A
proposito di RAZZISMO e di MEZZOGIORNO, lettera aperta a Sudpuglia.
Segue la risposta del direttore, Aldo Bello
Vibo Valentia, 20 ottobre '89
Carissimo Direttore,
ho letto con molto interesse la risposta alla lettera di Mirella Alloisio
(Sudpuglia, 3/89, N.d.R.). Condivido la più gran parte dell'analisi
che tu fai. Ma è un'analisi, secondo me, prevalentemente storica.
Non è che manchi, ma è condotta per linee generali,
quella politica, che poi è lo zoccolo duro che meglio fotografa
il Mezzogiorno degli ultimi quarant'anni: quello -per intenderci -
dell'intervento straordinario. Il quale ha condizionato, nel bene
e nel male, ma forse più in questo che in quello, vita, cultura,
comportamenti antropologici della gente del Sud.
Ai più, oltre tutto, è difficile capire come una massa
ingente di capitali riversati nelle regioni meridionali, valutabile
in almeno 100 mila miliardi di lire fino ad oggi, non sia riuscita
a "risarcire" torti storici ed economici perpetrati -è
ormai un dato acquisito dalla coscienza collettiva- ai danni dell'Italia
meridionale dai giorni dell'Unità. Questa massa di trasferimenti
che fine ha fatto? Tutti interventi a pioggia? Tutte bonifiche del
territorio? Tutti incentivi per lo sviluppo? Se guardiamo al panorama
odierno, c'è da aver paura. Il problema dell'agricoltura meridionale
è stato risolto nella maniera drammaticamente più sbrigativa:
abolendo l'agricoltura. Ora ci sono i problemi dei giovani e delle
donne: aboliremo i giovani e le donne? E lo sviluppo industriale:
continueremo a batterci per impianti che, se non lo sono già,
Fra poco diventeranno obsoleti?
Si tocca con mano, poi, l'abbandono politico e intellettuale dei grandi
temi della non superata, ma "abolita" questione meridionale,
[come ai tempi del Ventennio: si veda la voce Mezzogiorno (Questione
del), nel volume 23 dell'Enciclopedia Italiana]. Hanno abiurato anche
gli intellettuali e, primi fra tutti, quelli di origine meridionale:
Castellaneta insegni. Rocco e i suoi fratelli si sono integrati -
era fatale -, ma la malinconia che suscita la loro foto-ricordo non
è dovuta a memorie non sopite o a nostalgie affioranti, bensì
alla considerazione che sono proprio costoro i più accaniti
critici dei meridionali, di tutti i meridionali, che in quarant'anni
di post-guerra, di ricostruzione, di intervento straordinario, non
hanno saputo risolvere i loro secolari problemi.
Così, sembra essersi spezzato uno dei fili più consistenti,
una volta, e più robusti, perché fondati sui vincoli
di sangue e di latitudine. L'acqua, passata sotto i ponti della storia,
li ha usurati, sfilacciati, recisi. Fatale anche questo, certamente.
Ma proprio questo fa crescere il senso di solitudine, di smarrimento,
di emarginazione della gente del Sud. E al Sud cresce, intanto, una
generazione di plastica, senza pensiero, o con poco pensiero, senza
ideali che non siano quelli del consumo. dell'arricchimento veloce,
dell'individualismo esasperato. La società - che fu meridionale,
poi regionale e locale - si sta frantumando in una nebulosa di monadi
solitarie in lotta per un proprio ed esclusivo spazio vitale. Come
una melograna, questa Sud ci è crepato fra le mani. Non è
esattamente quel che la nostra generazione aveva sognato; né
per questo ci eravamo battuti.
Ora mi vengono in mente alcune parole di Tommaso Fiore: "La Puglia
è un'espressione archeologica. La nostra vita fu". Basta
sostituire Puglia con Sud: i conti tornano. E torna, o ritorna in
termini mutati, come un tragico ricorso storico, il paesaggio fisico,
civile, intellettuale di sempre: quello di una terra "non letteraria,
non retorica, del tutto ignorata, desolata, tetra, respingente, disperata,
da tutti per calcolo e per viltà ignorata". Scriveva a
Gobetti, Tommaso Fiore, quando descriveva questo paesaggio che "nella
sua sconfinatezza, nella sua assenza di linee forti, suggestiona ed
invita l'occhio a frugare con uno struggimento di morte".
Pessimismo eccessivo? Non direi: basta guardarsi in giro. Il Sud è
diventato un deserto nel quale poche coscienze, ancora, ostinatamente
gridano. Fino a quando? E poi: per chi? L'indifferenza, la più
insolente, persino, ci assedio. Ci sarà scampo? Mai, come adesso,
abbiamo avuto bisogno di auguri per il Futuro. Se ci lasciano un Futuro.
Affettuosamente,
Presentato a Milano (ma il prossimo anno dovrebbe essere presentato
a Torino, per allargare il "segno della sfida", cioè
la conoscenza dei problemi del Sud, per una presa di coscienza politica
ed economica), il Rapporto Svimez elencava un gran numero di esempi
di crisi, di stagnazione o di caduta a vite di interi settori produttivi
e di economie locali, nello stesso tempo lanciando un allarme e imponendosi
una reticenza. Il panorama era così buio da sgomentare. Ma,
per la prima volta, il Rapporto arrivava a sfiorare uno dei tabù
più consolidati del meridionalismo ufficiale: il potente ostacolo
allo sviluppo del Sud costituito dalla preponderanza "dei ceti
direttamente o indirettamente interessati a una spesa pubblica, la
funzione distributiva della quale ha prevalso su quella di propulsione
dello sviluppo". Questo, l'allarme.
E da questo punto, forse non casualmente, la reticenza. Allora è
proprio da qui che occorre partire, per capire come mai, a centotrent'anni
dall'Unità, a quaranta dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno,
dopo trasferimenti per 100 mila miliardi di lire, il Sud ha tirato
somme di mancato sviluppo. Il Sud è un buon terzo del Paese.
Con le isole, è quasi metà del territorio nazionale.
Allora: che cosa significava "ceti interessati alla spesa pubblica"?
E perché si sono opposti alla crescita produttiva delle aree
meridionali?
Eccolo. il discorso politico. Perché si può rispondere
a queste domande solo considerando la peculiare posizione dei partiti
politici e degli apparati pubblici nel Sud. E' stato rilevato che
a differenza che in altri contesti più pluralistici e diversificati,
in cui i partiti possono essere descritti in termini di strumenti
della rappresentanza e del potere politico in contrapposizione a poteri
ed istituzioni proprie della società civile, nel Sud degli
anni '70 e '80 essi hanno teso a coincidere con quest'ultima.
I partiti politici, nel Mezzogiorno d'oggi, sono anche veri e propri
gruppi sociali, "luoghi strategici" di comunicazione e di
scambio; allo stesso tempo, gruppi di potere, di pressione e di socializzazione.
E' stato anche chiarito che non si tratta di "invasione"
della società civile da parte del potere politico, quanto di
identificazione: la preminenza delle macchine politiche rispetto alle
classi, agli ordini e ai ceti professionali, ai sindacati, ai gruppi
volontari, è indiscussa. Gli esponenti delle burocrazie politiche
del Sud sanno di far parte di un ceto privilegiato, dominante, e di
costituire un cospicuo "pezzo" di società cui tutti
devono fare riferimento.
Questo accade anche nelle società del "socialismo reale".
In che cosa. allora, si differenzia il Sud da una "dimensione
sovietica"? Nel fatto che questa dimensione coesiste con una
condizione di anarchia politico-economica e di guerra di tutti contro
tutti. E' la guerra che caratterizza la vita pubblica, la situazione
urbana, i comportamenti antropologici di intere regioni. Risultato:
il legame (forse ormai) indissolubile che il ceto politico-amministrativo
ha stabilito con un vasto settore di capitalismo primitivo interessato
alle commesse pubbliche ha fatto sì che "l'immobilismo
amministrativo di numerosi governi locali meridionali sia spesso l'altro
aspetto della privatizzazione fraudolenta di uffici e beni collettivi".
E' quanto dice Pino Arlacchi. Ed è quanto condividiamo senza
riserve.
Una società così eccentrica per l'Occidente avanzato,
nella quale è consentito tutto e il contrario di tutto, è
largamente cresciuta sotto l'ombrello dell'imponente trasferimento
di risorse dallo Stato centrale alla periferia, messo in moto dopo
la fine del secondo conflitto mondiale: i 100 mila miliardi, appunto;
il "risarcimento", pur se tardivo e dunque meno risolutore;
la risposta dello Stato alla lotta di classe dei giorni in cui la
terra tremava; il bilanciamento per la fuga delle braccia dal Sud,
che consentirono il "miracolo" industriale del Nord; e via
dicendo.
Come mai, allora, il Sud è rimasto sospeso tra Vandea e Sturm
und Drang, tra slanci imprenditoriali e sottosviluppo, tra nuova frontiera
e vecchio fossato? Perché il flusso delle risorse è
stato in grandissima parte intercettato e controllato da un ceto di
mediatori che non aveva avuto niente a che fare, e che non intendeva
avere niente a che fare, con l'emigrazione e con la lotta di classe.
Portatori di un'antica etica predatoria, i boss politici meridionali
hanno costruito e continuano a costruire le loro fortune politiche
(senza peraltro trascurare i patrimoni personali) sulla base del divario
tra due prezzi: quelli in base ai quali le opere pubbliche vengono
progettate e finanziate con trasferimenti nazionali ed europei; e
quelli in base ai quali vengono realmente realizzati. In questo modo,
la classe politica meridionale (con le debite eccezioni, tuttavia
non numerose) ha garantito una duplice filibustering: quella degli
appalti e dei subappalti, quella delle revisioni e degli aggiornamenti
dei prezzi. Attraverso questi meccanismi sono passati i grandi affari,
cioè le grandi rapine a danno del Sud.
La riflessione che impone l'esperienza storica è desolante:
la costruzione di una società a propria immagine e somiglianza
da parte della nomenklatura meridionale è proseguita senza
grandi contrasti, senza sconvolgenti conflitti. la grande industria
pubblica e privata ha lasciato fare. le opposizioni politiche, quando
non siano state coinvolte, sono state isolate e neutralizzate. Questa
è stata la grande tragedia politica del Sud.
Un pericolo poteva profilarsi: da molti anni, la Svimez lo definisce
una "vigorosa azione pubblica per lo sviluppo", sottratta
all'influenza delle macchine politiche locali. Ed era determinato
dall'apparire sulla scena di ceti sociali autonomi, di centri di aggregazione
indipendenti, capaci di creare una dimensione policentrica del potere
locale, su cui costituire alleanze e far leva per programmi e per
investimenti di più lungo respiro e di generale, concreta fruizione.
La minaccia è stata elusa. I boss delle macchine politiche
hanno mantenuto il controllo delle posizioni-chiave dell'economia
e delle istituzioni, impedendo o, meglio ancora, deviando ogni tentativo
di diversificazione socio-economica. Risultato: il saldo monopolio
di tre mercati cruciali -quelli del credito, dell'edilizia pubblica
e privata, del lavoro esercitato spesso in società con formazioni
criminose o col sistema delle pratiche illecite, ha consentito loro
di perpetuare il proprio dominio. Il consenso dei cittadini è
stato semplicemente ignorato. Gli indecisi sono stati comprati. I
più riottosi, coinvolti e foraggiati, o resi inoffensivi.
Macchine politiche o criminalità collegate sono attualmente
il maggiore ostacolo alla crescita del Sud. Tutto questo è
scritto nei fatti, nella vita quotidiana del Mezzogiorno: e in nessun
Rapporto, a memoria d'uomo. E tutto questo dobbiamo dircelo, con fredda
determinazione. Se vogliamo smetterla di ingannarci.
L'area della corruzione è vastissima, ma solo due sono le situazioni
in cui si osservano abitualmente rapporti di corruzione: nella prima
(quando il soggetto politico agisce per conquistare o per conservare
il potere) si è corruttori; nella seconda (quando, una volta
acquistato il potere, lo si utilizza per trarne vantaggi personali)
si è corrotti. Le due situazioni sono connesse, ma la distinzione
è rilevante, perché i due casi sono moralmente, e anche
giuridicamente, di diversa gravità. Dal fenomeno è escluso
il clientelismo, che è arte del demagogo, dell'imbonitore,
irritante, deplorevole, ma svolta in pubblico: offende il costume,
non il diritto. Al contrario, l'abuso del potere per ottenere vantaggi
personali, il cui esempio più comune è la "tangente",
non si può esercitare che in segreto e, una volta scoperto,
cade (dovrebbe cadere) sotto i rigori della legge.
Tutti gli studi sulla corruzione politica tendono a mettere in rilievo
la vastità del fenomeno anche negli Stati democratici, insieme
con la difficoltà di eliminarlo. Vi è una specie di
scuola di rassegnati i quali, ispirandosi alle teorie funzionalistiche
si sono convinti di attribuirgli una eccentrica utilità sociale,
una "funzione", appunto, che metaforicamente sarebbe quella
di ungere le ruote di una macchina che altrimenti stenterebbe a mettersi
in moto. Ma la constatazione che esso, nella sua forma propria, non
possa svolgersi che sottobanco, rivela la sua totale estraneità
all'etica della democrazia, vale a dire a quella forma di governo
della cosa pubblica che richiede la pubblicità di tutti gli
atti, la controllabilità di chi esercita il potere in nome
di tutti e la fine della politica degli arcana imperii propria degli
Stati autoritari di un tempo o di quelli ancora superstiti.
In uno Stato democratico, la pubblica moralità non è
solo un obbligo morale o giuridico, ma anche politico, cioè
l'obbligo per eccellenza, imposto dal principio stesso che regola
la vita del governo democratico e che lo distingue da tutte le altre
forme di governo finora esistite. La "questione morale",
dunque, forse più di qualunque altra "emergenza",
per essere efficacemente affrontata, esige una strategia fatta di
scelte precise e puntualmente controllabili, circoscritte ma immediatamente
operative, pragmatiche ma perfettamente riconoscibili. E questo discorso
non riguarda solo la criminalità organizzata; investe anche
una seria e severa regolamentazione dell'attività delle lobbies.
il corposo sistema di rapporti tra i loro interessi forti (fortissimi)
e la rappresentanza politica, le resistenze che oppongono ad ogni
tentativo di "ecologia istituzionale".
Ad un certo punto, negli anni '80 in particolare, c'è stato
un collasso ideale dell'intelligenza riformatrice meridionale, con
una profonda crisi della cultura meridionalistica. Questo aspetto
"intellettuale" ha oggi un suo peculiare primato, se guardiamo
alle sorti del Sud. Sotto la pressione di imponenti cambiamenti, ha
ceduto e si è esaurita una grande tradizione di pensiero. I
Fortunato, gli Sturzo, i Gramsci, gli Amendola, i De Viti De Marco,
i Salvemini, i La Malfa, i Compagna, i Rossi Doria, i Saraceno, non
sembra abbiano lasciato discepoli; e proprio nel momento in cui la
forbice Nord-Sud si è allargata in modo drammatico, non si
avverte la crescita di una generazione nuova di giovani meridionalisti
né nella tradizione comunista gramsciana, né in quella
cattolica sturziana, né in quella laico-salveminiana.
Debolezza rispetto alla durezza delle sfide, violenza, speculazione,
mafie, devastazioni urbane, assistenzialismo corruttore e distorto
del vecchio meridionalismo e della vecchia sinistra meridionale: tutto
vero. Ma le condizioni entro le quali può nascere un "nuovo
meridionalismo", all'altezza dei tempi, non sono né semplici
né a portata di mano.
Certamente, la crisi della cultura meridionalista non è solo
legata a un ricambio generazionale che non c'è stato o che
ancora non si vede tra i giovani intellettuali, che pure sperimentano
sulla propria pelle, dal Garigliano in giù, la gravità
di una disoccupazione che non è solo statistica e che incombe
come un destino da tragedia greca al quale è quasi impossibile
contrapporre speranze fondate, sia pure coniugate al futuro. C'è
una questione politico-economica non risolvibile più né
in termini volontaristici, né in termini centraI-assistenziaIi,
legata agli smarrimenti della cultura keynesiana e riformista in ambasce
di pensiero in tutto l'Occidente e che riesce solo a fornire qualche
spiraglio, qua e là, nella incertezza delle ricette progettuali
organiche non più possibili, in un dibattito che sembra avvicinare
"al centro" i neo-liberali già delusi e i reduci
del secolo, i socialdemocratici orfani. C'è chi auspica condizioni
almeno basilari per un itinerario possibile al New Deal meridionale.
C'è però un terreno meno specifico, eppure non meno
decisivo: l'urgenza drammatica di una rivoluzione dei comportamenti,
di una scelta per la rinascita di una cultura almeno delle regole,
(in attesa di una ripresa non retorica, non rituale, di forti e non
emotive vene di meridionalismo colto e razionale), come terreno minimo
di drenaggio al degrado civile, ambientale, di convivenza e di vivibilità.
Dove sono gli intellettuali? I più seri, i più rigorosi,
nonostante tensioni interiori e tormenti, sono tentati di abbandonare,
di gettare la spugna nel "rifugio altrove". E non solo loro.
Quanti, nelle situazioni più degradate del Sud, non vogliono
credere alla malinconia di una "tranquilla" disperazione
adattata all'esistente, non desiderano altro che fuggire, prima o
poi, e hanno alzato, magari inconsapevolmente, bandiera bianca. Ecco:
essi vivranno la certezza delle istituzioni, dei servizi, il minimo
garantito di riconoscimento comune delle regole e di una cultura delle
regole e della loro riformabilità fuori, oltre confine, lasciando
il Sud, magari anche solo in sogno.
L'oggi è la passiva rassegnazione alla cultura dello scambio,
alla trasgressione, all'incertezza istituzionale, al non rispetto
abitudinario delle regole, dalle piccole cose dell'universo quotidiano
(il traffico, lo spinello, il micro-contrabbando, le immondizie, la
rottura del rapporto di solidarietà col vicinato) alle grandi
(speculazioni, violenze, mafie, degrado ambientale, razzismo, disoccupazione).
E' la sopravvivenza, individualmente onesta, amareggiata, che cerca
consolazione in ciò che resta di vivibile: l'effervescenza
culturale, gli scampoli d'ambiente, la solidarietà umana legata
non allo scambio dei favori ma alla gratuità, la tradizione
di alcune istituzioni culturali e di alcune università.
Altri, invece, coltivano la sindrome di Bombay, teorizzando l'avanguardia
di alcune situazioni e condizioni meridionali sul degrado inevitabile
della città e della qualità della vita nell'età
post-moderna. Affascinante tentazione intellettuale post-politica,
non solo post-ideologica. Certo, c'è Liverpool e c'è
il Bronx. Sarà retro, ma è una tentazione che non ci
lusinga. L'Europa, in realtà, è lontana e si allontana.
Semmai si può distinguere il Sud nel Sud. luoghi della decadenza
quasi inarrestabile e realtà imprenditoriali, politiche, culturali
emergenti, vecchie e nuove capitali, energie alternative ed energie
spente nella rassegnazione.
Ma se la democrazia non può convivere con una disoccupazione
giovanile che mette in ginocchio un'intera generazione; né
si può conservare il senso delle istituzioni e dello Stato
quando l'illegalismo determina ormai in modo stabile, in interi settori
della vita sociale, il lavoro, la ricchezza, le gerarchie dei valori,
gli stili di vita, i chierici almeno, gli intellettuali, dovrebbero
fare obiezione di coscienza: riscoprire il pessimismo, sì,
ma gobettiano, cioè l'intransigenza, lo sforzo di una rivoluzione
dei comportamenti che si ponga come pietra d'inciampo, senza moralismi
e volontarismi, ma semplicemente come testimonianza dagli effetti
dirompenti di una cultura delle regole, vistosa obiezione di coscienza
pubblica al rischio di una vera e propria crisi etica di massa. Dalle
piccole manifestazioni della quotidianità ai grandi appuntamenti
istituzionali. Ma è proprio questo che spaventa più
d'uno: se la tradizione laica, gramsciana, sturziana, incontrerà
Gobetti, innesterà elementi di obiezione di coscienza nella
coscienza collettiva, stravolgendo le terrificanti regole del gioco
attuale. Persino la disoccupazione giovanile è legata a questo.
Ce lo insegna una delle più belle parole dell'organizzazione
sociale, deposito di grandi battaglie del movimento operaio e del
movimento cattolico, che in non poche aree del Sud è stata
insozzata fino al letame: cooperazione.
Le conclusioni, allora, tornano tutte politiche, prepotentemente politiche.
Ed entrano in campo le grandi questioni degli investimenti infrastrutturali,
della pianificazione del territorio, dell'industrializzazione moderna,
dell'abbattimento delle tentazioni di scorciatoie reazionarie, e dell'innovazione
tecnologica, dello sviluppo di un turismo adeguato all'ambiente e
rispettoso dell'ambiente, della crescita di una cultura imprenditoriale
anti-assistenziale, della selezione rigorosa della classe dirigente.
E dell'impegno della cultura del Sud.
Sono costretto a citarmi. In Terzo Sud avevo scritto: "La 'decadenza'
della questione meridionale propone innanzitutto un problema di ripensamento.
Ripensare al Mezzogiorno vuol dire ritrovare all'arretratezza meridionale
e alle sue manifestazioni a tutti i livelli un ruolo e un significato
precisi; rivedere le linee dello sviluppo economico e sociale del
Sud, e riproporle in termini più efficaci, in modo che possano
costituire un perno, un punto di riferimento organico e chiaro per
l'azione politica e di politica economica. Oppure chiudere definitivamente
un discorso che non presenta prospettive legittime e valide. Per inerzia,
per abbandono dell'impegno intellettuale, culturale e politico. Per
una spirale di nebbia che avrà offuscato le voci di un revival
che affonda le radici nella più fertile e robusta tradizione
del problema meridionale".
Era il 1968. Poco dopo, nel '72, Saverio Strati pubblicava Noi lazzaroni,
epopea dei contadini del Sud migranti in Svizzera, mossi dalla speranza
(il più astratto, e infame, nome comune apparso nella terminologia
della "questione meridionale") di una vita migliore. Erano
i giorni che accendevano orizzonti lontani ma possibili di cantieri
e di miniere, senza più gli addii per sempre sui moli d'imbarco
per il "Nuovo Mondo". E c'era, nell'atto disperato di chi
abbandonava la terra d'origine, un'idea di pionierismo vitale, un
sentimento indistinto e cupamente fascinoso, ma creativo e quasi vendicativo
nei confronti di un destino (un'economia, una politica: una storia
subita) di pane nero e di più nera sopravvivenza.
C'è voluto un quarto di secolo soltanto perché anche
questo passato di contadini transumanti fosse visto solo come un'altra
dannazione. In L'uomo in Fondo al pozzo, dello stesso Strati (protagonista,
Rocca: nome emblematico di quella speranza), come scrive Claudio Marabini,
compaiono creature "fatalmente segnate da un destino che vive
in bilico tra due orbite informi e quasi inesistenti, essendo le radici
insufficienti e il futuro illegibile". Continua Marabini:
"Per l'uomo del Sud [ ... ] non c'è scampo. La vittoria
arriva, ma tardi. Ciò vuol dire che c'è sempre tempo
per riconoscere un valore? [ ... ]. Una cosa intanto è certa:
dal Sud non si emerge, bisogna "aspettare, e anche oltre la morte.
Ma c'è anche l'ambiente: il quale non regala nulla, e del resto
non può, data l'irregolarità di chi si propone. Non
ha colpa l'ambiente. La colpa è semmai nell'irregolarità.
Ma se l'irregolarità nascesse dalle radici segrete dell'ambiente
[ ... ]? Se tutto intorno fosse deforme e malato? Come si vede, tutto
è sotto accusa ... ".
L'ambiente, appunto. Il clima. Il contesto. I comportamenti consolidati,
il gesto ammiccante, la frase allusiva, il saluto sibillino, la vita
omertosa, la violenza codificata, la tracotanza ostentata, l'ingiuria
gratuita, la calunnia carsica, il mestiere di vivere, l'amara scienza,
il coltello e la lupara. E la nottata che non passa mai.
Quanta splendida letteratura, quanta magnifica scrittura ha esplorato,
sezionato il corpo vivo del Sud, senza che sia servito a nulla. Strumentalmente,
oggi, fa più chiasso un Castellaneta (che già agli esordi,
in Viaggio col padre, aveva rinnegato le radici: di che sorprendersi
o indignarsi, allora?) che un Cassieri (penso a quello di Ingannare
l'attesa, attesa della morte, facies hippochratica di un Sud in coma
permanente) o un Compagnone. E che fine hanno fatto Bernari, Seminara,
La Cava, Rea, Prisco? Chi ha voluto dimenticare subito D'Arrigo? Ha
scritto proprio Compagnone: "Il fatto è che questa società
letteraria è un'accozzaglia di compari. Ma è anche una
faida, che si ammanta di moralità [ ... ]. Io non dico che
la nostra società letteraria sia un bordello. E' peggio di
un bordello. E' una solida agenzia a conduzione interfamiliare, e
composta tuttavia da moltissime famiglie, o cosche, che si fanno lotta
armata [ ... ]. Negli anni '30, noi giovani aspettavamo febbrilmente
un libro di Einaudi o di Vallecchi o di Laterza. Ognuno di quei libri
era per noi una scoperta del mondo. Una scoperta di noi stessi. Ogni
libro era un luogo luminoso. Era una Torre d'avorio, ma una Torre
aperta al mondo. Torri d'avorio non ce ne sono più. Vi sono
torri pubblicitarie, torri commerciali, torri mercantili, torri di
tolleranza".
La piovra dei ruffiani e dei malommi letterari ha avuto un peso determinante
nella caduta di tensione e d'interesse per una narrativa e una poesia
che nella solida cornice del realismo avevano saputo innestare cronaca
e sogno, annalistica e favola, esperienza storica e magia, trascorrendo
da Vittorini a Tomasi di Lampedusa, da Scotellaro a Sciascia, da Fiore
alla Corti, da Alvaro a Bufalino, da Quasimodo a Carrieri, in una
delle più significative stagioni letterarie italiane. Ma per
tradizione, in Italia, hanno prevalso i balbettanti Cantù sui
ben più vigorosi (ed emarginati) Colletta. L'altro gran peso
lo ha avuto la "stanchezza" degli scrittori meridionali;
insieme con le frustrazioni, con la sensazione dell'impotenza, con
la percezione dell'inutilità dell'impegno per il Sud. la cultura,
aveva scritto Gramsci, è politica in potenza; e la politica
è cultura in atto. Ecco: è proprio la cultura in atto
che ha tradito, e forse non solo nel Sud, trascinando nel baratro
non eroi stanchi, ma uomini delusi.
Come il lutto ad Elettra, la sciagura si addice a questo Sud. E la
sciagura prossima ventura sarà la consegna del Mezzogiorno
all'Europa degli altri Sud, quelli in marcia di trasferimento (spagnolo,
greco, portoghese) e quelli accanitamente competitivi (francese, inglese,
tedesco-federale). Saremo quasi certamente la mucillagine continentale:
sbocco di mercati, serbatoio di voti, terra di rapina. La storia continua
a ripetersi; e continua a non insegnar nulla. Dice Maria Corti nelle
ultime pagine de L'ora di tutti: "Si va via. Il duca ha detto
che ora bisogna lasciarli godere da soli, in libertà. Dici
che, via noi, si ubriacheranno? Hanno lì tanto di quel vino!".
Dopo un po' disse: "Ma, secondo te, a quella fanfaluca della
fine del fazzoletto e della fine della servitù ci crederanno?".
Alzai le spalle. Il colle della Minerva in quel momento era per metà
nell'ombra: il sole stava calando e il mondo sembrava molto grande.
Quanti anni sono passati da allora? Solo i vivi contano gli anni.
Ed è mutato qualcosa?".
Aldo Bello