Lettera aperta




Giuseppe Orefice



A proposito di RAZZISMO e di MEZZOGIORNO, lettera aperta a Sudpuglia. Segue la risposta del direttore, Aldo Bello


Vibo Valentia, 20 ottobre '89

Carissimo Direttore,
ho letto con molto interesse la risposta alla lettera di Mirella Alloisio (Sudpuglia, 3/89, N.d.R.). Condivido la più gran parte dell'analisi che tu fai. Ma è un'analisi, secondo me, prevalentemente storica. Non è che manchi, ma è condotta per linee generali, quella politica, che poi è lo zoccolo duro che meglio fotografa il Mezzogiorno degli ultimi quarant'anni: quello -per intenderci - dell'intervento straordinario. Il quale ha condizionato, nel bene e nel male, ma forse più in questo che in quello, vita, cultura, comportamenti antropologici della gente del Sud.
Ai più, oltre tutto, è difficile capire come una massa ingente di capitali riversati nelle regioni meridionali, valutabile in almeno 100 mila miliardi di lire fino ad oggi, non sia riuscita a "risarcire" torti storici ed economici perpetrati -è ormai un dato acquisito dalla coscienza collettiva- ai danni dell'Italia meridionale dai giorni dell'Unità. Questa massa di trasferimenti che fine ha fatto? Tutti interventi a pioggia? Tutte bonifiche del territorio? Tutti incentivi per lo sviluppo? Se guardiamo al panorama odierno, c'è da aver paura. Il problema dell'agricoltura meridionale è stato risolto nella maniera drammaticamente più sbrigativa: abolendo l'agricoltura. Ora ci sono i problemi dei giovani e delle donne: aboliremo i giovani e le donne? E lo sviluppo industriale: continueremo a batterci per impianti che, se non lo sono già, Fra poco diventeranno obsoleti?
Si tocca con mano, poi, l'abbandono politico e intellettuale dei grandi temi della non superata, ma "abolita" questione meridionale, [come ai tempi del Ventennio: si veda la voce Mezzogiorno (Questione del), nel volume 23 dell'Enciclopedia Italiana]. Hanno abiurato anche gli intellettuali e, primi fra tutti, quelli di origine meridionale: Castellaneta insegni. Rocco e i suoi fratelli si sono integrati - era fatale -, ma la malinconia che suscita la loro foto-ricordo non è dovuta a memorie non sopite o a nostalgie affioranti, bensì alla considerazione che sono proprio costoro i più accaniti critici dei meridionali, di tutti i meridionali, che in quarant'anni di post-guerra, di ricostruzione, di intervento straordinario, non hanno saputo risolvere i loro secolari problemi.
Così, sembra essersi spezzato uno dei fili più consistenti, una volta, e più robusti, perché fondati sui vincoli di sangue e di latitudine. L'acqua, passata sotto i ponti della storia, li ha usurati, sfilacciati, recisi. Fatale anche questo, certamente. Ma proprio questo fa crescere il senso di solitudine, di smarrimento, di emarginazione della gente del Sud. E al Sud cresce, intanto, una generazione di plastica, senza pensiero, o con poco pensiero, senza ideali che non siano quelli del consumo. dell'arricchimento veloce, dell'individualismo esasperato. La società - che fu meridionale, poi regionale e locale - si sta frantumando in una nebulosa di monadi solitarie in lotta per un proprio ed esclusivo spazio vitale. Come una melograna, questa Sud ci è crepato fra le mani. Non è esattamente quel che la nostra generazione aveva sognato; né per questo ci eravamo battuti.
Ora mi vengono in mente alcune parole di Tommaso Fiore: "La Puglia è un'espressione archeologica. La nostra vita fu". Basta sostituire Puglia con Sud: i conti tornano. E torna, o ritorna in termini mutati, come un tragico ricorso storico, il paesaggio fisico, civile, intellettuale di sempre: quello di una terra "non letteraria, non retorica, del tutto ignorata, desolata, tetra, respingente, disperata, da tutti per calcolo e per viltà ignorata". Scriveva a Gobetti, Tommaso Fiore, quando descriveva questo paesaggio che "nella sua sconfinatezza, nella sua assenza di linee forti, suggestiona ed invita l'occhio a frugare con uno struggimento di morte".
Pessimismo eccessivo? Non direi: basta guardarsi in giro. Il Sud è diventato un deserto nel quale poche coscienze, ancora, ostinatamente gridano. Fino a quando? E poi: per chi? L'indifferenza, la più insolente, persino, ci assedio. Ci sarà scampo? Mai, come adesso, abbiamo avuto bisogno di auguri per il Futuro. Se ci lasciano un Futuro.
Affettuosamente,


Presentato a Milano (ma il prossimo anno dovrebbe essere presentato a Torino, per allargare il "segno della sfida", cioè la conoscenza dei problemi del Sud, per una presa di coscienza politica ed economica), il Rapporto Svimez elencava un gran numero di esempi di crisi, di stagnazione o di caduta a vite di interi settori produttivi e di economie locali, nello stesso tempo lanciando un allarme e imponendosi una reticenza. Il panorama era così buio da sgomentare. Ma, per la prima volta, il Rapporto arrivava a sfiorare uno dei tabù più consolidati del meridionalismo ufficiale: il potente ostacolo allo sviluppo del Sud costituito dalla preponderanza "dei ceti direttamente o indirettamente interessati a una spesa pubblica, la funzione distributiva della quale ha prevalso su quella di propulsione dello sviluppo". Questo, l'allarme.
E da questo punto, forse non casualmente, la reticenza. Allora è proprio da qui che occorre partire, per capire come mai, a centotrent'anni dall'Unità, a quaranta dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno, dopo trasferimenti per 100 mila miliardi di lire, il Sud ha tirato somme di mancato sviluppo. Il Sud è un buon terzo del Paese. Con le isole, è quasi metà del territorio nazionale. Allora: che cosa significava "ceti interessati alla spesa pubblica"? E perché si sono opposti alla crescita produttiva delle aree meridionali?
Eccolo. il discorso politico. Perché si può rispondere a queste domande solo considerando la peculiare posizione dei partiti politici e degli apparati pubblici nel Sud. E' stato rilevato che a differenza che in altri contesti più pluralistici e diversificati, in cui i partiti possono essere descritti in termini di strumenti della rappresentanza e del potere politico in contrapposizione a poteri ed istituzioni proprie della società civile, nel Sud degli anni '70 e '80 essi hanno teso a coincidere con quest'ultima.
I partiti politici, nel Mezzogiorno d'oggi, sono anche veri e propri gruppi sociali, "luoghi strategici" di comunicazione e di scambio; allo stesso tempo, gruppi di potere, di pressione e di socializzazione. E' stato anche chiarito che non si tratta di "invasione" della società civile da parte del potere politico, quanto di identificazione: la preminenza delle macchine politiche rispetto alle classi, agli ordini e ai ceti professionali, ai sindacati, ai gruppi volontari, è indiscussa. Gli esponenti delle burocrazie politiche del Sud sanno di far parte di un ceto privilegiato, dominante, e di costituire un cospicuo "pezzo" di società cui tutti devono fare riferimento.
Questo accade anche nelle società del "socialismo reale". In che cosa. allora, si differenzia il Sud da una "dimensione sovietica"? Nel fatto che questa dimensione coesiste con una condizione di anarchia politico-economica e di guerra di tutti contro tutti. E' la guerra che caratterizza la vita pubblica, la situazione urbana, i comportamenti antropologici di intere regioni. Risultato: il legame (forse ormai) indissolubile che il ceto politico-amministrativo ha stabilito con un vasto settore di capitalismo primitivo interessato alle commesse pubbliche ha fatto sì che "l'immobilismo amministrativo di numerosi governi locali meridionali sia spesso l'altro aspetto della privatizzazione fraudolenta di uffici e beni collettivi". E' quanto dice Pino Arlacchi. Ed è quanto condividiamo senza riserve.
Una società così eccentrica per l'Occidente avanzato, nella quale è consentito tutto e il contrario di tutto, è largamente cresciuta sotto l'ombrello dell'imponente trasferimento di risorse dallo Stato centrale alla periferia, messo in moto dopo la fine del secondo conflitto mondiale: i 100 mila miliardi, appunto; il "risarcimento", pur se tardivo e dunque meno risolutore; la risposta dello Stato alla lotta di classe dei giorni in cui la terra tremava; il bilanciamento per la fuga delle braccia dal Sud, che consentirono il "miracolo" industriale del Nord; e via dicendo.
Come mai, allora, il Sud è rimasto sospeso tra Vandea e Sturm und Drang, tra slanci imprenditoriali e sottosviluppo, tra nuova frontiera e vecchio fossato? Perché il flusso delle risorse è stato in grandissima parte intercettato e controllato da un ceto di mediatori che non aveva avuto niente a che fare, e che non intendeva avere niente a che fare, con l'emigrazione e con la lotta di classe. Portatori di un'antica etica predatoria, i boss politici meridionali hanno costruito e continuano a costruire le loro fortune politiche (senza peraltro trascurare i patrimoni personali) sulla base del divario tra due prezzi: quelli in base ai quali le opere pubbliche vengono progettate e finanziate con trasferimenti nazionali ed europei; e quelli in base ai quali vengono realmente realizzati. In questo modo, la classe politica meridionale (con le debite eccezioni, tuttavia non numerose) ha garantito una duplice filibustering: quella degli appalti e dei subappalti, quella delle revisioni e degli aggiornamenti dei prezzi. Attraverso questi meccanismi sono passati i grandi affari, cioè le grandi rapine a danno del Sud.
La riflessione che impone l'esperienza storica è desolante: la costruzione di una società a propria immagine e somiglianza da parte della nomenklatura meridionale è proseguita senza grandi contrasti, senza sconvolgenti conflitti. la grande industria pubblica e privata ha lasciato fare. le opposizioni politiche, quando non siano state coinvolte, sono state isolate e neutralizzate. Questa è stata la grande tragedia politica del Sud.
Un pericolo poteva profilarsi: da molti anni, la Svimez lo definisce una "vigorosa azione pubblica per lo sviluppo", sottratta all'influenza delle macchine politiche locali. Ed era determinato dall'apparire sulla scena di ceti sociali autonomi, di centri di aggregazione indipendenti, capaci di creare una dimensione policentrica del potere locale, su cui costituire alleanze e far leva per programmi e per investimenti di più lungo respiro e di generale, concreta fruizione. La minaccia è stata elusa. I boss delle macchine politiche hanno mantenuto il controllo delle posizioni-chiave dell'economia e delle istituzioni, impedendo o, meglio ancora, deviando ogni tentativo di diversificazione socio-economica. Risultato: il saldo monopolio di tre mercati cruciali -quelli del credito, dell'edilizia pubblica e privata, del lavoro esercitato spesso in società con formazioni criminose o col sistema delle pratiche illecite, ha consentito loro di perpetuare il proprio dominio. Il consenso dei cittadini è stato semplicemente ignorato. Gli indecisi sono stati comprati. I più riottosi, coinvolti e foraggiati, o resi inoffensivi.
Macchine politiche o criminalità collegate sono attualmente il maggiore ostacolo alla crescita del Sud. Tutto questo è scritto nei fatti, nella vita quotidiana del Mezzogiorno: e in nessun Rapporto, a memoria d'uomo. E tutto questo dobbiamo dircelo, con fredda determinazione. Se vogliamo smetterla di ingannarci.
L'area della corruzione è vastissima, ma solo due sono le situazioni in cui si osservano abitualmente rapporti di corruzione: nella prima (quando il soggetto politico agisce per conquistare o per conservare il potere) si è corruttori; nella seconda (quando, una volta acquistato il potere, lo si utilizza per trarne vantaggi personali) si è corrotti. Le due situazioni sono connesse, ma la distinzione è rilevante, perché i due casi sono moralmente, e anche giuridicamente, di diversa gravità. Dal fenomeno è escluso il clientelismo, che è arte del demagogo, dell'imbonitore, irritante, deplorevole, ma svolta in pubblico: offende il costume, non il diritto. Al contrario, l'abuso del potere per ottenere vantaggi personali, il cui esempio più comune è la "tangente", non si può esercitare che in segreto e, una volta scoperto, cade (dovrebbe cadere) sotto i rigori della legge.
Tutti gli studi sulla corruzione politica tendono a mettere in rilievo la vastità del fenomeno anche negli Stati democratici, insieme con la difficoltà di eliminarlo. Vi è una specie di scuola di rassegnati i quali, ispirandosi alle teorie funzionalistiche si sono convinti di attribuirgli una eccentrica utilità sociale, una "funzione", appunto, che metaforicamente sarebbe quella di ungere le ruote di una macchina che altrimenti stenterebbe a mettersi in moto. Ma la constatazione che esso, nella sua forma propria, non possa svolgersi che sottobanco, rivela la sua totale estraneità all'etica della democrazia, vale a dire a quella forma di governo della cosa pubblica che richiede la pubblicità di tutti gli atti, la controllabilità di chi esercita il potere in nome di tutti e la fine della politica degli arcana imperii propria degli Stati autoritari di un tempo o di quelli ancora superstiti.
In uno Stato democratico, la pubblica moralità non è solo un obbligo morale o giuridico, ma anche politico, cioè l'obbligo per eccellenza, imposto dal principio stesso che regola la vita del governo democratico e che lo distingue da tutte le altre forme di governo finora esistite. La "questione morale", dunque, forse più di qualunque altra "emergenza", per essere efficacemente affrontata, esige una strategia fatta di scelte precise e puntualmente controllabili, circoscritte ma immediatamente operative, pragmatiche ma perfettamente riconoscibili. E questo discorso non riguarda solo la criminalità organizzata; investe anche una seria e severa regolamentazione dell'attività delle lobbies. il corposo sistema di rapporti tra i loro interessi forti (fortissimi) e la rappresentanza politica, le resistenze che oppongono ad ogni tentativo di "ecologia istituzionale".
Ad un certo punto, negli anni '80 in particolare, c'è stato un collasso ideale dell'intelligenza riformatrice meridionale, con una profonda crisi della cultura meridionalistica. Questo aspetto "intellettuale" ha oggi un suo peculiare primato, se guardiamo alle sorti del Sud. Sotto la pressione di imponenti cambiamenti, ha ceduto e si è esaurita una grande tradizione di pensiero. I Fortunato, gli Sturzo, i Gramsci, gli Amendola, i De Viti De Marco, i Salvemini, i La Malfa, i Compagna, i Rossi Doria, i Saraceno, non sembra abbiano lasciato discepoli; e proprio nel momento in cui la forbice Nord-Sud si è allargata in modo drammatico, non si avverte la crescita di una generazione nuova di giovani meridionalisti né nella tradizione comunista gramsciana, né in quella cattolica sturziana, né in quella laico-salveminiana.
Debolezza rispetto alla durezza delle sfide, violenza, speculazione, mafie, devastazioni urbane, assistenzialismo corruttore e distorto del vecchio meridionalismo e della vecchia sinistra meridionale: tutto vero. Ma le condizioni entro le quali può nascere un "nuovo meridionalismo", all'altezza dei tempi, non sono né semplici né a portata di mano.
Certamente, la crisi della cultura meridionalista non è solo legata a un ricambio generazionale che non c'è stato o che ancora non si vede tra i giovani intellettuali, che pure sperimentano sulla propria pelle, dal Garigliano in giù, la gravità di una disoccupazione che non è solo statistica e che incombe come un destino da tragedia greca al quale è quasi impossibile contrapporre speranze fondate, sia pure coniugate al futuro. C'è una questione politico-economica non risolvibile più né in termini volontaristici, né in termini centraI-assistenziaIi, legata agli smarrimenti della cultura keynesiana e riformista in ambasce di pensiero in tutto l'Occidente e che riesce solo a fornire qualche spiraglio, qua e là, nella incertezza delle ricette progettuali organiche non più possibili, in un dibattito che sembra avvicinare "al centro" i neo-liberali già delusi e i reduci del secolo, i socialdemocratici orfani. C'è chi auspica condizioni almeno basilari per un itinerario possibile al New Deal meridionale. C'è però un terreno meno specifico, eppure non meno decisivo: l'urgenza drammatica di una rivoluzione dei comportamenti, di una scelta per la rinascita di una cultura almeno delle regole, (in attesa di una ripresa non retorica, non rituale, di forti e non emotive vene di meridionalismo colto e razionale), come terreno minimo di drenaggio al degrado civile, ambientale, di convivenza e di vivibilità.
Dove sono gli intellettuali? I più seri, i più rigorosi, nonostante tensioni interiori e tormenti, sono tentati di abbandonare, di gettare la spugna nel "rifugio altrove". E non solo loro. Quanti, nelle situazioni più degradate del Sud, non vogliono credere alla malinconia di una "tranquilla" disperazione adattata all'esistente, non desiderano altro che fuggire, prima o poi, e hanno alzato, magari inconsapevolmente, bandiera bianca. Ecco: essi vivranno la certezza delle istituzioni, dei servizi, il minimo garantito di riconoscimento comune delle regole e di una cultura delle regole e della loro riformabilità fuori, oltre confine, lasciando il Sud, magari anche solo in sogno.
L'oggi è la passiva rassegnazione alla cultura dello scambio, alla trasgressione, all'incertezza istituzionale, al non rispetto abitudinario delle regole, dalle piccole cose dell'universo quotidiano (il traffico, lo spinello, il micro-contrabbando, le immondizie, la rottura del rapporto di solidarietà col vicinato) alle grandi (speculazioni, violenze, mafie, degrado ambientale, razzismo, disoccupazione). E' la sopravvivenza, individualmente onesta, amareggiata, che cerca consolazione in ciò che resta di vivibile: l'effervescenza culturale, gli scampoli d'ambiente, la solidarietà umana legata non allo scambio dei favori ma alla gratuità, la tradizione di alcune istituzioni culturali e di alcune università.
Altri, invece, coltivano la sindrome di Bombay, teorizzando l'avanguardia di alcune situazioni e condizioni meridionali sul degrado inevitabile della città e della qualità della vita nell'età post-moderna. Affascinante tentazione intellettuale post-politica, non solo post-ideologica. Certo, c'è Liverpool e c'è il Bronx. Sarà retro, ma è una tentazione che non ci lusinga. L'Europa, in realtà, è lontana e si allontana. Semmai si può distinguere il Sud nel Sud. luoghi della decadenza quasi inarrestabile e realtà imprenditoriali, politiche, culturali emergenti, vecchie e nuove capitali, energie alternative ed energie spente nella rassegnazione.
Ma se la democrazia non può convivere con una disoccupazione giovanile che mette in ginocchio un'intera generazione; né si può conservare il senso delle istituzioni e dello Stato quando l'illegalismo determina ormai in modo stabile, in interi settori della vita sociale, il lavoro, la ricchezza, le gerarchie dei valori, gli stili di vita, i chierici almeno, gli intellettuali, dovrebbero fare obiezione di coscienza: riscoprire il pessimismo, sì, ma gobettiano, cioè l'intransigenza, lo sforzo di una rivoluzione dei comportamenti che si ponga come pietra d'inciampo, senza moralismi e volontarismi, ma semplicemente come testimonianza dagli effetti dirompenti di una cultura delle regole, vistosa obiezione di coscienza pubblica al rischio di una vera e propria crisi etica di massa. Dalle piccole manifestazioni della quotidianità ai grandi appuntamenti istituzionali. Ma è proprio questo che spaventa più d'uno: se la tradizione laica, gramsciana, sturziana, incontrerà Gobetti, innesterà elementi di obiezione di coscienza nella coscienza collettiva, stravolgendo le terrificanti regole del gioco attuale. Persino la disoccupazione giovanile è legata a questo. Ce lo insegna una delle più belle parole dell'organizzazione sociale, deposito di grandi battaglie del movimento operaio e del movimento cattolico, che in non poche aree del Sud è stata insozzata fino al letame: cooperazione.
Le conclusioni, allora, tornano tutte politiche, prepotentemente politiche. Ed entrano in campo le grandi questioni degli investimenti infrastrutturali, della pianificazione del territorio, dell'industrializzazione moderna, dell'abbattimento delle tentazioni di scorciatoie reazionarie, e dell'innovazione tecnologica, dello sviluppo di un turismo adeguato all'ambiente e rispettoso dell'ambiente, della crescita di una cultura imprenditoriale anti-assistenziale, della selezione rigorosa della classe dirigente. E dell'impegno della cultura del Sud.
Sono costretto a citarmi. In Terzo Sud avevo scritto: "La 'decadenza' della questione meridionale propone innanzitutto un problema di ripensamento. Ripensare al Mezzogiorno vuol dire ritrovare all'arretratezza meridionale e alle sue manifestazioni a tutti i livelli un ruolo e un significato precisi; rivedere le linee dello sviluppo economico e sociale del Sud, e riproporle in termini più efficaci, in modo che possano costituire un perno, un punto di riferimento organico e chiaro per l'azione politica e di politica economica. Oppure chiudere definitivamente un discorso che non presenta prospettive legittime e valide. Per inerzia, per abbandono dell'impegno intellettuale, culturale e politico. Per una spirale di nebbia che avrà offuscato le voci di un revival che affonda le radici nella più fertile e robusta tradizione del problema meridionale".
Era il 1968. Poco dopo, nel '72, Saverio Strati pubblicava Noi lazzaroni, epopea dei contadini del Sud migranti in Svizzera, mossi dalla speranza (il più astratto, e infame, nome comune apparso nella terminologia della "questione meridionale") di una vita migliore. Erano i giorni che accendevano orizzonti lontani ma possibili di cantieri e di miniere, senza più gli addii per sempre sui moli d'imbarco per il "Nuovo Mondo". E c'era, nell'atto disperato di chi abbandonava la terra d'origine, un'idea di pionierismo vitale, un sentimento indistinto e cupamente fascinoso, ma creativo e quasi vendicativo nei confronti di un destino (un'economia, una politica: una storia subita) di pane nero e di più nera sopravvivenza.
C'è voluto un quarto di secolo soltanto perché anche questo passato di contadini transumanti fosse visto solo come un'altra dannazione. In L'uomo in Fondo al pozzo, dello stesso Strati (protagonista, Rocca: nome emblematico di quella speranza), come scrive Claudio Marabini, compaiono creature "fatalmente segnate da un destino che vive in bilico tra due orbite informi e quasi inesistenti, essendo le radici insufficienti e il futuro illegibile". Continua Marabini:
"Per l'uomo del Sud [ ... ] non c'è scampo. La vittoria arriva, ma tardi. Ciò vuol dire che c'è sempre tempo per riconoscere un valore? [ ... ]. Una cosa intanto è certa: dal Sud non si emerge, bisogna "aspettare, e anche oltre la morte. Ma c'è anche l'ambiente: il quale non regala nulla, e del resto non può, data l'irregolarità di chi si propone. Non ha colpa l'ambiente. La colpa è semmai nell'irregolarità. Ma se l'irregolarità nascesse dalle radici segrete dell'ambiente [ ... ]? Se tutto intorno fosse deforme e malato? Come si vede, tutto è sotto accusa ... ".
L'ambiente, appunto. Il clima. Il contesto. I comportamenti consolidati, il gesto ammiccante, la frase allusiva, il saluto sibillino, la vita omertosa, la violenza codificata, la tracotanza ostentata, l'ingiuria gratuita, la calunnia carsica, il mestiere di vivere, l'amara scienza, il coltello e la lupara. E la nottata che non passa mai.
Quanta splendida letteratura, quanta magnifica scrittura ha esplorato, sezionato il corpo vivo del Sud, senza che sia servito a nulla. Strumentalmente, oggi, fa più chiasso un Castellaneta (che già agli esordi, in Viaggio col padre, aveva rinnegato le radici: di che sorprendersi o indignarsi, allora?) che un Cassieri (penso a quello di Ingannare l'attesa, attesa della morte, facies hippochratica di un Sud in coma permanente) o un Compagnone. E che fine hanno fatto Bernari, Seminara, La Cava, Rea, Prisco? Chi ha voluto dimenticare subito D'Arrigo? Ha scritto proprio Compagnone: "Il fatto è che questa società letteraria è un'accozzaglia di compari. Ma è anche una faida, che si ammanta di moralità [ ... ]. Io non dico che la nostra società letteraria sia un bordello. E' peggio di un bordello. E' una solida agenzia a conduzione interfamiliare, e composta tuttavia da moltissime famiglie, o cosche, che si fanno lotta armata [ ... ]. Negli anni '30, noi giovani aspettavamo febbrilmente un libro di Einaudi o di Vallecchi o di Laterza. Ognuno di quei libri era per noi una scoperta del mondo. Una scoperta di noi stessi. Ogni libro era un luogo luminoso. Era una Torre d'avorio, ma una Torre aperta al mondo. Torri d'avorio non ce ne sono più. Vi sono torri pubblicitarie, torri commerciali, torri mercantili, torri di tolleranza".
La piovra dei ruffiani e dei malommi letterari ha avuto un peso determinante nella caduta di tensione e d'interesse per una narrativa e una poesia che nella solida cornice del realismo avevano saputo innestare cronaca e sogno, annalistica e favola, esperienza storica e magia, trascorrendo da Vittorini a Tomasi di Lampedusa, da Scotellaro a Sciascia, da Fiore alla Corti, da Alvaro a Bufalino, da Quasimodo a Carrieri, in una delle più significative stagioni letterarie italiane. Ma per tradizione, in Italia, hanno prevalso i balbettanti Cantù sui ben più vigorosi (ed emarginati) Colletta. L'altro gran peso lo ha avuto la "stanchezza" degli scrittori meridionali; insieme con le frustrazioni, con la sensazione dell'impotenza, con la percezione dell'inutilità dell'impegno per il Sud. la cultura, aveva scritto Gramsci, è politica in potenza; e la politica è cultura in atto. Ecco: è proprio la cultura in atto che ha tradito, e forse non solo nel Sud, trascinando nel baratro non eroi stanchi, ma uomini delusi.
Come il lutto ad Elettra, la sciagura si addice a questo Sud. E la sciagura prossima ventura sarà la consegna del Mezzogiorno all'Europa degli altri Sud, quelli in marcia di trasferimento (spagnolo, greco, portoghese) e quelli accanitamente competitivi (francese, inglese, tedesco-federale). Saremo quasi certamente la mucillagine continentale: sbocco di mercati, serbatoio di voti, terra di rapina. La storia continua a ripetersi; e continua a non insegnar nulla. Dice Maria Corti nelle ultime pagine de L'ora di tutti: "Si va via. Il duca ha detto che ora bisogna lasciarli godere da soli, in libertà. Dici che, via noi, si ubriacheranno? Hanno lì tanto di quel vino!". Dopo un po' disse: "Ma, secondo te, a quella fanfaluca della fine del fazzoletto e della fine della servitù ci crederanno?". Alzai le spalle. Il colle della Minerva in quel momento era per metà nell'ombra: il sole stava calando e il mondo sembrava molto grande. Quanti anni sono passati da allora? Solo i vivi contano gli anni. Ed è mutato qualcosa?".
Aldo Bello


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000