La
progettualità finalistica legata al completamento del mercato
interno europeo che entrerà in funzione nel 1993, ma che comporta
una serie di aggiustamenti che tutti gli Stati membri dovranno effettuare
in precedenza, prevede - come sottolineano i documenti ufficiali della
Cee - un determinante contributo alla ripresa dell'industria e dei servizi,
un impulso permanente per l'accrescimento della prosperità dei
cittadini europei, un risparmio per le imprese di circa 200 miliardi
di ECU, la creazione a medio termine di 2-5 milioni di nuovi posti di
lavoro, un incremento economico non inflazionistico pari al 5-7%.
Le angolazioni di siffatta tematica, che in questa sede intendiamo considerare,
riguardano principalmente:
- i riflessi sull'occupazione, che investono anche per l'Italia uno
dei massimi problemi che occorre risolvere, nei loro molteplici aspetti
sociali ed economici;
- il nuovo modo di essere che verrà a caratterizzare i servizi
finanziari;
- il riscontro che ne dovrà derivare per il nostro Mezzogiorno;
- le particolari difficoltà che l'Italia dovrà affrontare,
perché per essa - è stato giustamente detto - la strada
è tutta in salita e, per dirla con il Presidente Andreotti, deve
essere da noi percorsa mentre gli altri non stanno certo a dormire.
Il nodo della
disoccupazione
Per quanto attiene
in particolare all'occupazione. La premessa è anzitutto costituita
da un aumento pari al 5% circa del PIL della Comunità: noi,
come si sa, siamo al disotto di tale livello di poco meno della metà.
Tale obiettivo, che probabilmente nel quadro comunitario potrebbe
essere aumentato di un paio di punti, dovrebbe discendere dalla rimozione
degli ostacoli che si frappongono oggi all'ingresso sul mercato di
nuove imprese, dalla realizzazione di economie di scala in forza di
un grande mercato unico, da livelli conseguenti di produzione di carattere
ottimale. A medio termine dovrebbero altresì derivare un raffreddamento
dell'economia, deflazionando i prezzi al consumo del 6% in media,
il rallentamento della pressione finanziaria interna ed esterna, migliorando
i bilanci pubblici degli Stati membri in misura mediamente pari al
2,2% del PIL ed il saldo della Cee con l'estero all'incirca dell'1%
dello stesso PIL. E si sa quanto questi due specifici obiettivi siano
particolarmente pressanti per il nostro Paese, la cui economia trova
difatti in essi due dei nodi più determinanti per il suo domani
(centralità e non emarginazione) di membro della Comunità
economica europea.
In sostanza, le condizioni necessarie per giungere nel campo dell'occupazione
al traguardo prima indicato - 2-5 milioni di nuovi posti di lavoro:
2 milioni in 5-6 anni, che potrebbero salire a 5 milioni con politiche
economiche di cosiddetto accompagno -sono molteplici.
C'è da sottolineare anzitutto la funzione da definire e realizzare
per questa politica di accompagno che non solo dovrà avere
due facce, una nazionale ed una comunitaria, ma ne dovrà anche
esprimere l'armonizzazione, che dovrà essere di status, di
indirizzi, di norme. La stessa diversità delle attuali situazioni
di politiche economiche nei vari Paesi Cee, come la stessa composizione
del Parlamento europeo uscito dal voto del 18 giugno scorso, stanno
a sottolineare le profonde diversità in atto, alle quali occorrerà
sia pure gradualmente, ma coerentemente ed in termini brevi, imprimere
un corso maggiormente omogeneo, pur nelle differenziazioni dei punti
di partenza e dei singoli contesti, anche se essi non in tutto e subito
potranno essere riportati ad unità.
Ma che cosa ci possiamo immediatamente attendere dagli specifici indirizzi
ed impegni Cee in questa materia? Va precisato anzitutto che la politica
dell'occupazione nell'ambito della Cee è prerogativa degli
Stati membri, perché i suoi indirizzi e risultati sono indotti
dalle singole condotte nazionali e anche perché hanno a che
fare con ispirazioni ed istanze di fondo che hanno natura specifica
rispetto all'ambito di competenza. Ciò nello spirito comunitario
non esclude ma comporta una certa concertazione delle politiche nazionali,
già configurata a livello comunitario come scambi di informazioni
e di esperienze, adozione di risoluzioni che riguardano in particolare
una maggiore flessibilità dell'età pensionabile, la
lotta contro la disoccupazione ed un programma d'azione per incrementare
l'occupazione. Basta soffermarsi su questa prospettiva per constatare
i vuoti, anche programmatici, che le istanze e le condizioni nazionali
italiane devono colmare proprio per mettere a punto una strategia
organica in materia, anche in vista dell'utilizzazione degli apporti
che possono derivare dalla stessa strumentazione in atto o prevista
nell'ambito della Comunità.
E qui ci riferiamo principalmente al Fondo Sociale ed all'impatto
organizzativo inerente alla formazione professionale.
Circa il Fondo Sociale - le cui attuali disponibilità non sono
certo in linea con la dimensione del problema disoccupazionale della
Cee che coinvolge 16 milioni di lavoratori della Comunità -
è da dire che esso è impegnato ad intervenire con le
sue risorse nei confronti di iniziative interessanti i giovani al
disotto dei 24 anni, regioni più sfavorite (fra le quali si
colloca evidentemente anche il nostro Mezzogiorno, sul quale ci soffermeremo
più innanzi), l'alleviazione delle frizioni create da politiche
comunitarie, la disoccupazione strutturale in particolare nelle regioni
in ritardo o in declino. Oggi però abbiamo più che altro
a che fare con l'applicazione di una riforma che risale al 1984 e
che ha come riferimento immediato giovani e regioni sfavorite. Vi
è dunque molto cammino da compiere in relazione agli sviluppi
ed agli indirizzi previsti.
L'altra chiave di volta è quella della formazione professionale,
per la quale, oltre a quanto fa il Fondo, va sottolineata la funzione
spettante al centro europeo di sviluppo della formazione professionale
sorto a Berlino. Lo sbocco di questo centro è rappresentato
dai progetti pilota con il sostegno del Fondo Sociale, sulla base
di un programma organico che risale al 1987 e che oggi impone aggiornamenti
e sviluppi.
Altri interventi o intenti della Cee concernono la salute, la protezione
del lavoro, la parità fra uomini e donne, gli interessi economici
dei lavoratori, la partecipazione.
In particolare, per quanto attiene a questo specifico aspetto, varie
disposizioni adottate e progettate prevedono l'informazione e la consultazione
dei lavoratori in seno all'impresa. La partecipazione, invece, delle
parti sociali alle decisioni economiche e sociali della Comunità
si svolge attraverso il Comitato economico e sociale della stessa,
un comitato permanente dell'occupazione che risiede a Bruxelles.
In conclusione, al momento in questa tematica c'è più
da fare immediato affidamento sugli effetti indotti derivanti all'occupazione
dalla nuova realtà comunitaria che si viene delineando che
non dagli interventi specifici, che evidentemente comportano una maggiore
e più radicale messa a punto, anche con l'impiego di disponibilità
maggiori di quelle in atto, che hanno perciò provocato effetti
ancora circoscritti, fra l'altro in un contesto nazionale che non
sempre prontamente ed efficacemente li ha recepiti.
L'evoluzione
dei servizi finanziari
E veniamo al nuovo
modo di essere dei servizi finanziari, altro aspetto fondamentale
della realtà europea del '93. In termini di produzione, questo
settore rappresenta il 7% circa del prodotto interno lordo della Comunità,
con punte massime del 14% per il Lussemburgo e minime, del 4,5%, per
la Francia.
I vantaggi che dovrebbero derivare per questo settore da un mercato
europeo concernono la disponibilità per gli utenti di una gamma
di servizi competitivi indipendentemente dal Paese in cui essi sono
sorti, il rafforzamento che da ciò deriva per la stessa competitività
della produzione, la maggiore efficienza dei servizi anche rispetto
alla concorrenza americana e giapponese. La Cee non ha mancato di
quantificare tutto ciò in un guadagno complessivo per i consumatori,
che dovrebbe essere compreso fra gli 11 ed i 33 miliardi di ECU, con
22 miliardi di media sui quali ci si può basare, cui vanno
aggiunti i benefici che possono derivare da un'armonizzazione dei
tassi d'interesse. Quest'ultimo tema è stato sottolineato,
per quanto ci riguarda, anche dinanzi alle Commissioni Bilancio della
Camera e del Senato.
L'entità delle aliquote fiscali su interessi da depositi bancari
e di libretti di risparmio vede nell'ambito Cee 9 Paesi a livelli
più sostenibili dei nostri. In Italia si applica il 30%, il
livello più alto nell'ambito della Cee con la sola eccezione
della Francia: perché si parte da quota zero per la Danimarca,
la Grecia, il Lussemburgo, l'Olanda e si sale al 10% per la Repubblica
Federale Tedesca, al 20% per la Spagna, al 25% per la Gran Bretagna,
al 45% per la Francia.
Questo quadro si aggraverà il 1° luglio dell'anno prossimo
con imposte sulla intermediazione finanziaria molto più elevate
che negli altri Paesi e con la incisività maggiore dovuta fra
l'altro al fatto che sulle nostre banche gravano anche gli oneri connessi
alla riserva obbligatoria. Ne derivano o possono derivare complicazioni,
naturalmente da fronteggiare con la necessaria tempestività,
nella gestione della politica monetaria, per possibili deflussi di
capitali attratti da aree più allettanti, per il nostro grado
di competitività. Si tratta di motivazioni strettamente tecniche,
non disgiunte tuttavia da un profilo anche di strategia e filosofia
del risparmio, dirette non diciamo a premiare il risparmio - il che
è più doveroso oltre le stesse sfere individuali - ma
certamente a penalizzarlo di meno nel confronto internazionale.
Tre sono i fondamenti del mercato unico dei servizi finanziari, e
cioè libertà per tutti gli istituti finanziari di stabilire
la propria sede e le proprie filiali in qualsiasi Paese della Comunità
la libertà per detti istituti di offrire liberamente nella
Comunità stessi servizi e prodotti, senza doversi preoccupare
degli ostacoli rappresentati dall'esistenza delle frontiere e senza
che questo li costringa a stabilirsi in Paesi membri diversi dal loro
paese d'origine la libertà dei movimenti di capitali in tutta
la Comunità.
Il cammino non è certamente facile, perché gli ostacoli
da superare sono notevoli, a fronte di una situazione attuale in forza
della quale oggi le banche devono ancora passare attraverso 11 diversi
organismi di controllo prima di poter aprire delle filiali in tutti
gli Stati membri, le attività bancarie non sono ancora definite,
i servizi bancari non possono essere offerti attraverso le frontiere
di tutti gli Stati membri, ecc.
Ci sono, come si sa, a livello comunitario delle premesse già
poste, talune anche dagli inizi degli anni '60 (come è ad esempio
per la liberalizzazione degli investimenti diretti e di portafoglio
in azioni quotate in borsa ed in obbligazioni), ma lo sforzo da compiere
e gli impegni da assolvere sono ancora molti e particolarmente pressanti
per quanto ci riguarda. Un'indagine qualificata svolta a questo proposito
(è della Delphi, in collaborazione con l'Associazione Bancaria
Italiana ed il Comitato Direttivo degli agenti di cambio della Borsa
Valori di Milano) sottolinea che il futuro dei nostri mercati finanziari
italiani non è roseo ed è pieno di incognite, legate
ad un processo di internazionalizzazione difficile da riflettere nel
nostro sistema, che è cresciuto nel quadro delle restrizioni
valutarie e della dimensione macroscopica del deficit pubblico, con
tutte le storture e le strozzature che esso ha determinato e continua
purtroppo a determinare.
Il panorama che si delinea per quanto attiene all'attitudine del contesto
nel quale si esplicherà l'attività bancaria, oltre ad
essere condizionato da quanto avverrà in termini di indebitamento
pubblico, avrà a che fare con:
- una crescita degli investimenti in titoli delle famiglie, soprattutto
attraverso investitori istituzionali (assicurazioni vita e fondi pensione);
- la prosecuzione della flessione dei depositi bancari. A fronte delle
attività finanziarie delle nostre famiglie, che nel 1988 sono
ammontate a 1 milione 421.782 miliardi di lire, vi sono i depositi
bancari, che all'inizio dell'anno erano poco più di 390 mila
miliardi ed oggi si calcola che abbiano superato i 400 mila miliardi,
con un ritmo di crescita che è condizionato dalla concorrenza
dei titoli di Stato e, come detto prima, dalla pesantezza del trattamento
fiscale;
- l'aumento dell'interesse per i mercati finanziari da parte delle
imprese con una domanda di servizi e di occasioni di investimento
molto più sofisticata e spesso maggiormente orientata verso
l'estero;
- la necessità di una profonda riforma organizzativa e tecnologica
della Borsa italiana, che indipendentemente dalla situazione nuova
del '93 è già in larga misura inadeguata al ruolo dell'Italia
nel novero delle Nazioni maggiormente industrializzate del mondo;
- un sostanziale miglioramento dei servizi di intermediazione: fra
l'altro viene sottolineato dagli esperti che occorre riciclare al
settore azionario strutture cresciute all'ombra del mercato monetario.
Ne dovrà derivare, secondo queste sollecitazioni, un contesto
mirato al nodo della compensazione a livello europeo, all'armonizzazione
degli standard di base, ai trattamenti equilibrati in materia fiscale
sugli investimenti mobiliari.
E qui certamente il discorso diviene più lungo. Si dice a livello
governativo italiano - e l'occasione per tali espressioni è
stata fornita dall'ultima assemblea annuale dell'Assonime - che se
il trattamento fiscale del risparmio, cui l'Italia si dichiara impegnata,
non trovasse la via di un'adeguata armonizzazione, ed in questo momento
le difficoltà continuano ad essere notevoli, la libera circolazione
dei capitali avrebbe difficile inizio e vita incerta. Al momento sono
infatti da registrare il no della Gran Bretagna, pur nella nebulosa
di accettazione di vaghe dichiarazioni di intenti e la scelta tedesca
di abolire la ritenuta d'acconto sulle rendite finanziarie.
La complessità dell'armonizzazione deriva anche da altre motivazioni
e fra l'altro non si manca di osservare da qualche parte che essa
nel campo dei redditi da capitale deve evitare che si collochi a livelli
troppo bassi, tali da trasformare la concezione del mercato unico
europeo in uno strumento, in sede di sperequazione tributaria fra
le diverse categorie di cittadini.
Comunque, la sfera che riguarda la diretta nostra iniziativa è
sempre molto ampia e riguarda, oltre che indebitamento pubblico ed
assetto tributario, oltre che il recupero del ritardo con il quale
accogliamo le direttive comunitarie e spesso di esse ci avvaliamo,
anche il ripensamento, come lo ha definito recentemente Guido Carli,
del sistema delle leggi nelle quali si inquadra una società
fondata sull'iniziativa dei cittadini, dovendosi superare il progressivo
degrado in atto del processo di formazione delle norme e di funzionalità
dei poteri a tutti i livelli.
In questo ambito si colloca il grosso problema della moneta: unione
monetaria, moneta Cee, per le quali c'è chi pone l'acceleratore
e chi il freno, ci sono le intenzioni e le incompatibilità,
le condizioni da determinare ed osservare, le, eccezioni e le autoesclusioni
che incalzano, e così via.
Accanto ai vertici, ai progetti, alle riserve, alle sollecitazioni,
c'è da registrare il rapporto Delors, che prescrive per una
prima fase da subito, una maggiore convergenza economica nella cornice
delle istituzioni esistenti, con il supporto di un comitato dei governatori,
dotato di poteri propositivi al Consiglio dei ministri. Qualcosa di
simile era stata immaginato anche nel 1972, ma fu accantonata di fronte
all'ondata di inflazione da greggio, allorché i nuovi Paesi
Cee del tempo imboccarono strade divergenti.
Quanto alla seconda fase del progetto Delors (la data di inizio è
prudenzialmente, ma forse anche scetticamente, in bianco), un sistema
europeo di banche centrali dovrebbe assumere una concreta, rigorosa
e valida fisionomia operativa, fra l'altro prevedendosi la creazione
di un organismo di tecnici con il compito di armonizzare i comportamenti
dei diversi Paesi.
I dati di fatto di cui bisogna prendere atto e che occorre rimuovere
per l'unione monetaria sono conclusivamente per ora riassunti dal
fatto che fino a quando la sterlina resterà fuori dallo SME
una vera e propria moneta europea ed una banca centrale avranno un
inizio difficile, anzi impossibile. Si aggiunga l'altro ostacolo da
smuovere e che riguarda il fatto Che, anche chi oggi si dice favorevole,
difficilmente sarebbe disposto a rinunciare alla propria autonomia.
Comunque, per quanto ci riguarda, indipendentemente da questo finalismo
dobbiamo rimuovere tutte le condizioni interne che lo contraddicono.
Un Mezzogiorno
come cardine.
La centralità
del Mezzogiorno in tutto questo panorama è, e sempre più
dovrà essere, dominante. L'appello che le imprese italiane
hanno lanciato in vista del mercato unico sottolinea come suo punto
saliente:
- dalle istituzioni comunitarie si attendono politiche capaci di ridurre
gli squilibri interni e di assicurare eguaglianza di condizioni e
di opportunità fra i Paesi e le Regioni della Cee. Permangono,
infatti, nella Comunità ampi dislivelli di condizioni di vita.
- il rischio che alcune aree restino escluse dai benefici derivanti
dalla creazione del mercato unico va contrastato dalla Cee con un
più intenso impegno finanziario collegato all'efficacia delle
azioni comuni a carattere strutturale.
Il tutto deve essere impostato con un'ottica sostanzialmente innovatrice.
Il Rapporto Svimez '89 sulle prospettive dell'economia meridionale
mette in evidenza che purtroppo la forbice fra Nord e Sud si fa più
larga, che la disoccupazione ormai è andata oltre il livello
di guardia, che gli investimenti registrano un calo.
La filosofia di questo Rapporto si basa su due princìpi: occorre
sgomberare il campo dall'illusione del Nord di proseguire nello sviluppo
ignorando i problemi del Mezzogiorno; occorre eliminare ogni improvvida
ipotesi, che poi sarebbe rozza ignoranza ed ipocrisia infantile, di
un Sud che possa sopravvivere non al centro, ma ai margini del mercato
unico. Fondamentale, secondo lo Svimez, è il fatto che dopo
dieci anni di ristrutturazione industriale, sei di ripresa economica
e quattro di forte aumento della domanda esiste un potenziale di capacità
produttiva industriale che ben potrebbe, e si deve, collocare nelle
regioni del Mezzogiorno.
In Italia, il Paese con il quale si confrontano e si confronteranno
gli altri, esistono oggi due Italie: una nella quale si è raggiunta
la piena occupazione, l'altra in cui la disoccupazione supera largamente
il 20% della forza lavoro, senza che ciò inneschi automaticamente
- come è avvenuto in passato - processi massicci di emigrazione.
Ci sono gli abbozzi di nuove condizioni migliorative e per talune
di esse si registrano anche i primi inizi. I riscontri riguardano
lo sveltimento delle procedure agevolative, le nuove regole del mercato
del lavoro nel Sud, ecc.
A contare in concreto non è solo la quantità, ma soprattutto
la qualità dello sviluppo che, viene osservato, va realizzato
in una nuova ottica, riguardante pure la legge n. 64/1986 (sfera di
competenze anche delle amministrazioni locali). Nel Sud "appaiono
assai più diffuse che al Nord situazioni di dissesto, minore
la dotazione di risorse tecniche, maggiore l'instabilità degli
esecutivi, più stringente l'assedio delle emergenze, più
forti le pressioni per un uso delle risorse pubbliche, difforme dall'interesse
generale". Si tratta, come si vede, di considerazioni che si
traducono in una requisitoria.
Riguardo appunto a questa legge, gli operatori economici osservano
che essa sicuramente è nata con princìpi sani secondo
uno schema accettabile: l'intervento straordinario deve pensare innanzitutto
all'innovazione tecnologica e ad una serie di grandi progetti interregionali.
Del resto devono occuparsi le regioni.
E si aggiunge sempre da parte degli operatori economici che, dato
per acquisito che questo impianto è giusto e che tuttavia la
legge non sta funzionando, non si può ricominciare daccapo.
Occorre invece utilizzare al meglio quanto esiste, perché se
si dovesse pensare ad una nuova legge per il Sud si perderebbero altri
anni preziosi arrivando poi a disposizioni più o meno simili
a quelle attuali.
Oggi come oggi, in materia di incentivi, i problemi non riguardano
l'idoneità dell'indirizzo della norma in atto, e cioè
della 64, ma le norme di attuazione e di gestione. E' da osservare
però che per quanto riguarda l'intervento sul territorio, la
64 viene chiamata in causa perché non si sarebbe fatta carico
del vuoto di capacità tecnico-progettuale, sia a livello locale
che a livello centrale, originato dalla caduta improvvisa di una struttura
come quella della Cassa per il Mezzogiorno.
Che si deve fare? Bisogna rivitalizzare gli sforzi, ovviando e superando
gli intralci normativi, di indirizzi, di applicazioni, che sono determinati
da remore, istituzionali e burocratiche, indotte a loro volta anche
dall'inefficienza delle istituzioni e dalla complicazione delle leggi,
dal maggior peso che è stato dato agli incentivi al Nord rispetto
a quelli del Mezzogiorno, dalle nuove tendenze della tecnologia, le
quali vanno rilette anche in funzione del Sud, come d'altra parte
anche l'IRI e qualche grande industria privata stanno facendo.
In questa logica il problema del Mezzogiorno va affrontato in una
dimensione diversa e maggiore. Le stesse cifre parlano chiaro. Nel
1987, ad esempio, e per la prima volta, la disoccupazione del Sud
ha superato il 50% del totale nazionale, mentre la quota di partecipazione
del Meridione al totale italiano delle forze di lavoro è solo
del 33%. Siamo inoltre di fronte ad un Mezzogiorno che rappresenta
il 36% della popolazione del Paese, e secondo le previsioni della
SVIMEZ questa percentuale nel 2007 raggiungerà il 40%.
Ma altre cifre ancora più incombenti da tenere presenti e da
correggere riguardano il complesso della spesa pubblica in percentuale
rispetto al PIL, alla popolazione, pro capite. Ebbene, ancora una
volta i divari non solo si rivelano stridenti, ma offrono anche la
spiegazione perché gli squilibri o i disequilibri siano tanto
macroscopici.
Una popolazione, come quella meridionale, che rappresenta il 36,6%
del totale si avvale di una spesa pubblica del 34,1%. Una popolazione
del Centro Nord, che costituisce il 63,4% del totale, fruisce invece
del 65,9% della spesa pubblica. Inoltre la spesa pubblica pro capite
in migliaia di lire (avverte l'indagine SVIMEZ che la quota di spesa
pubblica che è stato possibile ripartire territorialmente,
dati i limiti delle fonti disponibili, è pari al 50% circa
delle spese complessive delle Amministrazioni pubbliche) è
stata nel 1988 di 3.821, 3 nel Mezzogiorno e di 4.269,6 nel Centro
Nord, dovendosi attribuire rispettivamente allo Stato 1.344,6 e 1.742,6,
alle Regioni e Provincie 796,5 e 481,9, ai Comuni 884,3 e 1.146,4,
alle UU.SS.LL. 795,9 e 898,7.
Il mercato unico europeo dovrà pertanto servire anzitutto come
motivo di urgente risveglio di questa problematica, di accelerazione
dell'aggiustamento del quadro e dei congegni, di allocazione nel Mezzogiorno
di energie vitali per la stessa migliore nostra partecipazione al
mercato unico. E naturalmente, come si diceva all'inizio di queste
specifiche notazioni, dovrà assicurarci non solo maggiori possibilità
produttive e mercantili, partendo dall'espansione delle infrastrutture
e dall'impianto di industrie ad alto contenuto tecnologico, che sono
quelle che avranno maggiore avvenire, ma anche interventi comunitari
più ampi e meglio mirati.
Nel Mezzogiorno molto e nuovo deve nascere. Esso rappresenta un terreno,
per dirla con Carlo De Benedetti, più adatto all'innovazione,
più capace dì assorbire le spinte esterne, più
abbondante della chiave, nei prossimi decenni, dello sviluppo: il
capitale umano.
Un percorso
in salita
Abbiamo detto
all'inizio di questa esposizione che il percorso da effettuare in
vista del '93 è tutto in salita per quanto riguarda l'Italia.
Ma la stessa cosa - pure in misura mediamente inferiore - si può
ripetere per l'Europa tutta intera, a causa di una cultura comunitaria
che manca, dì una strategia da mettere meglio a punto, della
serie di attriti e delle remore che sopravvivono e resistono al di
là delle stesse intenzioni.
Vi sono delle convinzioni che sono certamente fuori discussione e
forse per taluni aspetti sono portate ad anticipare le cose e a scorgere
come reale o immediato quello che ancora non c'è ed è
pure problematicamente futuro. Vi sono, per contro, cose che sono
più o meno a portata di mano e che riguardano, come si sa,
la sfera economica.
Bisogna far convergere il più possibile il già reale
o il prossimo da definire con le istanze che vengono maturando o che
si pensa e si vuole maturare. Quando parliamo di Europa, dobbiamo
certamente tenere conto - come fattori almeno di rallentamento, se
non di digressione - della posizione statunitense, ora di partecipe
diretta e diligente ora di osservazione e di attesa, talvolta con
accenti più o meno isolazionistici; dell'attitudine assunta
dalla Gran Bretagna, con la sua presenza tanto condizionata, restia
ad accettare determinate svolte con una porta semichiusa ed una finestra
sempre aperta per essere al corrente, se non sempre partecipe, di
quanto si annuncia o si prepara più o meno concretamente (la
signora Thatcher spesso "vede", dando la sensazione di entrare
nel gioco, come spesso si rifugia nel rinvio); della neocentralità
tedesca; della forte pressione sovietica.
Apriamo una parentesi su questo specifico aspetto. Esso ha evidentemente
una natura nettamente politica, prima che economica. Risponde ad un
disegno da nuovo corso della politica gorbacioviana, all'esibizione
di posizioni di disponibilità, ma non nasconde i propri presupposti,
che non si riassumono nell'accantonamento del socialismo nella concezione
sovietica, ma si ispirano ad un sistema che sostanzialmente non accetta
in definitiva il libero mercato.
Difatti, quando Gorbaciov denuncia i pericoli che si presentano alla
sua perestrojka, ammonisce contro gli attentati che si compiono al
pensiero socialista, come egli l'intende in un contesto che conosciamo
e che in un certo senso cerca il nuovo, ma del vecchio che vuole rimuovere
non fornisce un precisa disegno e tollera (anzi talvolta dichiara
di promuovere) in gran parte dei propri aspetti la sopravvivenza.
Comunque, in questa specifica sfera, l'URSS tende ad un accordo di
10 anni, avendo alla base un mandato negoziale che prevede che anche
il settore nucleare (quindi l'Euratom, la Comunità Europea
per l'uso pacifico dell'energia nucleare) sia incluso nell'accordo,
con riferimento particolare alle attività di ricerca e di conseguimento
della sicurezza delle centrali. Altri fondamenti dell'accordo dovranno
riguardare la cooperazione nel campo dei trasporti, della produzione
di energia in genere, della protezione dell'ambiente, della collaborazione
tecnologica (e questa come si sa è oggi frenata dalle regole
del COMECOM), dello sviluppo delle joint venture, dell'espansione
delle relazioni commerciali e così via. Un punto di partenza
di tutto ciò è nelle relazioni già in atto fra
la Cee ed alcuni Paesi del COMECON, come l'Ungheria, la Cecoslovacchia,
la Polonia, la Bulgaria, ecc., essendo in atto contatti pure con la
Romania e la Germania Orientale, non ancora sfociati in accordi.
La realtà è che oggi nell'Est europeo sono in atto o
in prospettiva tante posizioni particolari e differenziate (si pensi
in particolare a Polonia ed Ungheria), che non sono se non in parte
riconducibili, non diciamo ad unità di accordi, ma neppure
ad univocità di punti dì partenza e di possibili concretizzazioni
di sbocchi e di riscontri pienamente armonizzati o armonizzabili.
E questo è il lungo lavoro da svolgere in parallelo con quelle
che saranno le reali esperienze e progressioni che saranno compiute
nei Paesi dell'Est, anche nei loro traguardi che, va rilevato, sono
diversi e differentemente graduabili nel tempo e nelle caratteristiche.
Ricordiamo perciò che le prospettive nell'Europa sono ancora
diverse, fra quella dei Dodici e l'altra parte del Continente, e che
nella stessa Europa comunitaria l'identità economica, la stessa
sua progressione verso l'unità politica e così via non
saranno per lungo tempo dietro l'angolo, perché le singole
unità componenti hanno più o meno tutte una loro forza
vitale, portata a ricercare e praticare più che altro la convenienza,
non prevedendo forse mai la propria identificazione totale in un nucleo
che escluda e bandisca gli altri.
Ha scritto acutamente qualcuno che ci aspettiamo da questa Europa
il miracolo di venire assolti da tutti gli sforzi che dovremo compiere
nel nostro quadro nazionale e che l'Europa ci appare come un fatto
compiuto, come se le regole cambiassero una volta cambiato il posto
dove si svolge il gioco.
Il particolare sfondo italiano, con il forte gap che ci differenzia
da gran parte dei Paesi Cee e comunque dai livelli medi complessivi,
oltre ad essere oggetto di programmi, impegni, iniziative di Governo,
di categorie produttrici, di sindacati, ecc., ha fra l'altro suggerito
una qualificata indagine dovuta al BIPE di Parigi, all'IFO di Monaco
ed alla PROMETEIA di Bologna.
Questa indagine, nel tracciare il contesto unitario che caratterizzerà
la Cee 1993, fornisce specifiche indicazioni che riguardano pure il
nostro Paese.
I grossi nodi che dovremo sciogliere riguardano principalmente:
- lo squilibrio della finanza pubblica. E' stato calcolato che, se
non si interverrà drasticamente in questa materia, nei prossimi
5 anni il debito dello Stato aumenterà dell'80%, il peso della
spesa per interessi diventerà insopportabile, la vita media
dei titoli pubblici scenderò sotto i due anni e le emissioni
lorde mensili del Tesoro potranno raggiungere i 60 mila miliardi;
- l'inefficienza dei servizi pubblici, che si riflette negativamente
anche sulla capacità competitiva del nostro sistema. Se ne
vedono le conseguenze anche nel campo delle esportazioni, con una
nostra concorrenzialità che è meno vigorosa del necessario,
soprattutto nei riguardi di mercati come gli Stati Uniti, la Germania,
la Francia.
- la pesantezza del nostro costo del lavoro. Le previsioni che si
fanno per il 1989 è che l'incremento possa raggiungere il 10%
contro una crescita durante l'anno scorso dell'8,5%. E ciò
senza contare che l'anno scorso il costo del lavoro per unità
di prodotto è salito in vari settori importanti del 3,5% rispetto
al 1987. Negli altri Paesi l'aumento è decisamente inferiore.
C'è da aggiungere che la forbice fra costo del lavoro e retribuzioni
si sta ulteriormente allargando. Ad esempio, la struttura percentuale
dell'onere totale per le aziende metalmeccaniche in retribuzione lorda,
in contributi sociali ed in altri gravami, vede l'Italia rispettivamente
al 66,6%, al 28,1% ed al 5,3% contro l'85,9%, il 12,5% e l'1,6 della
Gran Bretagna, l'82,7%, il 16%, l'1,3% della Germania Federale, il
74%, il 24,3% e l'1,7% della Francia.
- la cronicità della nostra disoccupazione, con le gravi puntualizzazioni
concernenti il Mezzogiorno ed i giovani.
- il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, con uno squilibrio quanto
mai pesante anche sotto il profilo sociale rispetto al Centro-Nord.
Non si tratta solo di una grossa sommatoria di importanti Regioni
che vengono tenute fuori dal ritmo indispensabile di crescita, ma
di una grandissima fetta del Paese tutto.
- la lentezza del nostro progresso tecnologico in settori industriali
chiave ed in quello dei servizi.
E l'elencazione potrebbe continuare ancora.
Per il periodo 1987-1992 le previsioni che sono state formulate per
quanto attiene ai nostri livelli rispetto a quelli medi calcolati
per la Cee pongono in evidenza che la variazione percentuale media
annua sardi rispettivamente per il nostro Paese ed il complesso degli
altri partners comunitari per i consumi privati del 2,9% e del 2,6%;
per quelli pubblici del 2,3% e del 2,0%; per gli investimenti fissi
lordi del 3,2% e del 3,7%, per le esportazioni dell'1,7% e del 2,0%;
per le importazioni del 5,3% e del 5,1%; per l'inflazione del 5,0%
e del 3,5%; per il prodotto interno lordo 2,7% e 2,6%.
Questi rapporti mettono in luce alcuni dei gap di cui abbiamo parlato
prima, e prospettano cifre che in talune materie sono ottimistiche
per quanto ci riguarda e non trovano ancora punti di riferimento idonei
a sostenerle. Così ad esempio per quanto riguarda il tasso
inflazionistico, attualmente attestato sul livello tendenziale annuo
del 7%, anche se per esso si prevede per la fine d'anno un'attenuazione.
I nostri segni di debolezza hanno, dunque, una grande estensione e
coinvolgono alcune molle ed alcuni settori determinanti dal punto
di vista strategico.
Aree deboli e settori deboli: questo il quadro da affrontare. Gli
studi effettuati al riguardo hanno posto in luce che fra i settori
deboli (dove le nostre importazioni dal resto della Cee eccedono le
esportazioni) sono quelli ad alto contenuto tecnologico e a forte
crescita della domanda (telecomunicazioni, informatica, macchine da
ufficio), quelli legati ai mercati pubblici (materiale ferroviario)
ed ai mercati regolamentati, quelli ad elevato contenuto occupazionale,
come l'automobile e la chimica di base.
Il risvolto positivo - che pure c'è - di tutto questo lungo
discorso è che bisogna porre mano senza indugi all'adeguamento
del sistema pubblico, all'eliminazione dei disequilibri regionali,
al potenziamento della struttura produttiva, a comportamenti di politica
economica coerenti, alla reale esplicazione di una nostra capacità
di recepimento di direttrici ed interventi Cee. Le cosiddette "schede"
programmatiche dei programmi governativi, fino all'ultimo del Governo
attualmente in carica, ne parlano, ma è solo dal lato dei fatti
che vanno valutate le intenzioni.