§ Il Sud e gli altri

Un'immagine da ribaltare




M.C.M., S.M.C.



Tira una brutta aria per il Mezzogiorno. In tutti gli ambienti il clima è diventato molto pesante. Di Mezzogiorno non si parla più in relazione ai suoi problemi, alle sue esigenze o ai suoi programmi. Si parla solo facendo riferimento alla mafia, alla camorra, alla 'ndrangheta. Si parla solo richiamando lo stato di inefficienza della pubblica amministrazione, della instabilità delle istituzioni, del conflitto permanente che caratterizza i rapporti tra politici. Se ne parla solo con riferimento alla impraticabilità delle leggi e, soprattutto, allo "spreco" (nella migliore delle ipotesi) delle risorse destinate alle regioni meridionali, con particolare riferimento a quelle per le calamità naturali. Da qualche tempo, persino il successo dei politici meridionali è stato accolto con una certa insofferenza, e da alcuni addirittura con preoccupazione.
Come e perché si sia giunti a questo punto, sarà certamente interessante accertarlo: ma ciò che più preme in questo momento è se sia possibile, e come, porvi rimedio.
Si va ormai consolidando negli ambienti imprenditoriali italiani il convincimento che il futuro industriale del nostro Paese richiederò prima o dopo uno sfoltimento dell'apparato produttivo del Nord, mediante un parziale decentramento delle unità industriali dalle regioni forti verso altre aree. Questa tesi è abbastanza convincente, se si tiene conto delle difficoltà che le aziende incontrano nel reperire personale e nell'adeguare le proprie strutture alle nuove politiche per l'ambiente. Un parziale decentramento dell'apparato produttivo avrebbe pertanto il vantaggio di creare nel Sud occupazione nell'industria, e conseguentemente nei servizi, concorrendo a migliorare le condizioni per insediamenti nei settori nuovi.
A fronte di queste concrete ed interessanti prospettive di ampliare la base produttiva, i ragionamenti che prevalgono, purtroppo, in ragione di quel clima cui si è fatto riferimento, non sono molto incoraggianti. In una recente occasione, con la franchezza che gli è abituale, Walter Mandelli ha posto in rilievo l'interesse che l'industria italiana potrebbe portare ad alcune zone deboli dell'Europa, zone in cui le condizioni generali e specifiche che si offrono potrebbero essere in concorrenza con il Mezzogiorno d'Italia.
Ovviamente, a nulla varrebbe ricordare che nel Sud i gruppi pubblici e privati e anche le imprese minori che vi operano, sul piano della gestione aziendale, non incontrano più difficoltà di quante non ne incontrino altrove. A nulla varrebbe replicare perché il problema è soprattutto d'immagine, ed è anche in questa direzione che è necessario lavorare. Che cosa si può fare? Molti di noi hanno trovato molto giusta e opportuna la decisione di presentare e discutere il Rapporto Svimez a Milano, e in particolare alla Bocconi. Tuttavia, non abbiamo potuto fare a meno di cedere alla preoccupazione che quell'iniziativa potesse incappare in una interpretazione che vorremmo definire bifronte. Da un lato, il sud che vede nella missione a Milano un mezzo per chiedere al Nord di risolvere i propri problemi; dall'altro, il Nord che vede nella stessa missione il solito Sud che chiede agli altri di risolvere i propri problemi. Ecco: se vi è una cosa da fare, a nostro modesto avviso, è impedire che questi convincimenti si consolidino; e questo dipende unicamente da noi meridionali.
A parte le bugie, le calunnie, le esagerazioni strumentali, le versioni interessate, le tattiche e le strategie di parte, che pure concorrono ad alimentare il clima di cui dicevamo, rimane pur sempre la necessità di ricercare all'interno le ragioni, i modi e le Forme per ribaltare questa immagine negativa. Per cominciare, potrebbero essere utili più concordia sulle grandi questioni, più stabilità ed efficienza nelle istituzioni, più determinazione nel decidere, più razionalità e tempestività nell'uso delle risorse. Potrebbe essere utile, infine, una maggiore volontà-capacità a distinguere e quindi a condannare e combattere senza tregua tutto ciò che realmente è contro la società meridionale da ciò che non lo è. Si potrebbe contribuire così a non confondere e a non far confondere in un unico magma indistinto la realtà meridionale.
La Puglia ha costituito per molti anni il supporto maggiore del ragionamento a lungo diffusosi sul sostanziale "decollo" del Mezzogiorno. Come si ricorderà, secondo questo ragionamento il problema del Sud era ormai alle nostre spalle.
Le varie parti del Sud si distinguevano nettamente in due aree. Da un lato, sul versante adriatico e jonico, una linea di zone con un loro consolidato equilibrio economico e sociale, con ricchezza di iniziative e di attrezzature imprenditoriali moderne, con i piedi ben al di là della linea che marca l'inizio di un autentico processo di sviluppo. Così, da Teramo a Pescara, dal Molise alla Terra d'Otranto, da Messina a Siracusa, l'intera spalliera orientale del Mezzogiorno appariva decisamente esclusa dal piano della considerazione meridionalistica di tipo classico. Più pessimisti si era, invece, per l'arco tirrenico da Napoli a Palermo, soprattutto perché - si diceva - sussistevano qui alcune zone urbane afflitte da gravi problemi di degradazione urbanistica e di degenerazione cancerosa della malavita, soprattutto del crimine organizzato. Però, in sostanza, anche in queste zone, così come nelle aree appenniniche interne riconosciutamente più povere e arretrate, aree di maggiore sviluppo si alternavano ad aree di minore o di minimo sviluppo, formando un tessuto di geografia economica e sociale "a pelle di leopardo". Da tutto ciò, si deduceva un successo sostanziale della politica meridionalistica seguita dall'Italia repubblicana, con una ulteriore, benché inespressa, conseguenza da parte di molti, soprattutto non meridionali: e, cioè, che per quella parte del Mezzogiorno che si rivelava più refrattaria allo sviluppo, o che denunciava problemi più gravi di degradazione urbana e civile, era meglio mettersi il cuore in pace e rassegnarsi a vederne risolti i problemi in tempi fatalmente assai lunghi.
Questa rappresentazione della realtà meridionale e le conseguenti valutazioni erano sbagliate, per almeno due ragioni. La prima è di carattere storico. La ripartizione del Mezzogiorno in zone di maggiore e di minore sviluppo non è affatto una novità degli ultimi decenni. E', al contrario, un dato permanente di tutta la storia del Mezzogiorno. In nessuna epoca il Sud ha costituito una unità indifferenziata di condizioni e di strutture. In ogni epoca si sono profilate al suo interno zone in più felici e zone in meno felici condizioni.
Nell'età moderna, la Terra di Bari e la provincia di Napoli hanno costituito costantemente due grandi polmoni della realtà del Sud, nettamente più avanzati rispetto al resto del Paese.
L'Abruzzo della transumanza ha costituito a lungo una zona di non grande livello, ma di sicuro equilibrio. Alcune zone e città di terra d'Otranto e della Calabria spiccavano anch'esse con un certo rilievo sullo sfondo delle rispettive regioni. Al contrario, alcune zone abruzzesi, il Molise e la Basilicata, vaste aree campane e calabresi, la Capitanata, alcune zone pugliesi, ampie aree siciliane e sarde, costituivano la sezione meno sviluppata, e spesso assai arretrata, di un Sud complessivamente poco sviluppato, o arretrato esso stesso. E' proprio un caso - chiediamoci,
per esempio - che a distanza di centotrent'anni dall'unificazione italiana le zone più sviluppate del Mezzogiorno siano ancora, precisamente, il Barese e il Napoletano? E può essere il criterio delle differenze interne quello che meglio di altri può costituire il metro di un giudizio attendibile sul grado medio di sviluppo di un Paese?
Naturalmente, gli elementi delle differenze possono variare nel tempo: in un'epoca possono essere attinenti a livelli determinanti e caratterizzanti del progresso di quell'epoca; in un'altra epoca possono essere attinenti a livelli di importanza secondaria nel contesto delle ragioni di preminenza storica in tale epoca. Si potrebbe, perciò, essere tentati di sostenere che le differenze interne del Mezzogiorno storico erano differenze di valore non "strategico" ai fini di una considerazione del suo livello di sviluppo complessivo, mentre le differenze attuali sarebbero di valore assai diverso e superiore, perché atterrebbero a ragioni di fondo per il giudizio sullo sviluppo di un'economia e di una società nella nostra epoca.
A dissolvere questa eventuale obiezione - che già in se stessa è fortemente discutibile - subentra, tuttavia, la seconda ragione cui abbiamo accennato, e che è una ragione decisamente di geografia economica e sociale e statisticamente documentabile. La si può sintetizzare così. Se davvero alcune regioni e province del Mezzogiorno avessero varcato la soglia dello sviluppo medio italiano, allora le statistiche medie nazionali dovrebbero registrarle fra le province e le regioni italiane che stanno al di là dei livelli medi di reddito, di produzione, di consumi ecc., che costituiscono la misura dello sviluppo moderno per l'Italia nel suo complesso. Invece, non c'è statistica nazionale che non computi le province insulari e continentali del Sud compattamente nelle ultime quaranta posizioni delle graduatorie italiane (e se ne sono avute ulteriori dimostrazioni con le statistiche conosciute in questi ultimi tempi).
Per non dire poi che, se davvero lo sviluppo del Sud fosse a pelle di leopardo nel senso che noi qui contestiamo, non sarebbe affatto un piccolo problema quello che "residuerebbe" nel Mezzogiorno con i suoi problemi urbani e di malavita a Napoli, a Reggio Calabria e a Palermo? Per non dire che la prospettiva delle zone interne appenniniche diventerebbe, come "residuo", ancor più disperata. Per non dire ancora che l'equilibrio e lo sviluppo di zone come gli Abruzzi sono l'equilibrio e lo sviluppo di zone che hanno subito un salasso demografico che ha pochi confronti nel mondo, non inferiore, ad esempio, a quello - pauroso - subito dall'Irlanda. Insomma, il ragionamento del Sud dissolto come "questione meridionale" a seguito delle sue recenti articolazioni interne è un ragionamento che non può stare facilmente in piedi. E' vero che articolazioni e differenziazioni interne caratterizzano fortemente il Mezzogiorno attuale e che esse debbono essere tenute nel massimo conto, per capire - se non altrotendenze e possibilità, oltre che lo stato effettivo, del Sud.
Ma la loro massima considerazione, per le ragioni che vi sono accennate, deve portare a rafforzare, non ad attenuare la considerazione della "questione meridionale" di oggi come la questione pur sempre riguardante l'intero Sud. Il dualismo italiano, in ultima analisi, permane - ecco la conclusione - come nota industriale caratteristica. Il che coinvolge il giudizio da darsi sulla politica di intervento per il Mezzogiorno, ma pone anche questioni che vanno al di là di questa stessa politica.
Specularmente all'immagine del Sud resa in negativo per strategie di parte non ancora del tutto chiare, è emerso un interesse "politico" per il Mezzogiorno sconosciuto almeno negli ultimi quindici anni. Ha cominciato il Governatore della Banca d'Italia, con le sue Considerazioni finali del maggio scorso; hanno ripreso e sviluppato il tema Pasquale Saraceno, col Rapporto Svimez, e Franco Marini, nel Congresso della Cisl. Il risultato analitico di questa ripresa di interesse si può sintetizzare nei termini che seguono:
- il Sud è una "pentola bruciata", nel senso che quello che il settore pubblico investe al suo interno defluisce verso il resto del Paese e fuori del Paese stesso, con la conseguenza che l'economia del Sud consuma più di quanto produca;
- le imprese del Sud presentano una concentrazione di capitale superiore a quella delle imprese del Centro-Nord e una produttività del lavoro più bassa, perché il sistema è più fragile, più sconnesso e, dunque, ogni azienda deve organizzare al suo interno le attività complementari alla produzione, mentre l'inefficienza complessiva si traduce in un minore rendimento del lavoro applicato all'interno dei processi produttivi;
- la capacità organizzativa dei poteri criminali e la profonda inettitudine delle amministrazioni pubbliche congiurano per ridurre le opportunità di espansione del sistema delle imprese;
- il movimento sindacale riconosce la pericolosità di una situazione che espone una miscela di disoccupazione, di fragilità sociale e di sordo rancore verso lo Stato, ma non riesce ancora a sviluppare una iniziativa politica autonoma e in grado di ribaltare l'insieme di questi fattori; trincerandosi, almeno per ora, sulla linea di difesa rappresentata dalle politiche per il lavoro che non sono e non possono essere politiche per la crescita, ma che dipendono esizialmente dalla circostanza che la crescita stessa possa manifestarsi.
Sembra evidente che il punto da cui dipende il ribaltamento radicale di questo concerto di fattori negativi sia l'avvio di un irrobustimento del sistema delle imprese meridionali: il decollo di un rapporto più autonomo, e quindi più forte, tra le attività produttive del Sud e i mercati internazionali. I caratteri negativi di questo sistema sono tutti conseguenza dell'aria, viziata da provvidenze assistenziali e da commesse garantite, che esse hanno imparato a respirare, e della quale non possono oggi, di colpo, fare a meno: pure, per la loro salvezza, esse devono imparare a rinunciare all'abbraccio corruttore con la finanza pubblica, devono disintossicarsi da questa dipendenza senza crollare sotto le dure reazioni delle ovvie crisi di astinenza che accompagnano ogni processo di questo tipo.


E' la mano pubblica che deve governare questa riconversione del rapporto tra la politica e l'economia: riducendo i trasferimenti finanziari e sostituendoli, senza traumi, con una politica capace di avviare la crescita di imprese più robuste ed autonome. In questo senso, tre punti qualificanti sarebbero necessari:
- garantire un programma di investimenti infrastrutturali che rispondano alle drammatiche emergenze quotidiane del Sud (l'energia, i trasporti, l'ambiente) e concentrino la loro efficacia nella ristrutturazione delle aree urbane;
- sostituire una rete di incubatori di impresa e di attrezzature complementari alla produzione al posto della "pioggia" degli incentivi e dei contributi;
- avviare un mercato finanziario degno di questo nome, favorendo la diffusione di nuovi, efficienti intermediari e il risanamento patrimoniale di quelli storicamente presenti nell'area.
Una simile politica avrebbe una faccia decisamente "europea" e sarebbe compatibile con il processo di integrazione, senza essere inutilmente punitiva verso l'industria delle costruzioni, che rappresenta oltre un quinto della capacità produttiva e dell'occupazione nel Mezzogiorno; ma, nel medesimo tempo, aggredirebbe alla radice i nodi che strozzano la crescita futura del Sud. Senza queste radicali correzioni di rotta sarà difficile ed inutile occuparsi di politiche del lavoro; e la credibilità dello Stato, della classe politica, degli economisti e dello stesso movimento sindacale non potranno che risentirne negativamente.


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