§ Regioni - Stati - Europa

Un volto nuovo per il vecchio Continente




Gennaro Pistolese



La progettualità finalistica legata al completamento del mercato interno europeo che entrerà in funzione nel 1993, ma che comporta una serie di aggiustamenti che tutti gli Stati membri dovranno effettuare in precedenza, prevede - come sottolineano i documenti ufficiali della Cee - un determinante contributo alla ripresa dell'industria e dei servizi, un impulso permanente per l'accrescimento della prosperità dei cittadini europei, un risparmio per le imprese di circa 200 miliardi di ECU, la creazione a medio termine di 2-5 milioni di nuovi posti di lavoro, un incremento economico non inflazionistico pari al 5-7%.
Le angolazioni di siffatta tematica, che in questa sede intendiamo considerare, riguardano principalmente:
- i riflessi sull'occupazione, che investono anche per l'Italia uno dei massimi problemi che occorre risolvere, nei loro molteplici aspetti sociali ed economici;
- il nuovo modo di essere che verrà a caratterizzare i servizi finanziari;
- il riscontro che ne dovrà derivare per il nostro Mezzogiorno;
- le particolari difficoltà che l'Italia dovrà affrontare, perché per essa - è stato giustamente detto - la strada è tutta in salita e, per dirla con il Presidente Andreotti, deve essere da noi percorsa mentre gli altri non stanno certo a dormire.

Il nodo della disoccupazione

Per quanto attiene in particolare all'occupazione. La premessa è anzitutto costituita da un aumento pari al 5% circa del PIL della Comunità: noi, come si sa, siamo al disotto di tale livello di poco meno della metà. Tale obiettivo, che probabilmente nel quadro comunitario potrebbe essere aumentato di un paio di punti, dovrebbe discendere dalla rimozione degli ostacoli che si frappongono oggi all'ingresso sul mercato di nuove imprese, dalla realizzazione di economie di scala in forza di un grande mercato unico, da livelli conseguenti di produzione di carattere ottimale. A medio termine dovrebbero altresì derivare un raffreddamento dell'economia, deflazionando i prezzi al consumo del 6% in media, il rallentamento della pressione finanziaria interna ed esterna, migliorando i bilanci pubblici degli Stati membri in misura mediamente pari al 2,2% del PIL ed il saldo della Cee con l'estero all'incirca dell'1% dello stesso PIL. E si sa quanto questi due specifici obiettivi siano particolarmente pressanti per il nostro Paese, la cui economia trova difatti in essi due dei nodi più determinanti per il suo domani (centralità e non emarginazione) di membro della Comunità economica europea.
In sostanza, le condizioni necessarie per giungere nel campo dell'occupazione al traguardo prima indicato - 2-5 milioni di nuovi posti di lavoro: 2 milioni in 5-6 anni, che potrebbero salire a 5 milioni con politiche economiche di cosiddetto accompagno -sono molteplici.
C'è da sottolineare anzitutto la funzione da definire e realizzare per questa politica di accompagno che non solo dovrà avere due facce, una nazionale ed una comunitaria, ma ne dovrà anche esprimere l'armonizzazione, che dovrà essere di status, di indirizzi, di norme. La stessa diversità delle attuali situazioni di politiche economiche nei vari Paesi Cee, come la stessa composizione del Parlamento europeo uscito dal voto del 18 giugno scorso, stanno a sottolineare le profonde diversità in atto, alle quali occorrerà sia pure gradualmente, ma coerentemente ed in termini brevi, imprimere un corso maggiormente omogeneo, pur nelle differenziazioni dei punti di partenza e dei singoli contesti, anche se essi non in tutto e subito potranno essere riportati ad unità.
Ma che cosa ci possiamo immediatamente attendere dagli specifici indirizzi ed impegni Cee in questa materia? Va precisato anzitutto che la politica dell'occupazione nell'ambito della Cee è prerogativa degli Stati membri, perché i suoi indirizzi e risultati sono indotti dalle singole condotte nazionali e anche perché hanno a che fare con ispirazioni ed istanze di fondo che hanno natura specifica rispetto all'ambito di competenza. Ciò nello spirito comunitario non esclude ma comporta una certa concertazione delle politiche nazionali, già configurata a livello comunitario come scambi di informazioni e di esperienze, adozione di risoluzioni che riguardano in particolare una maggiore flessibilità dell'età pensionabile, la lotta contro la disoccupazione ed un programma d'azione per incrementare l'occupazione. Basta soffermarsi su questa prospettiva per constatare i vuoti, anche programmatici, che le istanze e le condizioni nazionali italiane devono colmare proprio per mettere a punto una strategia organica in materia, anche in vista dell'utilizzazione degli apporti che possono derivare dalla stessa strumentazione in atto o prevista nell'ambito della Comunità.
E qui ci riferiamo principalmente al Fondo Sociale ed all'impatto organizzativo inerente alla formazione professionale.
Circa il Fondo Sociale - le cui attuali disponibilità non sono certo in linea con la dimensione del problema disoccupazionale della Cee che coinvolge 16 milioni di lavoratori della Comunità - è da dire che esso è impegnato ad intervenire con le sue risorse nei confronti di iniziative interessanti i giovani al disotto dei 24 anni, regioni più sfavorite (fra le quali si colloca evidentemente anche il nostro Mezzogiorno, sul quale ci soffermeremo più innanzi), l'alleviazione delle frizioni create da politiche comunitarie, la disoccupazione strutturale in particolare nelle regioni in ritardo o in declino. Oggi però abbiamo più che altro a che fare con l'applicazione di una riforma che risale al 1984 e che ha come riferimento immediato giovani e regioni sfavorite. Vi è dunque molto cammino da compiere in relazione agli sviluppi ed agli indirizzi previsti.
L'altra chiave di volta è quella della formazione professionale, per la quale, oltre a quanto fa il Fondo, va sottolineata la funzione spettante al centro europeo di sviluppo della formazione professionale sorto a Berlino. Lo sbocco di questo centro è rappresentato dai progetti pilota con il sostegno del Fondo Sociale, sulla base di un programma organico che risale al 1987 e che oggi impone aggiornamenti e sviluppi.
Altri interventi o intenti della Cee concernono la salute, la protezione del lavoro, la parità fra uomini e donne, gli interessi economici dei lavoratori, la partecipazione.
In particolare, per quanto attiene a questo specifico aspetto, varie disposizioni adottate e progettate prevedono l'informazione e la consultazione dei lavoratori in seno all'impresa. La partecipazione, invece, delle parti sociali alle decisioni economiche e sociali della Comunità si svolge attraverso il Comitato economico e sociale della stessa, un comitato permanente dell'occupazione che risiede a Bruxelles.
In conclusione, al momento in questa tematica c'è più da fare immediato affidamento sugli effetti indotti derivanti all'occupazione dalla nuova realtà comunitaria che si viene delineando che non dagli interventi specifici, che evidentemente comportano una maggiore e più radicale messa a punto, anche con l'impiego di disponibilità maggiori di quelle in atto, che hanno perciò provocato effetti ancora circoscritti, fra l'altro in un contesto nazionale che non sempre prontamente ed efficacemente li ha recepiti.

L'evoluzione dei servizi finanziari

E veniamo al nuovo modo di essere dei servizi finanziari, altro aspetto fondamentale della realtà europea del '93. In termini di produzione, questo settore rappresenta il 7% circa del prodotto interno lordo della Comunità, con punte massime del 14% per il Lussemburgo e minime, del 4,5%, per la Francia.
I vantaggi che dovrebbero derivare per questo settore da un mercato europeo concernono la disponibilità per gli utenti di una gamma di servizi competitivi indipendentemente dal Paese in cui essi sono sorti, il rafforzamento che da ciò deriva per la stessa competitività della produzione, la maggiore efficienza dei servizi anche rispetto alla concorrenza americana e giapponese. La Cee non ha mancato di quantificare tutto ciò in un guadagno complessivo per i consumatori, che dovrebbe essere compreso fra gli 11 ed i 33 miliardi di ECU, con 22 miliardi di media sui quali ci si può basare, cui vanno aggiunti i benefici che possono derivare da un'armonizzazione dei tassi d'interesse. Quest'ultimo tema è stato sottolineato, per quanto ci riguarda, anche dinanzi alle Commissioni Bilancio della Camera e del Senato.
L'entità delle aliquote fiscali su interessi da depositi bancari e di libretti di risparmio vede nell'ambito Cee 9 Paesi a livelli più sostenibili dei nostri. In Italia si applica il 30%, il livello più alto nell'ambito della Cee con la sola eccezione della Francia: perché si parte da quota zero per la Danimarca, la Grecia, il Lussemburgo, l'Olanda e si sale al 10% per la Repubblica Federale Tedesca, al 20% per la Spagna, al 25% per la Gran Bretagna, al 45% per la Francia.
Questo quadro si aggraverà il 1° luglio dell'anno prossimo con imposte sulla intermediazione finanziaria molto più elevate che negli altri Paesi e con la incisività maggiore dovuta fra l'altro al fatto che sulle nostre banche gravano anche gli oneri connessi alla riserva obbligatoria. Ne derivano o possono derivare complicazioni, naturalmente da fronteggiare con la necessaria tempestività, nella gestione della politica monetaria, per possibili deflussi di capitali attratti da aree più allettanti, per il nostro grado di competitività. Si tratta di motivazioni strettamente tecniche, non disgiunte tuttavia da un profilo anche di strategia e filosofia del risparmio, dirette non diciamo a premiare il risparmio - il che è più doveroso oltre le stesse sfere individuali - ma certamente a penalizzarlo di meno nel confronto internazionale.
Tre sono i fondamenti del mercato unico dei servizi finanziari, e cioè libertà per tutti gli istituti finanziari di stabilire la propria sede e le proprie filiali in qualsiasi Paese della Comunità la libertà per detti istituti di offrire liberamente nella Comunità stessi servizi e prodotti, senza doversi preoccupare degli ostacoli rappresentati dall'esistenza delle frontiere e senza che questo li costringa a stabilirsi in Paesi membri diversi dal loro paese d'origine la libertà dei movimenti di capitali in tutta la Comunità.
Il cammino non è certamente facile, perché gli ostacoli da superare sono notevoli, a fronte di una situazione attuale in forza della quale oggi le banche devono ancora passare attraverso 11 diversi organismi di controllo prima di poter aprire delle filiali in tutti gli Stati membri, le attività bancarie non sono ancora definite, i servizi bancari non possono essere offerti attraverso le frontiere di tutti gli Stati membri, ecc.
Ci sono, come si sa, a livello comunitario delle premesse già poste, talune anche dagli inizi degli anni '60 (come è ad esempio per la liberalizzazione degli investimenti diretti e di portafoglio in azioni quotate in borsa ed in obbligazioni), ma lo sforzo da compiere e gli impegni da assolvere sono ancora molti e particolarmente pressanti per quanto ci riguarda. Un'indagine qualificata svolta a questo proposito (è della Delphi, in collaborazione con l'Associazione Bancaria Italiana ed il Comitato Direttivo degli agenti di cambio della Borsa Valori di Milano) sottolinea che il futuro dei nostri mercati finanziari italiani non è roseo ed è pieno di incognite, legate ad un processo di internazionalizzazione difficile da riflettere nel nostro sistema, che è cresciuto nel quadro delle restrizioni valutarie e della dimensione macroscopica del deficit pubblico, con tutte le storture e le strozzature che esso ha determinato e continua purtroppo a determinare.
Il panorama che si delinea per quanto attiene all'attitudine del contesto nel quale si esplicherà l'attività bancaria, oltre ad essere condizionato da quanto avverrà in termini di indebitamento pubblico, avrà a che fare con:
- una crescita degli investimenti in titoli delle famiglie, soprattutto attraverso investitori istituzionali (assicurazioni vita e fondi pensione);
- la prosecuzione della flessione dei depositi bancari. A fronte delle attività finanziarie delle nostre famiglie, che nel 1988 sono ammontate a 1 milione 421.782 miliardi di lire, vi sono i depositi bancari, che all'inizio dell'anno erano poco più di 390 mila miliardi ed oggi si calcola che abbiano superato i 400 mila miliardi, con un ritmo di crescita che è condizionato dalla concorrenza dei titoli di Stato e, come detto prima, dalla pesantezza del trattamento fiscale;
- l'aumento dell'interesse per i mercati finanziari da parte delle imprese con una domanda di servizi e di occasioni di investimento molto più sofisticata e spesso maggiormente orientata verso l'estero;
- la necessità di una profonda riforma organizzativa e tecnologica della Borsa italiana, che indipendentemente dalla situazione nuova del '93 è già in larga misura inadeguata al ruolo dell'Italia nel novero delle Nazioni maggiormente industrializzate del mondo;
- un sostanziale miglioramento dei servizi di intermediazione: fra l'altro viene sottolineato dagli esperti che occorre riciclare al settore azionario strutture cresciute all'ombra del mercato monetario. Ne dovrà derivare, secondo queste sollecitazioni, un contesto mirato al nodo della compensazione a livello europeo, all'armonizzazione degli standard di base, ai trattamenti equilibrati in materia fiscale sugli investimenti mobiliari.
E qui certamente il discorso diviene più lungo. Si dice a livello governativo italiano - e l'occasione per tali espressioni è stata fornita dall'ultima assemblea annuale dell'Assonime - che se il trattamento fiscale del risparmio, cui l'Italia si dichiara impegnata, non trovasse la via di un'adeguata armonizzazione, ed in questo momento le difficoltà continuano ad essere notevoli, la libera circolazione dei capitali avrebbe difficile inizio e vita incerta. Al momento sono infatti da registrare il no della Gran Bretagna, pur nella nebulosa di accettazione di vaghe dichiarazioni di intenti e la scelta tedesca di abolire la ritenuta d'acconto sulle rendite finanziarie.


La complessità dell'armonizzazione deriva anche da altre motivazioni e fra l'altro non si manca di osservare da qualche parte che essa nel campo dei redditi da capitale deve evitare che si collochi a livelli troppo bassi, tali da trasformare la concezione del mercato unico europeo in uno strumento, in sede di sperequazione tributaria fra le diverse categorie di cittadini.
Comunque, la sfera che riguarda la diretta nostra iniziativa è sempre molto ampia e riguarda, oltre che indebitamento pubblico ed assetto tributario, oltre che il recupero del ritardo con il quale accogliamo le direttive comunitarie e spesso di esse ci avvaliamo, anche il ripensamento, come lo ha definito recentemente Guido Carli, del sistema delle leggi nelle quali si inquadra una società fondata sull'iniziativa dei cittadini, dovendosi superare il progressivo degrado in atto del processo di formazione delle norme e di funzionalità dei poteri a tutti i livelli.
In questo ambito si colloca il grosso problema della moneta: unione monetaria, moneta Cee, per le quali c'è chi pone l'acceleratore e chi il freno, ci sono le intenzioni e le incompatibilità, le condizioni da determinare ed osservare, le, eccezioni e le autoesclusioni che incalzano, e così via.
Accanto ai vertici, ai progetti, alle riserve, alle sollecitazioni, c'è da registrare il rapporto Delors, che prescrive per una prima fase da subito, una maggiore convergenza economica nella cornice delle istituzioni esistenti, con il supporto di un comitato dei governatori, dotato di poteri propositivi al Consiglio dei ministri. Qualcosa di simile era stata immaginato anche nel 1972, ma fu accantonata di fronte all'ondata di inflazione da greggio, allorché i nuovi Paesi Cee del tempo imboccarono strade divergenti.
Quanto alla seconda fase del progetto Delors (la data di inizio è prudenzialmente, ma forse anche scetticamente, in bianco), un sistema europeo di banche centrali dovrebbe assumere una concreta, rigorosa e valida fisionomia operativa, fra l'altro prevedendosi la creazione di un organismo di tecnici con il compito di armonizzare i comportamenti dei diversi Paesi.
I dati di fatto di cui bisogna prendere atto e che occorre rimuovere per l'unione monetaria sono conclusivamente per ora riassunti dal fatto che fino a quando la sterlina resterà fuori dallo SME una vera e propria moneta europea ed una banca centrale avranno un inizio difficile, anzi impossibile. Si aggiunga l'altro ostacolo da smuovere e che riguarda il fatto Che, anche chi oggi si dice favorevole, difficilmente sarebbe disposto a rinunciare alla propria autonomia. Comunque, per quanto ci riguarda, indipendentemente da questo finalismo dobbiamo rimuovere tutte le condizioni interne che lo contraddicono.

Un Mezzogiorno come cardine.

La centralità del Mezzogiorno in tutto questo panorama è, e sempre più dovrà essere, dominante. L'appello che le imprese italiane hanno lanciato in vista del mercato unico sottolinea come suo punto saliente:
- dalle istituzioni comunitarie si attendono politiche capaci di ridurre gli squilibri interni e di assicurare eguaglianza di condizioni e di opportunità fra i Paesi e le Regioni della Cee. Permangono, infatti, nella Comunità ampi dislivelli di condizioni di vita.
- il rischio che alcune aree restino escluse dai benefici derivanti dalla creazione del mercato unico va contrastato dalla Cee con un più intenso impegno finanziario collegato all'efficacia delle azioni comuni a carattere strutturale.
Il tutto deve essere impostato con un'ottica sostanzialmente innovatrice.
Il Rapporto Svimez '89 sulle prospettive dell'economia meridionale mette in evidenza che purtroppo la forbice fra Nord e Sud si fa più larga, che la disoccupazione ormai è andata oltre il livello di guardia, che gli investimenti registrano un calo.
La filosofia di questo Rapporto si basa su due princìpi: occorre sgomberare il campo dall'illusione del Nord di proseguire nello sviluppo ignorando i problemi del Mezzogiorno; occorre eliminare ogni improvvida ipotesi, che poi sarebbe rozza ignoranza ed ipocrisia infantile, di un Sud che possa sopravvivere non al centro, ma ai margini del mercato unico. Fondamentale, secondo lo Svimez, è il fatto che dopo dieci anni di ristrutturazione industriale, sei di ripresa economica e quattro di forte aumento della domanda esiste un potenziale di capacità produttiva industriale che ben potrebbe, e si deve, collocare nelle regioni del Mezzogiorno.
In Italia, il Paese con il quale si confrontano e si confronteranno gli altri, esistono oggi due Italie: una nella quale si è raggiunta la piena occupazione, l'altra in cui la disoccupazione supera largamente il 20% della forza lavoro, senza che ciò inneschi automaticamente - come è avvenuto in passato - processi massicci di emigrazione.
Ci sono gli abbozzi di nuove condizioni migliorative e per talune di esse si registrano anche i primi inizi. I riscontri riguardano lo sveltimento delle procedure agevolative, le nuove regole del mercato del lavoro nel Sud, ecc.
A contare in concreto non è solo la quantità, ma soprattutto la qualità dello sviluppo che, viene osservato, va realizzato in una nuova ottica, riguardante pure la legge n. 64/1986 (sfera di competenze anche delle amministrazioni locali). Nel Sud "appaiono assai più diffuse che al Nord situazioni di dissesto, minore la dotazione di risorse tecniche, maggiore l'instabilità degli esecutivi, più stringente l'assedio delle emergenze, più forti le pressioni per un uso delle risorse pubbliche, difforme dall'interesse generale". Si tratta, come si vede, di considerazioni che si traducono in una requisitoria.
Riguardo appunto a questa legge, gli operatori economici osservano che essa sicuramente è nata con princìpi sani secondo uno schema accettabile: l'intervento straordinario deve pensare innanzitutto all'innovazione tecnologica e ad una serie di grandi progetti interregionali. Del resto devono occuparsi le regioni.
E si aggiunge sempre da parte degli operatori economici che, dato per acquisito che questo impianto è giusto e che tuttavia la legge non sta funzionando, non si può ricominciare daccapo. Occorre invece utilizzare al meglio quanto esiste, perché se si dovesse pensare ad una nuova legge per il Sud si perderebbero altri anni preziosi arrivando poi a disposizioni più o meno simili a quelle attuali.
Oggi come oggi, in materia di incentivi, i problemi non riguardano l'idoneità dell'indirizzo della norma in atto, e cioè della 64, ma le norme di attuazione e di gestione. E' da osservare però che per quanto riguarda l'intervento sul territorio, la 64 viene chiamata in causa perché non si sarebbe fatta carico del vuoto di capacità tecnico-progettuale, sia a livello locale che a livello centrale, originato dalla caduta improvvisa di una struttura come quella della Cassa per il Mezzogiorno.
Che si deve fare? Bisogna rivitalizzare gli sforzi, ovviando e superando gli intralci normativi, di indirizzi, di applicazioni, che sono determinati da remore, istituzionali e burocratiche, indotte a loro volta anche dall'inefficienza delle istituzioni e dalla complicazione delle leggi, dal maggior peso che è stato dato agli incentivi al Nord rispetto a quelli del Mezzogiorno, dalle nuove tendenze della tecnologia, le quali vanno rilette anche in funzione del Sud, come d'altra parte anche l'IRI e qualche grande industria privata stanno facendo.
In questa logica il problema del Mezzogiorno va affrontato in una dimensione diversa e maggiore. Le stesse cifre parlano chiaro. Nel 1987, ad esempio, e per la prima volta, la disoccupazione del Sud ha superato il 50% del totale nazionale, mentre la quota di partecipazione del Meridione al totale italiano delle forze di lavoro è solo del 33%. Siamo inoltre di fronte ad un Mezzogiorno che rappresenta il 36% della popolazione del Paese, e secondo le previsioni della SVIMEZ questa percentuale nel 2007 raggiungerà il 40%.
Ma altre cifre ancora più incombenti da tenere presenti e da correggere riguardano il complesso della spesa pubblica in percentuale rispetto al PIL, alla popolazione, pro capite. Ebbene, ancora una volta i divari non solo si rivelano stridenti, ma offrono anche la spiegazione perché gli squilibri o i disequilibri siano tanto macroscopici.
Una popolazione, come quella meridionale, che rappresenta il 36,6% del totale si avvale di una spesa pubblica del 34,1%. Una popolazione del Centro Nord, che costituisce il 63,4% del totale, fruisce invece del 65,9% della spesa pubblica. Inoltre la spesa pubblica pro capite in migliaia di lire (avverte l'indagine SVIMEZ che la quota di spesa pubblica che è stato possibile ripartire territorialmente, dati i limiti delle fonti disponibili, è pari al 50% circa delle spese complessive delle Amministrazioni pubbliche) è stata nel 1988 di 3.821, 3 nel Mezzogiorno e di 4.269,6 nel Centro Nord, dovendosi attribuire rispettivamente allo Stato 1.344,6 e 1.742,6, alle Regioni e Provincie 796,5 e 481,9, ai Comuni 884,3 e 1.146,4, alle UU.SS.LL. 795,9 e 898,7.
Il mercato unico europeo dovrà pertanto servire anzitutto come motivo di urgente risveglio di questa problematica, di accelerazione dell'aggiustamento del quadro e dei congegni, di allocazione nel Mezzogiorno di energie vitali per la stessa migliore nostra partecipazione al mercato unico. E naturalmente, come si diceva all'inizio di queste specifiche notazioni, dovrà assicurarci non solo maggiori possibilità produttive e mercantili, partendo dall'espansione delle infrastrutture e dall'impianto di industrie ad alto contenuto tecnologico, che sono quelle che avranno maggiore avvenire, ma anche interventi comunitari più ampi e meglio mirati.
Nel Mezzogiorno molto e nuovo deve nascere. Esso rappresenta un terreno, per dirla con Carlo De Benedetti, più adatto all'innovazione, più capace dì assorbire le spinte esterne, più abbondante della chiave, nei prossimi decenni, dello sviluppo: il capitale umano.

Un percorso in salita

Abbiamo detto all'inizio di questa esposizione che il percorso da effettuare in vista del '93 è tutto in salita per quanto riguarda l'Italia. Ma la stessa cosa - pure in misura mediamente inferiore - si può ripetere per l'Europa tutta intera, a causa di una cultura comunitaria che manca, dì una strategia da mettere meglio a punto, della serie di attriti e delle remore che sopravvivono e resistono al di là delle stesse intenzioni.
Vi sono delle convinzioni che sono certamente fuori discussione e forse per taluni aspetti sono portate ad anticipare le cose e a scorgere come reale o immediato quello che ancora non c'è ed è pure problematicamente futuro. Vi sono, per contro, cose che sono più o meno a portata di mano e che riguardano, come si sa, la sfera economica.


Bisogna far convergere il più possibile il già reale o il prossimo da definire con le istanze che vengono maturando o che si pensa e si vuole maturare. Quando parliamo di Europa, dobbiamo certamente tenere conto - come fattori almeno di rallentamento, se non di digressione - della posizione statunitense, ora di partecipe diretta e diligente ora di osservazione e di attesa, talvolta con accenti più o meno isolazionistici; dell'attitudine assunta dalla Gran Bretagna, con la sua presenza tanto condizionata, restia ad accettare determinate svolte con una porta semichiusa ed una finestra sempre aperta per essere al corrente, se non sempre partecipe, di quanto si annuncia o si prepara più o meno concretamente (la signora Thatcher spesso "vede", dando la sensazione di entrare nel gioco, come spesso si rifugia nel rinvio); della neocentralità tedesca; della forte pressione sovietica.
Apriamo una parentesi su questo specifico aspetto. Esso ha evidentemente una natura nettamente politica, prima che economica. Risponde ad un disegno da nuovo corso della politica gorbacioviana, all'esibizione di posizioni di disponibilità, ma non nasconde i propri presupposti, che non si riassumono nell'accantonamento del socialismo nella concezione sovietica, ma si ispirano ad un sistema che sostanzialmente non accetta in definitiva il libero mercato.
Difatti, quando Gorbaciov denuncia i pericoli che si presentano alla sua perestrojka, ammonisce contro gli attentati che si compiono al pensiero socialista, come egli l'intende in un contesto che conosciamo e che in un certo senso cerca il nuovo, ma del vecchio che vuole rimuovere non fornisce un precisa disegno e tollera (anzi talvolta dichiara di promuovere) in gran parte dei propri aspetti la sopravvivenza.
Comunque, in questa specifica sfera, l'URSS tende ad un accordo di 10 anni, avendo alla base un mandato negoziale che prevede che anche il settore nucleare (quindi l'Euratom, la Comunità Europea per l'uso pacifico dell'energia nucleare) sia incluso nell'accordo, con riferimento particolare alle attività di ricerca e di conseguimento della sicurezza delle centrali. Altri fondamenti dell'accordo dovranno riguardare la cooperazione nel campo dei trasporti, della produzione di energia in genere, della protezione dell'ambiente, della collaborazione tecnologica (e questa come si sa è oggi frenata dalle regole del COMECOM), dello sviluppo delle joint venture, dell'espansione delle relazioni commerciali e così via. Un punto di partenza di tutto ciò è nelle relazioni già in atto fra la Cee ed alcuni Paesi del COMECON, come l'Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Bulgaria, ecc., essendo in atto contatti pure con la Romania e la Germania Orientale, non ancora sfociati in accordi.
La realtà è che oggi nell'Est europeo sono in atto o in prospettiva tante posizioni particolari e differenziate (si pensi in particolare a Polonia ed Ungheria), che non sono se non in parte riconducibili, non diciamo ad unità di accordi, ma neppure ad univocità di punti dì partenza e di possibili concretizzazioni di sbocchi e di riscontri pienamente armonizzati o armonizzabili. E questo è il lungo lavoro da svolgere in parallelo con quelle che saranno le reali esperienze e progressioni che saranno compiute nei Paesi dell'Est, anche nei loro traguardi che, va rilevato, sono diversi e differentemente graduabili nel tempo e nelle caratteristiche.
Ricordiamo perciò che le prospettive nell'Europa sono ancora diverse, fra quella dei Dodici e l'altra parte del Continente, e che nella stessa Europa comunitaria l'identità economica, la stessa sua progressione verso l'unità politica e così via non saranno per lungo tempo dietro l'angolo, perché le singole unità componenti hanno più o meno tutte una loro forza vitale, portata a ricercare e praticare più che altro la convenienza, non prevedendo forse mai la propria identificazione totale in un nucleo che escluda e bandisca gli altri.
Ha scritto acutamente qualcuno che ci aspettiamo da questa Europa il miracolo di venire assolti da tutti gli sforzi che dovremo compiere nel nostro quadro nazionale e che l'Europa ci appare come un fatto compiuto, come se le regole cambiassero una volta cambiato il posto dove si svolge il gioco.
Il particolare sfondo italiano, con il forte gap che ci differenzia da gran parte dei Paesi Cee e comunque dai livelli medi complessivi, oltre ad essere oggetto di programmi, impegni, iniziative di Governo, di categorie produttrici, di sindacati, ecc., ha fra l'altro suggerito una qualificata indagine dovuta al BIPE di Parigi, all'IFO di Monaco ed alla PROMETEIA di Bologna.
Questa indagine, nel tracciare il contesto unitario che caratterizzerà la Cee 1993, fornisce specifiche indicazioni che riguardano pure il nostro Paese.


I grossi nodi che dovremo sciogliere riguardano principalmente:
- lo squilibrio della finanza pubblica. E' stato calcolato che, se non si interverrà drasticamente in questa materia, nei prossimi 5 anni il debito dello Stato aumenterà dell'80%, il peso della spesa per interessi diventerà insopportabile, la vita media dei titoli pubblici scenderò sotto i due anni e le emissioni lorde mensili del Tesoro potranno raggiungere i 60 mila miliardi;
- l'inefficienza dei servizi pubblici, che si riflette negativamente anche sulla capacità competitiva del nostro sistema. Se ne vedono le conseguenze anche nel campo delle esportazioni, con una nostra concorrenzialità che è meno vigorosa del necessario, soprattutto nei riguardi di mercati come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia.
- la pesantezza del nostro costo del lavoro. Le previsioni che si fanno per il 1989 è che l'incremento possa raggiungere il 10% contro una crescita durante l'anno scorso dell'8,5%. E ciò senza contare che l'anno scorso il costo del lavoro per unità di prodotto è salito in vari settori importanti del 3,5% rispetto al 1987. Negli altri Paesi l'aumento è decisamente inferiore. C'è da aggiungere che la forbice fra costo del lavoro e retribuzioni si sta ulteriormente allargando. Ad esempio, la struttura percentuale dell'onere totale per le aziende metalmeccaniche in retribuzione lorda, in contributi sociali ed in altri gravami, vede l'Italia rispettivamente al 66,6%, al 28,1% ed al 5,3% contro l'85,9%, il 12,5% e l'1,6 della Gran Bretagna, l'82,7%, il 16%, l'1,3% della Germania Federale, il 74%, il 24,3% e l'1,7% della Francia.
- la cronicità della nostra disoccupazione, con le gravi puntualizzazioni concernenti il Mezzogiorno ed i giovani.
- il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, con uno squilibrio quanto mai pesante anche sotto il profilo sociale rispetto al Centro-Nord. Non si tratta solo di una grossa sommatoria di importanti Regioni che vengono tenute fuori dal ritmo indispensabile di crescita, ma di una grandissima fetta del Paese tutto.
- la lentezza del nostro progresso tecnologico in settori industriali chiave ed in quello dei servizi.
E l'elencazione potrebbe continuare ancora.
Per il periodo 1987-1992 le previsioni che sono state formulate per quanto attiene ai nostri livelli rispetto a quelli medi calcolati per la Cee pongono in evidenza che la variazione percentuale media annua sardi rispettivamente per il nostro Paese ed il complesso degli altri partners comunitari per i consumi privati del 2,9% e del 2,6%; per quelli pubblici del 2,3% e del 2,0%; per gli investimenti fissi lordi del 3,2% e del 3,7%, per le esportazioni dell'1,7% e del 2,0%; per le importazioni del 5,3% e del 5,1%; per l'inflazione del 5,0% e del 3,5%; per il prodotto interno lordo 2,7% e 2,6%.
Questi rapporti mettono in luce alcuni dei gap di cui abbiamo parlato prima, e prospettano cifre che in talune materie sono ottimistiche per quanto ci riguarda e non trovano ancora punti di riferimento idonei a sostenerle. Così ad esempio per quanto riguarda il tasso inflazionistico, attualmente attestato sul livello tendenziale annuo del 7%, anche se per esso si prevede per la fine d'anno un'attenuazione.
I nostri segni di debolezza hanno, dunque, una grande estensione e coinvolgono alcune molle ed alcuni settori determinanti dal punto di vista strategico.
Aree deboli e settori deboli: questo il quadro da affrontare. Gli studi effettuati al riguardo hanno posto in luce che fra i settori deboli (dove le nostre importazioni dal resto della Cee eccedono le esportazioni) sono quelli ad alto contenuto tecnologico e a forte crescita della domanda (telecomunicazioni, informatica, macchine da ufficio), quelli legati ai mercati pubblici (materiale ferroviario) ed ai mercati regolamentati, quelli ad elevato contenuto occupazionale, come l'automobile e la chimica di base.
Il risvolto positivo - che pure c'è - di tutto questo lungo discorso è che bisogna porre mano senza indugi all'adeguamento del sistema pubblico, all'eliminazione dei disequilibri regionali, al potenziamento della struttura produttiva, a comportamenti di politica economica coerenti, alla reale esplicazione di una nostra capacità di recepimento di direttrici ed interventi Cee. Le cosiddette "schede" programmatiche dei programmi governativi, fino all'ultimo del Governo attualmente in carica, ne parlano, ma è solo dal lato dei fatti che vanno valutate le intenzioni.


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