§ Salento misterioso

Il ninfeo delle fate




Andrea Fiocco, Tiziana Zellino



Nella nostra esplorazione alla ricerca del Salento del mistero, siamo rimasti affascinati da un sito di notevole interesse artistico e monumentale, sul quale corrono molte storie e leggende e che nel nome stesso evoca il soprannaturale: il "ninfeo delle fate".
Uscendo da Lecce in direzione di S. Cesario, una strada traversa porta alla Masseria Papaleo, nella quale è inglobato un ninfeo cinquecentesco. l'edificio richiama nel nome, nella struttura e nella funzione i ninfei dell'epoca greca e romana: costruzioni che sorgevano in località ricche di acqua, dedicate al culto delle ninfe, ma adibite anche a luoghi di svaghi e riunioni. Nel '500 diversi edifici del genere furono costruiti nella nostra provincia: di epoca precedente è il ninfeo che si trova presso la torre di Belloluogo e che tuttora è rifornito di acqua da un fiume sotterraneo.
Anche il luogo dove sorge il ninfeo delle fate era in origine segnato da palle e stagni, poi prosciugati nell'operazione di bonifica delle "tagghiate".
Scavato in un masso monolitico, sul quale si erge la masseria, il ninfeo si compone di due vani: uno, di m. 10x5, presenta alle pareti delle nicchie con statue di ninfe scolpite a mezzo rilievo nel masso. Le statue sono corrose e sfregiate dall'umidità e l'ambiente è stato rozzamente "rinfrescato" con vernice azzurra. Il secondo vano, che ha un diametro di circa 5 m., è di forma circolare con una cupola emisferica. Da un'apertura della cupola, ora ostruita, doveva verosimilmente ricevere aria e luce. Un sedile corre lungo le pareti del locale, probabilmente una piscina.
Secondo le fonti, il ninfeo risale al sec. XVI e poté forse essere edificato da Scipione de Summa, Preside della Provincia (1532-1542) per la quasi identità dello stemma scolpito sulla porta di ingresso al ninfeo, ora assai corroso (cfr. Amilcare Foscarini, Guida Storico-Artistica di Lecce, ed. Conte, Lecce, 1929, p. 166).
Il ninfeo è detto delle fate perché si dice che in quel luogo esse amassero ritrovarsi, preferendo rocce, caverne, sorgenti; e le statue rappresenterebbero alcune delle più giovani e belle tra esse, compresa la Regina delle Fate.
Qualcuno racconta che anche oggi escono dal ninfeo - specie di notte - e che talvolta bussano alle porte delle case spaventando la gente, che possono impietrire con uno sguardo. Queste donne ultraterrene sono apparse talvolta in vaporosi abiti bianchi, talaltra nude e affascinanti: "mezze nute", ci diceva un contadino. Possono cambiare aspetto a loro piacere, divenire alte come palazzi, rendersi invisibili o tramutarsi in animali. Una signora ci ha narrato così di avere visto un giorno un animale fantastico balzar fuori al tramonto dal canneto vicino al ninfeo in un gran polverone, e di essere fuggita spaventata. Colei che abita la masseria si dice abbia visto un giorno una fata, vestita di bianco; seduta al tavolo di casa sua, e dopo poco sparita. D'altronde, secondo la tradizione, questi esseri avrebbero corpi leggeri e mutevoli, "astrali", dalla natura simile a quella di una nube condensata. "Sono così mutevoli per la tenuità degli spiriti che li animano, che essi possono farli apparire o scomparire a piacere" (cfr. Robert Kirk, Il regno segreto, tr. it. Adelphi, Milano, 1980, p. 14).
Nel ninfeo era nascosta l'acchiatura delle fate ed è per questo che fino a qualche anno fa non vi si faceva entrare nessuno. Ora si dice che il contadino che lavorava il fondo circostante abbia trovato, nascosta in una nicchia, l'acchiatura e che egli sia protetto dalle fate: in una notte di tempesta esse lo salvarono da un fulmine che lo sfiorò, bruciacchiandogli i calzoni, senza fargli male. Egli ci ha detto di non credere alle fate, che chiama con espressione poetica "illusione di vita", e di non averle mai viste. Ma non è forse vero che chi riceve favori dalle fate o intrattiene rapporti con loro non deve farne parola con nessuno?
Il nostro popolo divide le fate in due categorie, quelle buone e quelle cattive: "Le buone proteggono gli uomini, le donne e i fanciulli, sono capaci di donare a chicchessia ricchezze e poteri, improvvisano palazzi incantati, trasportano con la rapidità del fulmine qualunque cosa da un lato all'altro del mondo, procurano i piaceri e le voluttà più sorprendenti, trasformano la bruttezza in bellezza, e sono specialmente amiche degli amanti sfortunati, ai quali spesso ridonano la pace e la gioia.
Le cattive hanno attinenza con le streghe e si crede che siano ispirate dal diavolo (v. Giuseppe Gigli, Superstizioni pregiudizi e tradizioni in terra d'Otranto con un'aggiunta di conti e Fiabe popolari, Barbera, Firenze, 1893, p. 91).
Intendersi con i fairies non è comunque facile; queste creature sono complicate per natura e "il loro comportamento è regolato da un codice morale molto lontano dal nostro" (cfr. David Larkin (a cura di), Fate, Rizzoli, Milano, 1979).
Nelle storie che si raccontano fra la nostra gente, tipi e temi impressionantemente analoghi a quelli diffusi presso altri popoli, segnatamente nell'Europa settentrionale, appaiono solo che si voglia andare a fondo. E dei vari racconti vogliamo proporne qui tre.
Si narra che un giorno un tale, passeggiando appena fuori il paese di Collepasso. vide una ragazzina che era caduta e si era sbucciato un ginocchio. L'aiutò a rialzarsi e la fanciulla scomparve. Quando tornò a cosa, nel riporre il bastone da passeggio, si accorse che esso era diventato d'oro massiccio: un segno della riconoscenza della fata!
Un'altra storia è quella della "tignusa", una povera donna, malata, un po' tocca, che abitava nei pressi del ninfeo delle fate. Non potendo avere figli, essa amava sognare cullando tra le braccia dei pezzi di legno avvolti in stracci. Per questo motivo era oggetto di scherno, finché un giorno ella si trovò presente mentre passavano delle fate. Una delle fate, vedendola, si impietosì e trasformò il fantoccio in un bambino in carne ed ossa.
Una leggenda riguarda poi le meraviglie della grotta della Zinzulusa. Una donna aveva lasciato unica erede la figliola, sapendo che il malvagio marito, pur di impadronirsi dei suoi beni, aveva concluso un patto col diavolo. L'uomo, per impadronirsi dell'eredità, rinchiuse la figlia in una stanzetta nascosta della casa perché morisse di stenti. Un giorno, una buona vecchia fata riuscì a scoprire dove era tenuta segregata la ragazza, e le apparve. La giovane, coperta solo di cenci, malata e affamata. implorò aiuto. La fata rispose con un triplice incantesimo. Un batter di mano e il luridume della stanza si cambiò in gioielli; un altro battito e la fanciulla fu rivestita di un abito stupendo; quindi fata e fanciulla furono trasportate all'aperto da uno sciame di colombi. Dopo aver detto alla ragazza di conservare i suoi stracci in ricordo degli avvenimenti, la fata disparve. Un nobile che passava di là vide la giovane, se ne innamorò e la volle per sposa.
Intanto, il padre, alla scomparsa della figlia, cercò di aprire il cofanetto dove erano i preziosi gioielli, ma mentre allungava la mano ecco il tesoro coprirsi di fiamme; una mano misteriosa afferrò l'uomo alla gola e, mentre la casa crollava, la porta nella grotta della Zinzulusa e lo fece rotolare in fondo al lago, le cui acque divennero nere e limacciose, perché il diavolo vi fece rigurgitare le acque dell'inferno: per questo anche ora il lago si chiama Cocito.
Dopo molti anni la fata riapparve alla donna da lei beneficata, annunciandole la prossima fine. la condusse verso la grotta del Cocito, nel vestibolo trasse i cenci che aveva conservato e li cambiò in lucenti pietre frastagliate e quello fu il "corridoio delle meraviglie". Disse però la fata: "Non spaventarti se in queste acque limacciose udrai un urlo o un sospiro, qui fa penitenza l'anima di tuo padre". Quindi la condusse in una reggia di cristallo, dove le acque erano limpidissime. "Sembra un Duomo!" -esclamò la donna. "Questo sarà il suo nome", spiegò la fata, "e qui tu e tuo marito riposerete in eterno, e mentre voi vedrete la luce. nessun vivente la vedrò mai". Ecco dunque l'origine delle varie grotte e la spiegazione dei sospiri del lago infernale ... (*)


NOTE
(*) Questa leggendo è estesamente riportata in Saverio La Sorsa, Leggende di Puglia, Levante, Bari, 1958, p. 198 sg.


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