§ Dubbi e domande per un decennio

A sud di Cochabamba




Nello Wrona



A fine decennio, le cifre sono tutte in rosso. Consumati dalle fiamme dei debiti i cespugli del Censis, scorticata dalla dispersione dei capitali la pelle di leopardo, con una linea adriatica dello sviluppo che non ha ridisegnato la mappa dell'economia a sud dell'Ofanto, il Salento e buona parte della Puglia si presentano in Europa con carte di credito ampiamente scadute.
Una, per tutte, impietosamente ribadita di recente dalla Commissione Cee per l'attuazione dei Programmi integrati mediterranei: il tasso di disoccupazione è a quota 30% nelle Serre salentine, dove un terzo della popolazione è dedito ancora all'agricoltura di sussistenza e dove parole come commercializzazione e terziarizzazione sono sterili esercizi di letteratura economica. Neppure il confronto con le altre aree Pim regionali è di sollievo: 26% di disoccupati nell'arco ionico (superiore alla media della regione), 24% nella Murgia sud-orientale e nelle Colline brindisine. Gli investimenti, anche in ECU, non possono che seguire percorsi obbligati e corsie preferenziali: infrastrutture, forestazione, sistemazione idraulica, promozione e sperimentazione di nuove colture. Con il 1989 si chiude, a ventaglio, il sogno dell'industrializzazione: illusioni, in buen retiro.
Sono stati sufficienti meno di dieci anni per ributtare il Salento al punto di partenza, pietrificandolo in una statua di sale. A chi giova?

La terra negata
Le speranze, ubriache di promesse nei mitici anni Settanta, sì erano rivelate un fallimento già a metà di quest'ultimo decennio. Scriveva nel 1985 Giuseppe De Rita: "Il Salento è una terra senza identità, e proprio a questa circostanza si collegano l'impraticabilità e l'inadattabilità dei piani economici. E' un po' agricoltura, un po' industria, un po' turismo; ma non è in grado di esprimere un'autentica vocazione per uno di questi settori. In altre parole, non si sa bene dove (e su cosa) investire".
L'unico investimento vincente, fino ad allora, in realtà erano state l'emigrazione e la fuga di cervelli oltre frontiera. Da una parte, tonnellate dì braccia, sbarcate nei porti di mezza Europa; dall'altra una estensione di fredda intelligenza catturata dalle università e dai centri di ricerca più avanzati del mondo. Nei bottiglioni di vino nero si continuava ad affogare il distacco, ma non le rimesse dall'estero, puntualmente reinvestite e riutilizzate in Italia. Prima casa, seconda casa, e poi ancora i doppioni estivi dei paesi in riva al mare, con le coste più belle d'Italia trasformate in villaggi moreschi, stile tukul di Palinuro.
Su queste rimesse, o soprattutto su di esse, si è sviluppata l'intera economia della provincia fino a tutti gli anni Settanta, con un occhio distratto all'agricoltura (quando la parola d'ordine - anche sindacale - era la fabbrica) e con l'altro più attento, ma anche più cinico, alla telematica e ai microprocessori (quando il ritorno di fiamma - anche delle cooperative - era la campagna). Con il risultato di avere economie povere sovrapposte e contrapposte, comunque non interdipendenti. E impermeabili a ogni tipo di iniziativa che non si risolva necessariamente in un mega-progetto. Gli ultimi, in ordine di tempo: la statale Bradanica che collega Lecce e Taranto alla Calabria; la statale Maglie-Ugento-San Giovanni; la strada regionale n. 8 San Cataldo-Otranto; la tangenziale Est di Lecce; la panoramica circumsalentina. Tradotto in cifre, più del 40% del totale degli investimenti nel solo settore dell'edilizia. Comparto - dicono le statistiche - ancora ampiamente sottostimato in quanto a potenzialità e applicazione. Una marea di cemento (armato) ci sommergerà?

L'esclusione frammentata
Vengono dai campi, ma soprattutto dalle ciminiere spente. Poi, dai banchi delle scuole e degli atenei, a rimpolpare l'esercito di una disoccupazione che si allarga a macchia d'olio e che non conosce, o misconosce, l'arte della sopravvivenza. Non hanno passato e neppure un futuro.
Parigi, Madrid, Barcellona. Monaco, Atene, Algeri, e gli stessi sultanati medio-orientali masticano gergo salentino. Sono piccoli imprenditori, autisti, carpentieri, artisti, poeti e bucanieri. Storia vecchissima, storia che si ripete. Come le fughe, da una geografia che respinge e che continua a vomitare pietrame dalla terra e ora petrolio dal mare. Dove non arriva l'inquinamento, provvedono le bombe e la nitroglicerina, mentre i quattro quinti dei depuratori sono da rottamare. Sarebbe interessante una mostra fotografica del Salento visto dall'alto. Ma, dopo, il depliant turistico potrebbe funzionare?

Le nuove periferie
Non hanno più un centro di riferimento. Crescono, si duplicano, e poi esplodono, qualche volta con violenza. Squinzano, Campi Salentina, Lecce, Galatina, Nardò, Maglie, Tricase... prima una cascata di case, e poi le scritte sui muri. Sempre più dure, sempre più intolleranti. Se una volta si ringraziava il Liverpool per la strage dello stadio, oggi si invitano i nemici a un rendez-vous di spranghe e di catene. Nel civilissimo Salento, un cancro che divora. Hanno costruito nuove splendide Piazze, senza rivoluzioni, ma con la toponomastica aggiornata. Il trucco, come le parrucche del Settecento, serve solo a nascondere i pidocchi. L'ultima chiesa basiliana è stata rasa al suolo un mese fa. Sotto quale pietra nasconderemo i sogni?

Salento boliviano
C'è poco da recriminare, questa volta la stampa non ha esagerato, le statistiche lo confermano. Nel Salento si viaggia ormai alla media di un morto ogni due giorni; di un attentato dinamitardo andato a segno, ogni tre; di un tentato omicidio, ogni quattro. Nel 1984 le morti violente furono appena venticinque, a fine '89 saranno più di ottanta, mentre gli omicidi tentati, che due anni fa erano stati diciotto, saranno alla fine quasi centodieci. Ancora: tre rapine al giorno (da 880 dell'anno scorso a più di 1.000 in quest'anno), una marea inarrestabile di estorsioni e di avvertimenti mafiosi, mentre la macchina dei tribunali ha ormai sfondato il tetto delle 72.000 pendenze giudiziarie. "La mafia - si legge in un rapporto - è praticamente infiltrata in ogni comune del Salento". Qui si è ucciso e si è gambizzato, in proporzione, più che nel resto d'Italia.
La Commissione antimafia si è divisa sul fenomeno ed ha balbettato solo risposte rassicuranti, togliendo dall'impaccio un buon numero di amministratori locali. Ma i segni di una ricchezza nera sono un po' ovunque. Nel proliferare delle finanziarie, delle agenzie di intermediazione, delle pelliccerie e delle gioiellerie, dei ristoranti e dei bar, delle imprese di costruzioni, delle concessionarie. Circolano più Mercedes a Lecce di quante non se ne vedano a Medellin o a Cochabamba, appunto.
Dietro questo fiume di denaro, e di coca, rimane il futuro spoglio della decadenza. A rapidi passi, il Salento si avvicina ad essere una società qualunque, planetariamente incolore. L'omologazione, con il Nord, è già avvenuta sulla base di un'identica economia di rapina e di una stessa criminalità organizzata. La Turchia rifornisce Verona come Galatina; la Spagna, Firenze e Lecce; la Germania, Torino e Trepuzzi. Le latitudini sono saltate, o sono state superate, con ferocia. E con la stessa rabbia salutiamo l'anno nuovo. Sempre più ricchi, sempre più scintillanti, ma vuoti come l'armatura di Agilulfo. Dietro la celata, un deserto di quasi trecento nuovi tossicodipendenti ogni tre mesi: tre al giorno, uno ogni otto ore. Quanti morti, al minuto?


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