La disoccupazione
in Italia non è cresciuta, ma è ancora aumentato pesantemente
il divario tra Nord e Sud: un divario che rischia di trasformarsi
definitivamente in un baratro. Rispetto al mese di aprile '89, l'indicatore
mostra un incremento dell'11,9 per cento secondo i dati dell'Istat.
La percentuale delle persone in cerca di occupazione sul totale delle
forze di lavoro ha tuttavia subito andamenti diversi sul territorio:
nel Mezzogiorno è infatti ulteriormente cresciuta dal 20,3%
al 21,3%. Anche nel Centro è salita, dai 10,1% al 10,5%, mentre
è diminuita al Nord, passando dal 6,7% al 5,8%, proseguendo
dunque la tendenza in atto da diverso tempo e che ha ormai avvicinato
in quest'area il tasso di un livello che può essere considerato
"fisiologico".
In base ai dati dell'indagine, le forze di lavoro sono risultate pari
a 23 milioni 642 mila unità, di cui 20 milioni 820 mila occupati
(13 milioni 732 mila uomini e 7 milioni 088 mila donne) e 2 milioni
822 mila persone in cerca di prima occupazione (un milione 208 mila
uomini e un milione 61,4 mila donne), definite come quelle che hanno
compiuto di recente almeno un tentativo di ricerca di lavoro e sono
immediatamente disponibili ad occuparsi.
I risultati della rilevazione Istat si collocano su livelli più
bassi rispetto all'analoga rilevazione '88, sia per quanto riguarda
le forze di lavoro sia per l'occupazione e la disoccupazione. L'occupazione,
che aveva subito un calo nella fase precedente, ha registrato un incremento
di 41 mila unità rispetto all'ultima rilevazione, segnando
tuttavia una diminuzione di 293 mila persone in confronto a quella
registrata nell'aprile '88, periodo in cui si trovava al livello più
elevato rispetto agli ultimi anni. La flessione era dovuta interamente
alla componente maschile (meno 321 mila unità), essendo quella
femminile aumentata di 28 mila unità.
La percentuale delle forze di lavoro sulla popolazione è risultata
invece pari al 41,6%, contro il 42,2% dell'analogo periodo '88. Anche
in questo caso, la flessione è da attribuire al tasso di attività
maschile (passato dal 55,3% al 54% netto), essendo rimasto stazionario
quello femminile (29,8%). Le persone in cerca di occupazione sono
scese di 35 mila unità (22 mila uomini e 13 mila donne), passando,
nell'arco dei dodici mesi, da due milioni 857 mila a due milioni 822
mila. Tale flessione si è manifestata sia nei disoccupati in
senso stretto (quelli cioè che hanno perduto una precedente
occupazione) sia nel gruppo formato dalle persone in cerca di prima
occupazione e dalle altre persone in cerca di lavoro. I primi sono
diminuiti di 16 mila unità (da 534 mila a 518 mila); i secondi
di 19 mila unità (da due milioni 323 mila a due milioni 304
mila).
Per quanto riguarda infine la ripartizione settoriale dell'occupazione,
l'indagine Istat mette in rilievo che un milione 912 mila persone
lavorano in agricoltura (pari al 9,2% del totale), mentre gli addetti
all'industria sono risultati sei milioni 662 mila (pari al 32% netto),
e quelli del terziario dodici milioni 246 mila (il 58,8% del totale).
Rispetto all'anno precedente, la diminuzione dell'occupazione è
da attribuire all'ulteriore flessione degli addetti all'agricoltura
(scesi di ben 101.000 unità), che proseguono nel loro tendenziale
ridimensionamento, e alla contrazione del settore industriale (meno
136.000 unità), mentre gli occupati nel terziario registrano
una sostanziale stazionarietà (più 4.000).
In riferimento alle persone in cerca di prima occupazione (sette milioni
822 mila unità), sono sempre i giovani tra i 14 e i 29 anni
a rappresentare la stragrande maggioranza (68,9%), sebbene il loro
numero sia sceso di 88 mila unità rispetto all'anno precedente.
Infine, gli occupati che svolgono attività part-time sono risultati
un milione 196 mila, pari al 5,7% del totale.
Di nuovo c'è che si manifesta in forme differenti rispetto
al passato: ma lo scarto fra il Sud e il resto del Paese continua
ad allargarsi anche alla vigilia dell'appuntamento col mercato unico
europeo. Questo è quel che risulta da un'altra indagine, quella
dell'Unioncamere sulla struttura produttiva e sul reddito prodotto
in Italia. In un quadro di "rafforzamento della diffusione territoriale
dello sviluppo e della produzione di valore aggiunto" (pur se
qualitativamente limitato dal modesto tasso di crescita dell'innovazione
e di una reale "cultura dell'internazionalizzazione"), una
delle caratteristiche di fondo dell'evoluzione del sistema delle imprese
negli anni Ottanta è costituita dall'affermarsi di un "nuovo
dualismo" fra le regioni meridionali e quelle del Centro-Nord.
Questo dualismo, per quel che riguarda l'industria, non è solo
quantitativo, ma anche qualitativo. La crescita delle imprese nel
Sud fra l'81 e l'88, rileva l'Unioncamere, è stata particolarmente
sostenuta: superiore del 90 per cento rispetto a quella registrata
nel resto d'Italia. E l'anno scorso ben dieci province meridionali
hanno avuto un tasso di natalità imprenditoriale di oltre il
7 per cento.

L'industrializzazione del Mezzogiorno, dunque, va avanti: su questo
non ci sono dubbi. Il fatto è però che essa è
giocata essenzialmente sull'impresa minore, secondo un modello "obsoleto"
che corrisponde a quello dell'industrializzazione, al quale negli
anni Settanta si erano uniformate le aree più evolute del Paese.
Il deficit di innovazione, che pure è presente a livello nazionale,
insomma; è più marcato nel Mezzogiorno. Qui, "la
crescita della struttura produttiva è trainata essenzialmente
dall'industria tradizionale, i cui prodotti sono in fase di declino
sui mercati tradizionali". Si spiega così, fra l'altro,
come soltanto il 9 per cento delle esportazioni italiane provenga
dalle aree meridionali.
Il terziario avanzato, che nelle regioni più evolute è
il motore dello sviluppo, nel Mezzogiorno è fragile; e, negli
ultimi anni, si è indebolito ulteriormente rispetto alla media
nazionale. Né va bene il terziario tradizionale, quello dei
servizi, che nel Sud mantiene ancora un modello che comporta "una
forte dipendenza della periferia dal centro". Sicché Napoli
è l'unica provincia che avanza in Campania, come Bari in Puglia.
La carenza dei servizi nel Mezzogiorno pesa in particolar modo sulle
medie imprese. Con il risultato che nelle regioni meridionali "il
rendimento degli investimenti delle imprese manifatturiere con oltre
cento addetti è inferiore di due volte rispetto al Centro-Nord".
Dove poi il Sud marcia, addirittura a ritroso è in agricoltura,
il cui valore aggiunto si è ridotto nel corso degli anni Ottanta
del 3,7 per cento (mentre è cresciuto dell'11 per cento nelle
aree del Centro-Nord). A giudizio dell'Unioncamere, questo si verifica
per "l'incapacità di adottare modelli gestionali più
razionali" e per "la minore integrazione con il comparto
dell'industria".
Se questo è il quadro attuale, le prospettive per il prossimo
futuro non sono rosee. A meno che non intervengano "politiche
di qualificazione del sistema che spingano sui fattori trasversali
della produzione"; politiche, cioè, che agiscano nel senso
di stimolare ed accrescere la capacità di integrazione fra
i vari settori economici e fra le diverse aree dei Paese.
Ecco la graduatoria del reddito annuo pro capite nelle province. Le
cifre sono in milioni di lire.

Ma quali sono le prospettive reali per il Sud? All'appuntamento col
mercato unico europeo il Sud rischia di presentarsi letteralmente
in ginocchio. Nel gennaio 1993, infatti, in assenza di un'adeguata
manovra di politica economica, il tasso di disoccupazione nel Sud
avrà raggiunto quota 27 per cento e marcerà spedito
verso nuovi traguardi: per il Duemila, le previsioni parlano di un
ulteriore balzo in avanti di cinque punti e mezzo, fino al 32,5 per
cento. Tra poco più di dieci anni, insomma, nel Sud una persona
su tre fra quelle in condizione di lavorare sarà senza occupazione.
A suonare il campanello d'allarme è ancora una volta la Svimez.
Parallelamente al "Rapporto '89" sull'economia del Sud,
i ricercatori dell'ente per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno
hanno messo a punto uno studio di previsione che si avventura sino
alla fine del secolo e che noi siamo in grado di anticipare. I dati
parlano chiaro: da oggi al Duemila, per il solo effetto del naturale
invecchiamento della popolazione (e quindi dell'uscita dei giovani
dal mondo scolastico e degli anziani da quello dell'attività
produttiva), l'esercito delle forze di lavoro disponibili nelle regioni
meridionali aumenterà di 820 mila unità. Ma non basta.
A complicare le cose interverrà un altro fattore: il tasso
di attività, cioè la percentuale di coloro che si affacciano
al mondo del lavoro in rapporto al totale della popolazione, è
destinato a salire, soprattutto in campo femminile, e ad avvicinarsi
così ai livelli già raggiunti nei maggiori Paesi dell'Occidente
industrializzato. In pratica, ciò comporterà un'ulteriore
crescita della manodopera disponibile al Sud pari a circa 770 mila
unità.
Tirando le somme, nei prossimi dieci anni nelle regioni meridionali
sono pronte a scendere in campo alla ricerca di un'occupazione qualcosa
come un milione e 590 mila persone. Ma di nuovi posti di lavoro. se
le cose non mutano, nasceranno ben pochi: secondo la Svimez, appena
152 mila. Il risultato finale sarà dunque che nel Duemila si
conteranno un milione e 438 mila nuovi disoccupati, da sommare agli
attuali un milione e 644 mila, per un totale di oltre tre milioni
di persone, pari al 32,5 per cento delle forze di lavoro. Nel Centro-Nord,
invece, si prevede uno scenario diametralmente opposto: l'effetto
di invecchiamento di una popolazione che già oggi è,
in media, più anziana di quella del Sud, si tradurrà
in una riduzione della manodopera disponibile (meno 670 mila unità)
che non sarà compensata dall'aumento dei tassi di attività
(più 620 mila unità). Le persone in cerca di occupazione
caleranno, dunque, di 50 mila unità e nel frattempo nasceranno
oltre 900 mila nuovi posti di lavoro. Il risultato finale sarà
una netta diminuzione dei numero dei disoccupati, dagli attuali un
milione e 241 mila unità a circa 280 mila, pari a un tasso
dell'1,7 per cento, ben inferiore a quel 5 per cento ritenuto in generale
fisiologico in un sistema industriale moderno, caratterizzato da un'elevata
mobilità. Ma l'ulteriore allargamento dei fossato che separa
le due Italie è davvero inevitabile?
Salvatore Cafiero, animatore instancabile della Svimez, è convinto
che nel prossimo decennio il problema della disoccupazione nel Sud,
almeno in teoria, potrebbe essere completamente risolto. E, cifre
alla mano, spiega come.
La ricetta Svimez prevede, in primo luogo, un aumento di poco più
di un punto percentuale (dal 18,8 al 20 per cento) della quota del
reddito nazionale destinata agli investimenti produttivi. Poi, un
incremento della fetta degli investimenti nazionali riservata al Sud
dal 30 al 45 per cento. l'intervento dello Stato dovrebbe inoltre
essere mirato a migliorare l'efficienza della rete di servizi al Sud,
per consentire un forte aumento della redditività degli investimenti
(oggi, per produrre un miliardo di reddito, è necessario investirne
undici; in futuro, il rapporto dovrebbe scendere a 8,5). Infine, sarebbe
necessario attuare una politica che mantenga sotto controllo la dinamica
del costo del lavoro (attraverso un aumento della fiscalizzazione
degli oneri sociali o anche un freno alla crescita delle buste paga)
e consenta al tempo stesso di ripartire l'occupazione tra più
persone (con strumenti come il part-time o i contratti a tempo determinato).
In questo modo, il sistema economico meridionale, che negli ultimi
dieci anni ha marciato su un tasso di crescita medio dell'1,7 per
cento, comincerebbe a galoppare al ritmo del 4,1 per cento l'anno,
creando, entro il Duemila, due milioni e 230 mila nuovi posti di lavoro:
quanto basta per ridurre di 640 mila unità l'esercito dei disoccupati
e riportarlo a poco più dei 10 per cento in rapporto al totale
delle forze di lavoro.
Ma lo scenario futuro potrebbe diventare ancora più roseo.
Nel Centro-Nord, infatti, con una crescita annua comunque sostenuta
(pari al 2,7 per cento), salterebbero fuori due milioni e 460 mila
nuovi posti di lavoro e si dovrebbe registrare un fortissimo deficit
occupazionale, che potrebbe essere assorbito solo con l'immigrazione
di circa 200 mila persone l'anno. Anche se solo un quarto dei posti
di lavoro eccedenti venisse occupato da meridionali, la disoccupazione
nel Sud scenderebbe, sempre nel Duemila, al 4,6 per cento.
Dice Cafiero: "In teoria, la disoccupazione nelle regioni meridionali
potrebbe essere riassorbita; ma, di fatto, sono in gioco molteplici
e agguerriti interessi particolari che rendono altamente improbabile
la prospettiva di un programma che abbia come suo obiettivo centrale
il pieno impiego nel Mezzogiorno". Più chiaro di così!
Consideriamo dunque le ipotesi risolutorie della Svimez una specie
di "libro dei sogni meridionali", e torniamo alla realtà
dei dati Unioncamere-Istituto Tagliacarne. Quale quadro complessivo
ci rivelano? Quello di un decennio che sarà ricordato per la
riscossa delle città storiche del capitalismo, con la rilevante
eccezione di Torino. Gli anni Ottanta sono alle ultime battute, e
si ha un affresco tutto nuovo delle ascese e delle cadute della ricchezza
nel Paese. Milano e Genova risalgono una china che avevano disceso
negli anni Settanta. Il "triangolo industriale" ritorna
in sella: esteso alle tre regioni - Piemonte, Lombardia, Liguria -
e non alle metropoli capoluogo, fa segnare un recupero quasi generalizzato.
Specularmente, due miti in costruzione un decennio fa sembrano oggi
in liquidazione: chi non rammenta la "dorsale adriatica",
che sembrava navigare coi vento in poppa? E l'Emilia Romagna, nella
quale molti ritenevano di poter copiare la ricetta della ricchezza?
Ebbene: da una parte, lo sviluppo che appariva beneficamente polverizzato
lungo l'Adriatico oggi si concentra in tre grossi centri, Ancona,
Pescara e Bari. Dall'altro, decelerano in maniera vistosa province
che sembravano aver raggiunto stabilmente il massimo dello sviluppo:
Modena retrocede dal terzo al decimo posto, Reggio Emilia addirittura
dal quarto al ventesimo. In compenso, sembra profilarsi una "dorsale
tirrenica" con aggregazioni del tipo Pisa-Grosseto-Roma-Latina,
oppure Napoli-Salerno.
Negli ultimi anni, il trasferimento più spettacolare è
stato quello di Imperia, che nella classifica ha guadagnato 22 posti,
passando dal quarantesimo al diciottesimo. Una vera e propria débacie
è stata invece quella di Potenza, precipitata dal settantaduesimo
al novantaduesimo posto. Il primato, come nel 1980, resta ad Aosta,
mentre Agrigento si conferma maglia nera.
Nel periodo 1980-87 coperto dall'indagine, si rafforzano dunque le
grandi metropoli: accanto al secondo posto di Milano, salgono Roma,
Genova, Bologna, Firenze, Palermo e Bari. La perdita di Torino è
di undici posizioni, dall'undicesima alla ventiduesima. Fra le province
emergenti, spiccano i casi di Cremona (dal nono al terzo posto), Arezzo,
Avellino, la Spezia e Ragusa, mentre peggiorano sensibilmente Pordenone,
Udine e Brindisi.

La vera novità dei decennio sembra ancora una volta provenire
dal Sud. Se gli anni, Sessanta si erano caratterizzati per l'esplosione
dei poli di sviluppo - le grandi fabbriche localizzate in poche città
- se poi negli anni Settanta con la chiusura delle industrie di base
erano scoppiate le contraddizioni di queste scelte, il decennio che
sta per declinare fa segnare un vero e proprio exploit di nuove imprese.
Il tasso di incremento è stato del 90 per cento superiore a
quello del resto d'Italia e il peso dell'industria manifatturiera
è passato nel Sud dal 20 al 25 per cento. il Mezzogiorno ha
tenuto lo stesso passo del Nord. Un fatto positivo? Sì e no.
E' certo un indice di una nuova ricchezza per le famiglie il fatto
che si creino opportunità di lavoro. Ma a quelli che gli economisti
un tempo chiamavano "squilibri di sviluppo", o almeno a
quelli tradizionali, si sono sostituiti nuovi squilibri, in potenza
più gravi e pericolosi dei primi. Se ieri la cosiddetta "natalità
imprenditoriale" era molto bassa al Sud, oggi invece è
bassa la produzione dei servizi che Italia ed Europa reclamano. Mancano
quelle che i tecnici definiscono le "scelte innovative".
E il Sud, in questo senso, rappresenta il ventre molle della penisola.
L'allarme è lo stesso: si sta costruendo un sistema industriale
che è vecchio, specializzato com'è in lavorazioni a
basso livello tecnologico: il tessile, l'abbigliamento, il mobilio,
le calzature. L'industria meridionale si caratterizza così
per il basso tenore di terziario "incorporato nei prodotti e
il basso tasso di adozione di innovazioni, inferiore di otto punti
percentuali rispetto alle industrie del Centro-Nord".
Non vale dunque meravigliarsi se Calabria e Basilicata restano le
ultime due regioni per reddito prodotto pro capite e se le regioni
nord-occidentali guadagnano posizioni dopo gli anni dello "sboom".
Chi è povero lo diventa sempre più, così come
chi è ricco lo diventa sempre più. E la forbice non
si allarga: si spalanca.
Se questa non
è emergenza
Non sono servite
a niente le grida. Nessuno le ha ascoltate. Tutti, tutti i giorni,
ne parlano, ma come per un "dovere morale": tanto è
vero che sul piano concreto poco o niente si vede. Ciò che
sta accadendo adesso sembra la conferma scontata di una scontata previsione.
Il Sud è sempre più tagliato fuori dal sistema produttivo
del Paese, è sempre più lontano dalle altre aree, dall'Europa,
dal mercato unico, la cui realizzazione, viceversa, si avvicina sempre
di più. I dati sulla disoccupazione rivelano che si è
aggravata la tendenza in atto ormai da troppo tempo: il Nord va verso
la piena occupazione, mentre nelle regioni meridionali si va concentrando
tutta la disoccupazione del Paese. Le migliaia di miliardi che con
cadenza incessante vengono indirizzati verso il Sud si trasformano
in una forma perversa di ricchezza che resta fine a se stessa. Una
ricchezza senza futuro, che non diventa mai sviluppo, e meno che mai
nuova industrializzazione.
Dietro agli indicatori "ufficiali" della disoccupazione,
che si è ridotta nel Nord al 5,8 per cento e che si è
gonfiata nel Sud al 21,3 per cento, c'è tutto il dramma di
un'area che non riesce a tirarsi fuori dal baratro nel quale continuo
a precipitare. Di recente, la Centrale Bilanci ha diffuso un preoccupante
rapporto, che spiega chiaramente come, almeno in questa fase, gli
orizzonti del Sud, anziché aprirsi, vadano ulteriormente restringendosi.
Vi si afferma infatti che le fortune della piccola impresa sono ormai
finite, mentre ritorna in grande stile e in posizione egemone la grande
industria, gestita dai grandi gruppi. Il "piccolo è bello",
il deritiano "cespuglio" lanciato fino ai primi anni '80
ha esaurito il suo ciclo e lascia spazio ai giganti.
Per due motivi di fondo: la grande impresa, grazie al forte sviluppo
della finanza intergruppo, ha ridotto in maniera cospicuo il costo
dell'indebitamento; ha inoltre fruito della drastica riduzione dell'incidenza
fiscale. Le piccole imprese, invece, che rappresentano quasi il totale
dell'industria meridionale, sono penalizzate soprattutto dall'indebitamento.
Il Sud è alle corde. Non è più il clima degli
interventi, che d'altra parte sono stati sempre più ordinari,
ma rifilati per straordinari. Il clima è quello dell'emergenza.
Il fossato?
Incolmabile
I dati Istat sulla
disoccupazione hanno confermato l'andamento già manifestatosi
da qualche tempo: il tasso a livello nazionale si muove appena, ma
i disoccupati diminuiscono costantemente al Nord, mentre aumentano
costantemente al Sud. Al Centro il tasso si mantiene come sempre leggermente
al di sotto della media nazionale. Si tratta di una gravissima tendenza,
che ormai divide in Paese in due parti forse definitivamente distanziate
tra loro. Il "fossato", infatti, è difficilmente
colmabile, dal momento che mentre il Nord va verso la piena occupazione,
il Sud registra cifre mai conosciute in passato. Ecco, nella tabella,
le percentuali di incremento dei tasso di disoccupazione per aree.
Le percentuali si riferiscono all'aprile '89, confrontato con lo stesso
mese dell'anno precedente.
I dati della
Puglia
Nel 1988, i disoccupati
pugliesi risultavano 347.291: di questi, 188.098 erano uomini, 159.193
donne. I dati sono dell'Unioncamere regionale. Considerati per arca
provinciale e in percentuale sulla popolazione residente, mettono
in rilievo che la quota maggiore di disoccupazione spetta alla provincia
di Brindisi (10,70%), seguita da quelle di Taranto (10, 18%), di Lecce
(9,43%), di Foggia (8%) e di Bari (7,57%). In sintesi: a Brindisi
e a Taranto si registra un disoccupato ogni dieci abitanti; a Lecce,
uno su undici; a Foggia, uno su tredici; a Bari, uno su quattordici.
Ultimo dato emblematico: gli avviamenti al lavoro sono stati 38.834,
contro 47.154 licenziamenti. Anche per la Puglia, dunque, la crisi
occupazionale corre lungo le direttrici di sviluppo evidenziate, con
la dorsale adriatica, dalle indagini del Censis. E ad essere maggiormente
colpite sono proprio le due città che si candidavano, con diverse
specializzazioni, a motori propulsori della crescita economica della
regione.