§ Obiettivi e regole

Intelligenza del capitalismo




Carlo De Benedetti



La necessità di ricercare una nuova etica pubblica, razionale e laica, mi trova pienamente d'accordo. Intendo però riferirmi al termine "etica" e ancor più alla cosiddetta "etica degli affari" con molta parsimonia. Ritengo che di questo termine oggi si tenda ad abusare come per tutte le parole di moda; e poi temo che si rischi di cadere in discorsi di ambiguo moralismo. Per non cadere in equivoci, voglio subito dire che il problema dell'etica in economia è essenzialmente un problema di "intelligenza" dei comportamenti economici e delle regole del gioco che una collettività deve fissare, per attuare gli obiettivi che si è proposta, pena la rinuncia al suo essere collettività libera e democratica.
Oggi il capitalismo non è più in discussione, come lo è stato invece per un lungo periodo nel nostro Paese; un periodo che ha prodotto conseguenze pesanti che ancora ci portiamo dietro; che ha impedito l'allargamento della base strutturale del nostro sistema industriale; che ha favorito la crescita delle non-imprese parassitarie, la dilatazione abnorme dello Stato sociale, la corruzione mafiosa alimentata da una gestione della spesa pubblica deliberatamente incontrollata. Oggi il sistema capitalistico e il profitto non sono più messi in discussione. Si giunge persino all'eccesso di nascondere sotto l'etichetta di capitalismo iniziative che sarebbe più corretto definire come abuso o sfruttamento; si confondono con il profitto quelle che sono rendite più o meno parassitarie. Non è capitalismo e non è profitto quello che è ottenuto a spese della collettività presente o futura, che sottrae risorse per il futuro, che distrugge senza creare, che non è il risultato di un impegno innovativo dell'imprenditore.
Mi pare che sull'onda della rivincita dei concetti di capitalismo, imprenditorialità, mercato, dopo la fase di oscurantismo degli anni '70, oggi si sia dato troppo spazio ai falsi valori del mercato senza regole. Il capitalismo ha bisogno di basarsi su regole precise e non sulla legge della giungla dove chi è più forte arraffa di più a spese di chi non ha modo di difendersi, e cioè a spese della collettività e dei cittadini.
Dobbiamo dirlo chiaramente: la rivincita del capitalismo - quello vero - in questi ultimi anni deriva dal fatto molto concreto che il capitalismo si è dimostrato la più efficiente macchina economica per l'accumulazione di ricchezza e per lo sviluppo. Tutte le altre macchine economiche inventate dall'uomo hanno dato risultati che con l'andar del tempo si sono rivelati più o meno fallimentari.
Ma non dimentichiamo che il capitalismo è solo una macchina; è uno strumento che è al servizio della crescita del sistema economico-sociale, non per lo sfruttamento di molti da parte di pochi. Tocca alla collettività fissare gli obiettivi di sviluppo e creare le condizioni perché lo strumento capitalismo sia orientato nel modo più efficace al raggiungimento di tali obiettivi.
Oggi, da parte di alcuni si tende nei fatti a considerare il profitto come un fine, mentre in realtà esso è solo una misura indispensabile e un vincolo inderogabile. Il profitto non è e non deve essere mai ritenuto il fine, l'obiettivo primario dell'impresa, che è invece quello di produrre beni e servizi a costi competitivi, creando nuova ricchezza.
Se il profitto lo si considera un fine, si cade in una logica perversa. Per ottenere il profitto si rischia di ignorare o distruggere la prospettiva di sviluppo futuro dell'impresa; talvolta, in modo più ambiguo e pernicioso, nel nome del profitto si provocano incommensurabili danni alla collettività e alle generazioni future.
Se, invece, il profitto è considerato né un fine né una misura né un vincolo, si corrono altri due seri pericoli. O crescono in modo abnorme le imprese assistite, che sperperano risparmio e denaro pubblico, oppure prosperano grandi public companies, più simili a fondazioni che ad imprese, e come tali strumento di conservazione e di immobilismo imprenditoriale.
L'impresa è un bene sociale prezioso che va lasciato libero di esprimere la propria carica vitale, ma va tutelato e orientato attraverso regole definite dalla collettività in funzione dei suoi obiettivi primari. Non vi è contraddizione tra l'esigenza di libertà dell'imprenditore e la definizione di regole del gioco da parte della collettività. La condizione è che l'imprenditore sia un vero imprenditore, e che la collettività sia in grado di interpretare effettivamente le sue esigenze e le sue finalità e di darsi regole conseguenti e serie.
La definizione di queste regole è un compito primario dello Stato e della classe politica. Ma per stabilire regole chiare per il mercato e per il comportamento delle imprese bisogna anche avere chiaramente definito gli obiettivi che ci si propone di raggiungere. Sono convinto che la confusione e la fatica con cui nel nostro Paese si cerca di definire delle regole - la lunga gestione della legislazione antitrust ne è un chiaro esempio - sono frutto di una incapacità di definire gli obiettivi reali del sistema.
Questa incapacità è particolarmente grave oggi, in un momento di radicale ripensamento in Europa degli obiettivi e delle regole necessarie per affrontare la competizione mondiale.
Le nuove regole che la Cee va definendo in vista del 1992 non sono necessariamente la miglior
soluzione possibile per l'Italia. Queste regole sono il risultato di una contrattazione tra coloro che già dispongono di chiare normative nazionali e intendono imporle a livello europeo per avvantaggiare il proprio sistema economico-industriale. Chi è assente da questo gioco dovrà accettare quanto deciso da altri.
Nell'assenza di obiettivi e di regole esplicite si sviluppano le regole mafiose, gli abusi del potere e la corruzione che sono un grave ostacolo all'imprenditore che non intende rinunciare al proprio ruolo. In un sistema così costruito diventa quindi assai più difficile lo sviluppo di un capitalismo intelligente; si creano, invece, condizioni che vanno a tutto vantaggio di modelli distorti di pseudo-capitalismo grezzo e parassitario.
E' capitalismo intelligente quello che considera obiettivo delle imprese non il profitto, ma la potenzialità di sviluppo, attuale e futura, in un'ottica di bilancio allargato dei costi e dei ricavi. Vi sono tanti bilanci apparentemente sani che in realtà sono "truccati" perché non includono i costi collettivi che l'impresa ha determinato e che in tempi successivi ricadranno sulla collettività e sull'impresa stessa.
Oggi la responsabilità di costruire un sistema economico eticamente corretto è lasciata in troppo larga misura alle imprese.
In questi ultimi anni, gran parte dell'industria italiana ha dimostrato un'intelligenza imprenditoriale tanto più sorprendente perché congiunta ad una situazione di pesante rigidità o ritardo del sistema istituzionale. L'industria è stata in grado di cogliere il senso delle grandi trasformazioni dello scenario internazionale; ha reagito alla sfida delle nuove tecnologie e della globalizzazione dei mercati ripensando le strategie, le strutture organizzative. Vi è stata una evoluzione nella cultura e nella mentalità aziendale di molte imprese che le ha portate a definire nuove regole di comportamento. Sono regole che le imprese si sono auto-imposte e che spesso vanno nel senso del rafforzamento del mercato e del capitalismo vero. Talvolta sono regole che innovano significativamente e che aprono la via a nuovi sviluppi.
Per fare un esempio, posso citare la proposta di nuove relazioni industriali, che è stata elaborata in Olivetti e concordata col sindacato in materia di informazioni e di collegamento delle retribuzioni ai risultati economici dell'azienda. Si tratta dell'avvio di un processo che è destinato ad estendersi a macchia d'olio e che potrà avere riflessi rivoluzionari nella cultura civile e nei comportamenti di larghi strati del Paese.
Questo accordo è un esempio di intelligenza economica da parte dell'impresa e da parte del sindacato, perché mira allo sviluppo tenendo conto di una situazione profondamente mutata nell'organizzazione delle imprese, nella funzione del lavoro all'interno di un'industria hightech, nei vincoli imposti dalla competizione globale. Ancora, si può ricordare che vi è oggi una preoccupazione nuova e reale in molte imprese circa la necessità di una maggiore responsabilizzazione in tema di inquinamento dell'ambiente, anche in caso di assenza o con funzione delle regole in materia.
Quest'ultimo esempio mi pare molto significativo. E' chiaro che l'"intelligenza" spontanea delle imprese non può andare oltre certi limiti. La competizione è leale se c'è una uniformità di regole da rispettare per tutti, di costi addizionali da sostenere per ridurre l'inquinamento. Se non ci sono regole, o se queste regole non sono fatte rispettare, la protervia di chi è insensibile ai costi sociali ed economici di lungo periodo scardina il sistema della competizione leale e - cosa ancora più grave - dissuade le iniziative "intelligenti" da parte di altre imprese.
Il risanamento etico dell'economia italiana deve basarsi su un sistema Stato e un sistema delle imprese che procedano in sintonia, l'uno definendo i grandi obiettivi collettivi e fissando le regole per il buon funzionamento del mercato verso quegli obiettivi; l'altro fornendo il potente motore dello sviluppo intelligente e della distribuzione della ricchezza. Finora, questa sintonia è mancata e il Paese ha sofferto del crescente divario tra il rinnovamento del sistema imprenditoriale e l'arrancare delle istituzioni. E' questo divario che-frena lo sviluppo di un capitalismo sano.
Non c'è intelligenza economica quando lo Stato non è in grado di rimettere in ordine i suoi conti; quando continua a creare voragini nel proprio bilancio, vuoi per l'inefficienza di tanti enti pubblici, vuoi per l'incapacità di definire chiari obiettivi per il sistema-Paese; quando in larghi strati sociali rafforza la preferenza per la rendita e il garantismo; quando premia il non-cambiamento, il non-rischio, il non-sviluppo.
Non possiamo farci illusioni: non è con un generico appello a comportamenti eticamente più corretti che il sistema italiano si rinnova. Occorre una svolta nella cultura del Paese a livello di istituzioni e di sistema politico. Occorre dare una risposta chiara ad interrogativi del tipo: verso quali obiettivi collettivi, verso quale società l'Italia si muove? quali sono i valori prioritari? quali sono le regole da rispettare?
Nell'attesa di una risposta a questi interrogativi da parte della classe politica, gli imprenditori - soprattutto quelli che sono impegnati nella costruzione di un capitalismo intelligente hanno dato essi stessi nei fatti alcune risposte concrete.


Ma obiettivi e regole sono una responsabilità primaria della classe politica, perché è lo Stato che deve mediare tra le molteplicità degli interessi delle imprese e delle classi sociali. E' una responsabilità pressante, perché si tratta di tradurre in un sistema articolato e coerente quei principi che il Paese nelle sue componenti più vitali, siano imprese o cittadini, sta indicando sempre più esplicitamente.
Questa è la sfida che sta davanti alla classe politica: una sfida enorme, ma anche affascinante perché offre l'opportunità di costruire qualcosa di radicalmente nuovo, di introdurre finalmente intelligenza e razionalità in un sistema che oggi nelle sue strutture di base è inadeguato alle esigenze dello sviluppo degli anni '90 e alle esigenze di un capitalismo più sano, più intelligente e quindi eticamente più corretto.


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