§ Evasioni - elusioni

Denaro in paradiso




Nummus



E' il caso di dire: l'inferno può attendere. Chi pensava che i paradisi fiscali, stretti tra gli impegni del '92 e nel mirino per il riciclaggio del "denaro sporco", fossero costretti ad ammainare la bandiera, si è sbagliato. E di grosso. Dai Caraibi al Lussemburgo, dalle Antille al Liechtenstein, queste oasi continuano a tirare. Flussi consistenti di capitali lasciano ogni giorno i Paesi industrializzati per approdare in porti nei quali il fisco, se non un perfetto sconosciuto, è per lo meno un buon amico.
E da questi rifugi, poi, rientrano nei grandi circuiti della finanza, ma protetti dall'anonimato e dal segreto bancario.
Gli esperti, comunque, sono d'accordo: il profilo dei tax haven - è questo il corretto nome inglese, cioè rifugio e non paradiso (heaven), come impropriamente ma felicemente tradotto in italiano - del prossimo futuro sarà diverso da quello attuale. E qualcuno giunge addirittura a ipotizzare che il mondo potrebbe diventare al più presto un unico grande paradiso: perché non saranno più gli Stati a decidere come tassare la ricchezza, ma sarei la ricchezza a decidere dove e quanto farsi tassare.
Grandi sconvolgimenti, poi, ci dovrebbero essere a livello europeo: gli uomini della Cee, Jacques Delors in testa, stanno combattendo una strenua battaglia per cancellare dalla geografia dei paradisi fiscali le Channel Island e il Lussemburgo, vere e proprie spine nel fianco del mercato unico. Riusciranno nel loro intento? Probabilmente sì, ma le resistenze sono forti. La Cee, infatti, può permettersi il lusso di far uscire dalla propria area monetaria le immense ricchezze depositate nel Lussemburgo o in mezzo alla Manica? E se venisse dichiarata la morte di questi due "porti franchi", non ci sarebbe forse qualcuno, magari proprio ai margini della Comunità, (Austria o Ungheria), pronto a raccoglierne l'eredità?
Grandi interrogativi dominano il futuro dei paradisi fiscali: una terra di conquista in cui gli italiani solo da poco tempo hanno avuto la possibilità di avventurarsi.
Non esistono statistiche precise e i dati disponibili sono vecchi. Ma, leggendo cifre quasi ingiallite, si ricava un'impressione netta: i paradisi fiscali nascondono una grande, quasi sterminata ricchezza. Nel periodo che va dal 1966 al 1978, gli investimenti diretti delle società americane sono passati da 4,7 a 23 miliardi di dollari. Ipotizzando un ritmo di crescita costante anche nel decennio successivo - stima prudenziale - si giunge alla spaventosa cifra di 110 miliardi e mezzo di dollari: in lire, circa 153 mila miliardi. E non è finita. Secondo uno studio americano, tra il '68 e il '78 i guadagni ufficiali delle società americane nei paradisi fiscali sono cresciuti di nove volte (passando da 0,5 a 4,4 miliardi di dollari circa), mentre gli utili delle persone giuridiche senza basi off shore sono aumentati solo tre volte e mezza. In altre parole, nei paradisi fiscali patrimoni e ricchezza si moltiplicano a ritmi vertiginosi. E si tratta solo della fetta americana della torta mondiale.
I grandi numeri trovano immediata conferma nel minimalismo dell'economia. Alle Cayman Islands, uno degli approdi tributari che vanno per la maggiore, ci sono 18 mila abitanti e altrettante società, a cui si aggiungono 38 banche con sede nei tre isolotti, e altre 500 che qui hanno l'ufficio di rappresentanza: tutti insieme hanno realizzato nell'88 un giro d'affari di 200 miliardi di lire. Alle Cayman, poi, transita circa il 10% del business giornaliero del mercato dell'eurodollaro.
Non tutti i paradisi sono uguali. Anzi, da qualche tempo, i vari Paesi hanno scelto la via della specializzazione. C'è chi vuoi essere noto come il rifugio dei nababbi e chi preferisce diventare oasi privilegiata per le società. Così, Montecarlo va bene per le persone fisiche: niente imposte sui redditi; ma un po' meno per le società (pagano una aliquota del 35%). Tutto il contrario si verifica alle Jersey: nessun tributo sulle società (si pagano 500 sterline all'anno, indipendentemente dal livello dei guadagni) e un'imposta del 20% sui proventi delle persone fisiche. Ma la specializzazione in alcuni casi è anche più settoriale. Pensionati con congrue rendite, scrittori, inventori trovano in Cipro il luogo più adatto per godersi le proprie fortune: le imposte su questi tipi di redditi, infatti, sono molto basse.
Tra gli stessi paradisi, poi, è iniziata una vera e propria concorrenza a colpi di leggi studiate apposta per chi, in qualunque parte del mondo, voglia sfuggire alla morsa del fisco. Proprio qualche mese fa in molti studi professionali italiani è giunta una newsletter nella quale erano tessute le lodi di un nuovo provvedimento approvato alle Isole Cayman sui trust, organismi giuridici sconosciuti alla legge italiana, assolutamente anonimi (non bisogna registrare né il nome dei consiglieri d'amministrazione né dei soci, con possibilità, quindi, di eludere ogni forma d'imposta).
I paradisi fiscali censiti dalle guide più autorevoli sono circa una cinquantina. Scorrendo l'elenco, non mancano le sorprese. Chi ritiene che paradiso fiscale sia sinonimo di isola caraibica si sbaglia di grosso. Paradisi fiscali sono, almeno per certi aspetti, Paesi come la Gran Bretagna, l'Olanda, l'Irlanda, oltre ai classici MonteCarlo, Lussemburgo, Svizzera.
Negli anni '80, per esempio, grandi fortune sono state realizzate in Europa grazie a una scappatoia della legge inglese. Tutti gli stranieri, infatti, potevano costituire in quasi completa esenzione Fiscale apposite società, le cosiddette UK non resident, con vantaggi da non sottovalutare: i redditi prodotti al di fuori del Regno Unito - quasi tutti, a dire il vero - non sono infatti soggetti ad alcuna imposta. Ecco, allora, che le UK non resident hanno funzionato molto spesso come vere e proprie teste dì ponte a cui accreditare proventi più o meno consistenti.
Questo accorgimento non potrà più essere sfruttato. Le pressioni dei partners europei hanno costretto Londra a impugnare la scure e a proibire la costituzione di società non residenti. Quelle già attive continueranno però a produrre utili fino al '93.
Anche l'Olanda si presta a fiscal games assai poco pericolosi quanto redditizi, soprattutto per chi sa sfruttare il collegamento tra Paesi Bassi e Antille. Un esempio: si costituisce simultaneamente una holding nei Caraibi e una subholding in Olanda. Grazie al collegamento funzionale tra le due strutture, si potranno annullare quasi del tutto le imposte sui dividendi che da Amsterdam finiscono nell'Atlantico: l'aliquota complessiva, infatti, arriva a malapena al 6,1%. Negli ultimi mesi, l'appeal delle Antille si è leggermente ridotto (per i problemi intervenuti nei rapporti con gli Stati Uniti in merito al trattato fiscale).
Ma non sempre è necessario andare casi lontano o mettere in piedi operazioni casi complicate per garantirsi la neutralità fiscale. Anche sotto casa ci può essere il paradiso. Lasciando perdere Campione d'Italia, vera e propria oasi nelle Alpi, ma difficilmente sfruttabile, San Marino offre interessanti prospettive per la costituzione di società commerciali (l'aliquota normale è del 24% con esenzioni e abbattimenti, e gli eventuali dividendi non sono soggetti a imposizione). Oppure una capatina in Svizzera può essere fruttuosa: le società domiciliatarie (che nella Confederazione hanno solo un indirizzo e, se proprio si vuole strafare, anche una targa) non pagano le tasse federali e godono di abbondanti sconti su quelle cantonali.
Anche Malta si è ritagliata un posto di riguardo nella geografia del tax free: le nuove imprese sono esenti per dieci anni.
Le Cayman Islands sono considerate oggi la migliore base off shore: oltre a ottime strutture professionali e a un'altrettanto ottima dotazione di servizi - requisiti indispensabili per fare un paradiso fiscale degno di questo nome - non sono previste imposte o tasse. Anzi: dalle autorità locali si può ottenere l'impegno ad essere esentati da ogni tributo per un periodo di vent'anni. Quasi tutti i vincoli gestionali sono stati cancellati; non è necessario che gli amministratori o i soci risiedano alle Cayman. Non si deve neppure convocare l'assemblea annuale.
Se alle Cayman va la palma di meta preferita, altre realtà stanno salendo rapidamente alla ribalta. Le bellissime isole Turks e Caïcos, ad esempio, minuscoli frammenti di terra - settemila abitanti in tutto - vicini alle Bahamas dove non esiste alcuna imposta sui redditi, sulle società, sulle plusvalenze, sui dividendi, sulle vendite e sulle donazioni. L'unico rischio proviene dai trafficanti di droga, che hanno scelto queste isole come una delle loro mete preferite.
L'avanzata impetuosa dell'economia del Pacifico trova riscontro anche su questo terreno. Singapore, ad esempio, è una di quelle aree che "meritano un viaggio" -espressione utilizzata dalle guide per classificare i paradisi fiscali -. Ma anche l'atollo corallino di Nauru - 25 chilometri quadrati, ottomila abitanti, al largo dell'Australia - tira bene: si tratta di un paradiso fiscale pressoché assoluto per le società. Le persone fisiche, invece, non sono proprio ben viste: ottenere la residenza è quasi impossibile e il governo locale non incoraggia nemmeno i visitatori. E, del resto, non saprebbe come accoglierli, perché a Nauru c'è un solo albergo con 60 camere. Isola inospitale? Forse. Oppure desiderio di non perdere un incredibile primato statistico: il reddito pro capite degli abitanti di Nauru è superiore del 50% a quello degli americani!

Evasioni - elusioni

Ma i rischi aumenteranno con il 1993

Il titolo dice tutto: "Gli europei temono che l'integrazione economica aiuterà la mafia". Il sottotitolo chiarisce come: "La riduzione delle frontiere potrebbe facilitare il traffico della droga e dei denari sporchi". L'articolo è del corrispondente da Roma, Clyde Haberman, e il New York Times lo ha pubblicato in prima pagina. Gli Stati Uniti nutrono un enorme interesse per la mafia italiana: è l'altra faccia di quella americana, sono convinti che o le si sconfigge insieme o non le si sconfigge per nulla. Ma temono che dopo il '92 diventi più difficile coordinare la lotta contro le due mafie con la Comunità europea.
Il New York Times nota che la questione è stata discussa al vertice delle sette potenze industriali, tenutasi di recente a Parigi: le quali, anzi, hanno incaricato una task force di elaborare un piano contro il riciclaggio dei denari sporchi entro il '90. Ma aggiunge che gli europei sono più indietro degli americani nelle tecnologie per combattere la mafia: non dispongono, ad esempio, di un centro computerizzato di controllo di tutte le transazioni bancarie al di sopra dei 10 mila dollari, esistente Invece negli Usa.
Il New York Times prende atto che gli europei, inclusa la Svizzera, introducono leggi finanziarie sempre più severe per imbrigliare la mafia, ma aggiunge che i piccoli paradisi fiscali, come il Liechtenstein e Malta, fanno il contrario, creando "buchi nella rete" che potrebbero danneggiare anche gli Stati Uniti. La superpotenza si propone di stipulare con i Paesi della Cee accordi bilaterali antidroga e antiriciclaggio sempre più dettagliati: il modello è quello concluso con l'Italia.
Nella corrispondenza da Roma, il giornale sottolinea il peso che la mafia ha assunto nella finanza italiana. Il nostro Paese non è al punto della Colombia o della Bolivia, dove i "baroni della coca", ossia i signori della cocaina, sono in grado di risanare da soli lo spaventoso deficit del bilancio dello Stato. Ma la mafia investe in Borsa a Milano, compra Bot a Roma, finanzia occultamente piccole e medie imprese. Insomma, collabora a contenere il disavanzo pubblico. Il suo giro d'affari è calcolato tra 45 e 75 mila miliardi di lire all'anno, solo nel nostro Paese.
Possibili rimedi? Il New York Times offre il modello americano. La Borsa valori, la Borsa merci e tutte le istituzioni finanziarie hanno un organo di controllo governativo. La polizia federale affronta la mafia come la Cia affronta l'Urss, con lo spionaggio, le intercettazioni telefoniche, le Infiltrazioni. Le condanne sono esemplari: un secolo di carcere, la confisca totale dei beni. Ai pentiti sono dati una nuova entità, un lavoro, la protezione dell'F.B.I.


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