggi si sia dato troppo spazio ai falsi valori del mercato
senza regole. Il capitalismo ha bisogno di basarsi su regole precise
e non sulla legge della giungla dove chi è più forte
arraffa di più a spese di chi non ha modo di difendersi, e
cioè a spese della collettività e dei cittadini.
Dobbiamo dirlo chiaramente: la rivincita del capitalismo - quello
vero - in questi ultimi anni deriva dal fatto molto concreto che il
capitalismo si è dimostrato la più efficiente macchina
economica per l'accumulazione di ricchezza e per lo sviluppo. Tutte
le altre macchine economiche inventate dall'uomo hanno dato risultati
che con l'andar del tempo si sono rivelati più o meno fallimentari.
Ma non dimentichiamo che il capitalismo è solo una macchina;
è uno strumento che è al servizio della crescita del
sistema economico-sociale, non per lo sfruttamento di molti da parte
di pochi. Tocca alla collettività fissare gli obiettivi di
sviluppo e creare le condizioni perché lo strumento capitalismo
sia orientato nel modo più efficace al raggiungimento di tali
obiettivi.
Oggi, da parte di alcuni si tende nei fatti a considerare il profitto
come un fine, mentre in realtà esso è solo una misura
indispensabile e un vincolo inderogabile. Il profitto non è
e non deve essere mai ritenuto il fine, l'obiettivo primario dell'impresa,
che è invece quello di produrre beni e servizi a costi competitivi,
creando nuova ricchezza.
Se il profitto lo si considera un fine, si cade in una logica perversa.
Per ottenere il profitto si rischia di ignorare o distruggere la prospettiva
di sviluppo futuro dell'impresa; talvolta, in modo più ambiguo
e pernicioso, nel nome del profitto si provocano incommensurabili
danni alla collettività e alle generazioni future.
Se, invece, il profitto è considerato né un fine né
una misura né un vincolo, si corrono altri due seri pericoli.
O crescono in modo abnorme le imprese assistite, che sperperano risparmio
e denaro pubblico, oppure prosperano grandi public companies, più
simili a fondazioni che ad imprese, e come tali strumento di conservazione
e di immobilismo imprenditoriale.
L'impresa è un bene sociale prezioso che va lasciato libero
di esprimere la propria carica vitale, ma va tutelato e orientato
attraverso regole definite dalla collettività in funzione dei
suoi obiettivi primari. Non vi è contraddizione tra l'esigenza
di libertà dell'imprenditore e la definizione di regole del
gioco da parte della collettività. La condizione è che
l'imprenditore sia un vero imprenditore, e che la collettività
sia in grado di interpretare effettivamente le sue esigenze e le sue
finalità e di darsi regole conseguenti e serie.
La definizione di queste regole è un compito primario dello
Stato e della classe politica. Ma per stabilire regole chiare per
il mercato e per il comportamento delle imprese bisogna anche avere
chiaramente definito gli obiettivi che ci si propone di raggiungere.
Sono convinto che la confusione e la fatica con cui nel nostro Paese
si cerca di definire delle regole - la lunga gestione della legislazione
antitrust ne è un chiaro esempio - sono frutto di una incapacità
di definire gli obiettivi reali del sistema.
Questa incapacità è particolarmente grave oggi, in un
momento di radicale ripensamento in Europa degli obiettivi e delle
regole necessarie per affrontare la competizione mondiale.
Le nuove regole che la Cee va definendo in vista del 1992 non sono
necessariamente la miglior
soluzione possibile per l'Italia. Queste regole sono il risultato
di una contrattazione tra coloro che già dispongono di chiare
normative nazionali e intendono imporle a livello europeo per avvantaggiare
il proprio sistema economico-industriale. Chi è assente da
questo gioco dovrà accettare quanto deciso da altri.
Nell'assenza di obiettivi e di regole esplicite si sviluppano le regole
mafiose, gli abusi del potere e la corruzione che sono un grave ostacolo
all'imprenditore che non intende rinunciare al proprio ruolo. In un
sistema così costruito diventa quindi assai più difficile
lo sviluppo di un capitalismo intelligente; si creano, invece, condizioni
che vanno a tutto vantaggio di modelli distorti di pseudo-capitalismo
grezzo e parassitario.
E' capitalismo intelligente quello che considera obiettivo delle imprese
non il profitto, ma la potenzialità di sviluppo, attuale e
futura, in un'ottica di bilancio allargato dei costi e dei ricavi.
Vi sono tanti bilanci apparentemente sani che in realtà sono
"truccati" perché non includono i costi collettivi
che l'impresa ha determinato e che in tempi successivi ricadranno
sulla collettività e sull'impresa stessa.
Oggi la responsabilità di costruire un sistema economico eticamente
corretto è lasciata in troppo larga misura alle imprese.
In questi ultimi anni, gran parte dell'industria italiana ha dimostrato
un'intelligenza imprenditoriale tanto più sorprendente perché
congiunta ad una situazione di pesante rigidità o ritardo del
sistema istituzionale. L'industria è stata in grado di cogliere
il senso delle grandi trasformazioni dello scenario internazionale;
ha reagito alla sfida delle nuove tecnologie e della globalizzazione
dei mercati ripensando le strategie, le strutture organizzative. Vi
è stata una evoluzione nella cultura e nella mentalità
aziendale di molte imprese che le ha portate a definire nuove regole
di comportamento. Sono regole che le imprese si sono auto-imposte
e che spesso vanno nel senso del rafforzamento del mercato e del capitalismo
vero. Talvolta sono regole che innovano significativamente e che aprono
la via a nuovi sviluppi.
Per fare un esempio, posso citare la proposta di nuove relazioni industriali,
che è stata elaborata in Olivetti e concordata col sindacato
in materia di informazioni e di collegamento delle retribuzioni ai
risultati economici dell'azienda. Si tratta dell'avvio di un processo
che è destinato ad estendersi a macchia d'olio e che potrà
avere riflessi rivoluzionari nella cultura civile e nei comportamenti
di larghi strati del Paese.
Questo accordo è un esempio di intelligenza economica da parte
dell'impresa e da parte del sindacato, perché mira allo sviluppo
tenendo conto di una situazione profondamente mutata nell'organizzazione
delle imprese, nella funzione del lavoro all'interno di un'industria
hightech, nei vincoli imposti dalla competizione globale. Ancora,
si può ricordare che vi è oggi una preoccupazione nuova
e reale in molte imprese circa la necessità di una maggiore
responsabilizzazione in tema di inquinamento dell'ambiente, anche
in caso di assenza o con funzione delle regole in materia.
Quest'ultimo esempio mi pare molto significativo. E' chiaro che l'"intelligenza"
spontanea delle imprese non può andare oltre certi limiti.
La competizione è leale se c'è una uniformità
di regole da rispettare per tutti, di costi addizionali da sostenere
per ridurre l'inquinamento. Se non ci sono regole, o se queste regole
non sono fatte rispettare, la protervia di chi è insensibile
ai costi sociali ed economici di lungo periodo scardina il sistema
della competizione leale e - cosa ancora più grave - dissuade
le iniziative "intelligenti" da parte di altre imprese.
Il risanamento etico dell'economia italiana deve basarsi su un sistema
Stato e un sistema delle imprese che procedano in sintonia, l'uno
definendo i grandi obiettivi collettivi e fissando le regole per il
buon funzionamento del mercato verso quegli obiettivi; l'altro fornendo
il potente motore dello sviluppo intelligente e della distribuzione
della ricchezza. Finora, questa sintonia è mancata e il Paese
ha sofferto del crescente divario tra il rinnovamento del sistema
imprenditoriale e l'arrancare delle istituzioni. E' questo divario
che-frena lo sviluppo di un capitalismo sano.
Non c'è intelligenza economica quando lo Stato non è
in grado di rimettere in ordine i suoi conti; quando continua a creare
voragini nel proprio bilancio, vuoi per l'inefficienza di tanti enti
pubblici, vuoi per l'incapacità di definire chiari obiettivi
per il sistema-Paese; quando in larghi strati sociali rafforza la
preferenza per la rendita e il garantismo; quando premia il non-cambiamento,
il non-rischio, il non-sviluppo.
Non possiamo farci illusioni: non è con un generico appello
a comportamenti eticamente più corretti che il sistema italiano
si rinnova. Occorre una svolta nella cultura del Paese a livello di
istituzioni e di sistema politico. Occorre dare una risposta chiara
ad interrogativi del tipo: verso quali obiettivi collettivi, verso
quale società l'Italia si muove? quali sono i valori prioritari?
quali sono le regole da rispettare?
Nell'attesa di una risposta a questi interrogativi da parte della
classe politica, gli imprenditori - soprattutto quelli che sono impegnati
nella costruzione di un capitalismo intelligente hanno dato essi stessi
nei fatti alcune risposte concrete.

Ma obiettivi e regole sono una responsabilità primaria della
classe politica, perché è lo Stato che deve mediare
tra le molteplicità degli interessi delle imprese e delle classi
sociali. E' una responsabilità pressante, perché si
tratta di tradurre in un sistema articolato e coerente quei principi
che il Paese nelle sue componenti più vitali, siano imprese
o cittadini, sta indicando sempre più esplicitamente.
Questa è la sfida che sta davanti alla classe politica: una
sfida enorme, ma anche affascinante perché offre l'opportunità
di costruire qualcosa di radicalmente nuovo, di introdurre finalmente
intelligenza e razionalità in un sistema che oggi nelle sue
strutture di base è inadeguato alle esigenze dello sviluppo
degli anni '90 e alle esigenze di un capitalismo più sano,
più intelligente e quindi eticamente più corretto.
