§ Recensioni

La toga e la memoria




Ferruccio Monterosso



LUIGI GRANDE: GLI SBAGLI DI VOSTRO ONORE

Luigi Grande, già attivo collaboratore de "Il Mondo" di Pannunzio e tuttora de "Il Ponte", affermatosi nella narrativa con molti racconti e i due romanzi l'onore e l'incoerenza, vincitore del Premio Stradanova (Padova), autore d'una nutrita serie di volumi sui più acuti fatti e problemi eticogiuridici del nostro tempo (da Dall'Europa, un nuovo galateo fra Stati a Diritto positivo e storto effettivo a Disatomic community), ci propone ora un nuovo libro il cui punto centrale è forse costituito dal seguente cruciale quesito: se non è giusto far soffrire infliggendo pene a espiazione di errori, come si può assicurare la pacifica normale convivenza fra gli uomini senza ricorrere a quella punizione dei delitti che pare il solo deterrente capace di distogliere gli uomini stessi dal tralignare? Ma qual è (ammesso che esista) il limite preciso che demarca la giustizia dall'ingiustizia?
Attorno a tale fulcro il nostro autore Fa ruotare il travaglio della sua appassionata ricerca nella quale al fervore del sentimento si intreccia un lucido raziocinare: Luigi Grande (energicamente impegnato nel sociale come dirigente fra l'altro dell'A.I.D.O. e dell'Unitre) si cimenta - e incalza i suoi lettori - in una intensa ma al tempo stesso pacata ricerca di rimedi idonei a risolvere in modo soddisfacente (compatibilmente coi limiti e le inadeguatezze delle possibilità umane) i gravi problemi giudiziari. Estesa e complessa la gamma dei temi sviscerati da Grande, corrispondente alla vastità e difficoltà delle questioni che affliggono il mondo della giustizia in Italia. L'autore fa rimbalzare la sua attenzione dal passato al presente e viceversa: così, in una ricca ampiezza di prospettive, il contenzioso di ieri si proietta problematicamente sui nostri giorni, e a sua volta la casistica giuridica di oggi - uscendo dai limiti della attuale contemporaneità - si avviluppa, variatis variandis ma senza soluzione di continuità, con le tormentate vicende delle epoche precedenti.
Grande si è esplicato come operatore del diritto e come coltivatore di humanae litterae (nonché intenditore di arti figurative), versanti in lui intrecciati in suggestiva compresenza. E, appunto, il possesso di un'ottima cultura anche storica e letteraria - ampia e capillare, mai divagante ma sempre appropriata a documentare assunti, a certificare affermazioni - permette a Grande di riandare con sicurezza di riferimenti a molti significativi episodi accaduti in passato: ad es. all'errore giudiziario commesso a Venezia nel 1507 e di cui fu vittima innocente un giovane fornaio (il fatto prestò argomento al drammone di Dall'Ongaro). Avvenimento così dolorosamente emblematico che il massimo organo giurisdizionale della Serenissima, scandendo la rituale formula "recordéve del povero fornareto", esortava ogni volta i consiglieri a meditare responsabilmente, prima di emettere una sentenza; e nella vexata quaestio sempre attuale, appunto, dell'errore giudiziario, Grande imbastisce tutta una trama di puntualizzazioni serratamente documentata. Anche la tanto - giustamente deprecata - lentezza dei procedimenti giudiziari non è un Fatto solo di oggi: già Muratori, più di due secoli fa, stigmatizzava "la soverchia e sterminata lunghezza delle liti per tante sottigliezze, giri e rigiri inventati dall'acutezza dei causidici" (Dei difetti della giurisprudenza. a cura di G. Barni, Milano, Rizzoli, 1958, p. 152). Rimedita Grande, utilizzando validamente anche la più recente e accreditata bibliografia (F. Nicolini, N. Peppe, F. Cordero ecc.), la manzoniana Storia della Colonna infame: "opera di psicologia giuridica, saggio di analisi sottile delle complicazioni e debolezze dello spirito umano" (così la definì Luigi Russo in Compendio storico della letteratura italiana, Messina-Firenze. D'Anna, 1961, pp. 552-553): una vera e propria requisitoria contro quell'ottenebramento della mente che aveva condotto i giudici milanesi nel 1630 a condannare a orribili pene imputati innocenti quali erano i cosiddetti untori della peste.
Pertinenti - fra i molti possibili richiami di interesse giuridico alle arti figurative e a varie letterature antiche e moderne - quelli ad es. alla pittura Fiamminga: al pannello I Giudici integri di Van Eych (sul cui trafugamento Camus prospettò curiose immaginazioni), ai due quadri di Gérard David narranti la vicenda del re Cambise e del giudice Sesamne da lui Fatto sgozzare perché per denaro aveva pronunciato un verdetto iniquo, vicenda ricordata già da Erodoto e poi ripresa nel romanzo del 1984 La pelle del giudice di Diego Curtò. "Se la cultura classica (osserva Grande) colloca nel mito e nell'oltretomba il modello del giudice giusto, quella ebraica ( ... ) ha il suo modello di giudice giusto in una Figura di monarca circondato da un'aura quasi fiabesca. Salomone" (p. 31); mentre la commedia di Von Kleist La brocca rotta rappresenta in modo divertente ed efficace il "giudice disonesto, e anche ignorante e un po' infingardo" (p. 33). E che in letteratura, insomma, il giudice non goda "di... buona riputazione" (ibid.), è provato anche da come Dostoevskij raffigura Porfirio Pietrovitc; perché la scena cambi, occorre arrivare a Il diario di un giudice di Dante Troisi in cui il protagonista appare quasi "spoglio della propria toga, con la sua inferiore sofferenza e con il proprio sdegno represso e celato" (p. 35).
Il libro pulsa anche di vibrazioni autobiografiche: l'autore tesaurizza infatti le sue concrete esperienze di magistrato di Cassazione, escludendo con ciò formulazioni astrattamente teoretiche.
Quando riferisce di alcuni dei suoi molti viaggi, noi notiamo che mai li ha praticati come turismo più o meno evasivo ma, intelligentemente, li ha interpretati come scoperte o verifiche di situazioni e vicende variamente succose di pungolante valore culturale: mediante le quali Grande esemplifica e corrobora la concezione morale ed etica che ha del giure e delle leggi. Una delle esperienze che più colpì lui, ancora adolescente, Fu la visita alle latomie di Siracusa, soprattutto al celebre Orecchio di Dionisio, ove com'è ben noto erano detenuti gli ateniesi catturati al tempo della spedizione in Sicilia durante la guerra del Peloponneso. Poiché, secondo la tradizione, il tiranno poteva udire, mettendosi nella piccola apertura posta in alto in fondo alla grotta, perfino le parole anche solo sussurrate dai prigionieri, a Grande - scosso da quella constatazione - apparve "fin da allora mostruosa ogni Forma di violazione dei segreti dei discorsi altrui" (p. 168).
A quella circostanza di quasi due millenni e mezzo fa, si connette una riflessione d'oggigiorno: se sia lecito "acquisire il contenuto di una conversazione fra persone - a mezzo di microspie sistemate nel locale in cui avviene l'incontro - e farne uso processuale" (p. 197); la risposta di Grande, suffragata anche da un preciso disposto costituzionale, non può essere che radicalmente negativa.
Dal suo commosso sopralluogo, poi, allo Spielberg, che "resta per noi il prototipo della prigione politica" (p. 157) e dalla rilettura delle Mie prigioni, Grande riprende e ribadisce quello che in sostanza fu il messaggio nettamente enunciato dal Pellico: il "rifiuto di ogni Forma di intolleranza" (p. 159).
L'ispirazione laica e tollerante di Grande batte, con implacabile sacrosanta asprezza, contro la superstizione e il fanatismo religioso e razziale, la prepotenza dei tiranni e l'isterismo delle Folle; e nel riconsiderare le frequenti ignominie commesse dalla matta bestialità di certi uomini (si pensi alle tante incolpevoli spedite al patibolo dai processi alle streghe; al rogo subìto dai templari ad opera di Filippo IV il Bello; a quei giudici ridotti a docili strumenti di spietati autocrati ecc.), il nostro scrittore è preso da sincera accoratezza, e anzi da angoscia allorché pensa alla "irrimediabilità dell'errore giudiziario quando la pena è stata la morte" (p. 40). E, purtroppo, di atrocità ne sono state perpetrate tante anche in epoche a noi vicinissime (le purghe staliniane ad es.), e un filo diretto sembra collegare gli strumenti di tortura usati un tempo - ed esposti in una sala del castello di Gand - con le orribili realtà dei manicomi criminali denunciate dal libro Squalificati a vita di Alfredo Bonazzi, 1975.
Molti dunque i casi "in cui l'ingiustizia ha trionfato: casi che possono chiamarsi "fandezze di Terni"" (p. 25). Grande tuttavia esprime non compianti melodrammatici, ma piuttosto, implicitamente, un ammonimento a riflettere con coraggiosa coscienza critica e autocritica affinché i tragici errori passati non si ripetano più.
Non possiamo per ragioni di spazio dar conto di tanti altri stimolanti spunti offerti dal libro. Ci limitiamo qui a segnalare che a Grande spiace la "dimidiazione della pena al terrorista pentito che faccia il nome dei complici" (p. 200): ciò, per l'ovvio semplice e probante motivo che alcune delazioni possono essere "dettate non da nobili propositi o da sincero pentimento ma da calcolo che spesso può associarsi a meschine ripicche o vendette personali" (pp. 201-202).
Infine: l'autore (che adopera uno stile affabilmente discorsivo, quasi intavolando col lettore una ininterrotta amichevole conversazione) Fa corrispondere alla ricchezza delle idee un adeguato assortimento terminologico, constatabile (per Fare un solo esempio) quando invoca la necessità "che la giustizia non si risolva nel proprio contrario" n'ingiustizia) o in un'immagine sgangherata di essa (la disgiustizia) o in mera utopia (la fantagiustizia)" (pp. 24-25).

GUIDO D'ANNA: UN ANNO VICEVERSA

Un editore, che sia contemporaneamente anche scrittore in proprio, non costituisce una novità (si pensi a Bompiani, Einaudi, Neri Pozza ..., solo per fare qualche nome), ma certo il messinese Guido D'Anna possiede, nella schiera di coloro che esercitano questa duplice attività, una fisionomia sua propria, anche perché - oltre a tali due versanti (correlati, del resto) della sua personalità - ne vanta un terzo, quello di pittore, e di pittore vivacemente e seriamente impegnato. Del "figurativo", del resto, appaiono vistosi riflessi anche nel suo libro (Un anno viceversa, Firenze, Vallecchi): già sulla sopraccoperta è riprodotto il particolare d'un Paesaggio di Bagheria di Guttuso del 1951; poi, via via nel corso della narrazione, ora si stagliano ampie campiture coloristiche ora sfrecciano pennellate rapide, a creare un ventaglio policromo che riverbera le tinte accese della solare Sicilia. A pag. 58 c'è pure la breve pacata descrizione di una attrezzatura tecnica: "questa è una cassetta di colori a olio. Ci sono i pennelli, la tavolozza, la trementina, e il bianco è un tubo grosso grosso, il doppio degli altri".
Come tutti sanno, Guido D'Anna è titolare, col fratello Giuseppe, dell'omonima Casa editrice (fondata dal padre Giacomo), alla quale ora collaborano anche i figli-nipoti: una impresa che non solo si è benissimo affermata in estensione e in profondità nel settore scolastico, ma che ha dato vita a collezioni anche di alto pregio scientifico (pensiamo qui almeno alla "Biblioteca di cultura contemporanea", ricca di titoli che hanno inciso nel dibattito non solo letterario del nostro tempo).
Fiore all'occhiello della Casa è ora il D.I.R. (Dizionario italiano ragionato), uscito nel 1988: un'opera di spiccata originalità che, fra l'altro, non disponendo i lemmi nel tradizionale meccanico ordine alfabetico come sparse monadi ma aggruppandoli razionalmente concatenati in organiche famiglie, documenta - per la prima volta in modo sistematico - l'affiatato mirabile intreccio di parentele, ascendenze e discendenze che anima la vita fantasmagorica della nostra lingua. Angelo Gianni è stato il provvidenziale e geniale regista di questa realizzazione.
Tornando ora a Un anno viceversa, diciamo subito che sarebbe uno sbaglio leggere questo libro nella mera chiave del racconto sentimentale o della rievocazione divertita: tale cifra certo non manca, ma sarebbe semplificatorio ritenerla dominante. Infatti, quest'opera possiede anche uno spessore esistenziale, composto di varie valenze.
D'Anna vi traccia ad es. un primo, e sia pure per ora provvisorio, bilancio della sua vita, con la sottolineatura di certi determinati valori che contano, quali i rapporti adolescenza-maturità, Sicilia originaria-successivo inurbamento, passato-presente, flashes dialettali...
Lo scrittore, andando ben oltre la descrizione superficiale quale potrebbe apparire a un lettore frettoloso (si possono leggere frasi disarmanti, per non dire tautologiche, come questa: "per conciliare il sonno, è bene ricordare soltanto cose piacevoli", p. 38), intride i diversi momenti narrativi di significante sostanza umana e poetica, conferendo via via ad essi l'essenza di paesaggi dell'anima, di interpretazioni della realtà: si veda quel fitto sfilare di colori e odori, di spazi marini celesti collinari, di aria di sole di luce, quella multicolore successione di stagioni (con un settembre tenacemente estivo che tarda a passare la mano alla brutta stagione).
Certi "ritratti" non sono dimenticabili: Pidocchia, miserabile straccione, ma con la giacca "piena di medaglie e di nastrini militari", monarchico impenitente, rifiuta l'elemosina di chi vorrebbe indurlo a gridare "abbasso la monarchia", salvo poi a destramente acchiappare "le tre lire" continuando a inneggiare al suo re (cfr. pp. 116-117).
A donna Vittoria "è morto il marito: gli si sono turciniate le budella e m'ha lasciata sola e derelitta ( ... ). Le dita sformate dall'artrite; le labbra ripiegate, perché le mancano i denti sopra e sotto ( ... ). Donna Vittoria lastimìa sempre. La sua bocca sembra non abbia sorriso mai. Finu a quannu c'era me mariteddu una donna felice ero: mugghieri e matri felice ( ... ). Megghiu murìri chi suffrìri ( ... ). Mio marito è in paradiso ( ... ). Se m'ammazzo vado all'inferno, e come posso stare senza di lui? ( ... ). Mangia ( ... ). Ne volete ancora, donna Vittoria? No, non mi voglio abituare male; hannu a passari sette jorna. Poi prende la trùscia e va via (pp. 161-162).
Descrizione - questa - più articolata e dettagliata rispetto a quella di Pidocchia, e grammaticalmente tutt'altro che ortodossa: qualche lampo d'un lieto passato è subito spento dalla pesante infelicità della condizione odierna, certe locuzioni svariano dalla terza alla prima persona, lingua italiana e dialettale curiosamente s'incrociano.
Ciò vuoi forse evidenziare la china di disarticolazione fisica e morale su cui Vittoria sta ormai procedendo.
La penna di D'Anna peraltro, secondo che le esigenze narrative lo richiedano, sa operare opportuni trapassi: alla raffigurazione di persone (come le due ora riferite) immediatamente aderente al vero, ove alla veloce semplificazione dei dati psicologici corrisponde l'asciuttezza d'abbozzo dei loro connotati fisici, il nostro autore alterna rappresentazioni di fattura levigata, lessicalmente e sintatticamente curate e precise: è il caso (p. 128) di quella "casa giallo chiaro" (D'Anna ha studiato architettura) "poggiata su una collina tutta zolle dure e faticose", con quei "ciuffi d'erba nelle connessure dei mattoni malfermi" e con quel giardino "inselvatichito e pieno di fiori grandi rossi e bianchi ronzanti di vespe e calabroni"; e suggestivo è anche quel "silenzio (che,) esaltato dal tacere improvviso delle cicale, dilaga" (p. 130).
Anche quei non rari richiami ad angoli del firmamento noi li interpretiamo non come pezzi di formalismo illustrativo, ma come voci di genuina ancorché discreta poesia: "da lassù vedo tutto il paese: i tetti rossi, la cupola della chiesa madre ricoperta di mattonelle verdi, smaltate, contro il cielo azzurro" (p. 58); "il sole disegna una fetta sul muro" (p. 83); "il cielo si riempie di stelle. Verranno a prenderci ( ... ).
Tre giorni pieni di sole, di solitudine, di sgomento, e tre notti piene di stelle e di speranze" (p. 84); "il cielo là è scuro, in alto è chiaro, ad ovest giallo rosso e viola. le ombre non ci sono più" (p; 131): a nostro avviso si tratta non già di sparse tessere d'un mosaico superficialmente decorativo, ma di vibrazioni - apparentemente dimesse - d'una commossa vita spirituale, in quanto agli esterni dati naturalistici richiamati dal Nostro fanno da eco, appunto, palpiti d'anima.
Del resto, a evitare il pericolo che il discorso si sfilacci sulla pista scivolosa d'un limbo estetizzante, sta la presenza d'una ricorrente misura di veristica concretezza (di cui abbiamo già fornito qualche caso), spesso tranquilla e innocua ma non per ciò inefficace: "portatevi da mangiare: l'uovo con il cartoccino di sale, il pane, il formaggio" (p. 39). Verismo assicurato anche dal frequente (mai stucchevole, però) intervento di battute in vernacolo siculo (cui già abbiamo fatto cenno): ma il lettore deve collocare ciuciulena (p. 52) e petrafénnula (p. 53), paloggiu strùmmula firriàri (p. 130) ecc. nei rispettivi contesti descrittivi se vuole cogliere appieno i valori semantici e le risonanze espressive trasmesse appunto da quegli innesti dialettali. Attenzione, Guido D'Anna non bara mai: non presume di esibire trame biografiche o storiche o romanzesche o meditazioni complesse e inusitatamente profonde; vuole invece, più semplicemente ma con autenticità, proporci una specie di taccuino d'appunti, in apparenza senza un centro, ma in realtà collegati fra loro dalla comune volontà di riflettere sul reciproco rimbalzare fra ricordi e storia, su quel quasi rocambolesco viceversa, titolo appunto d'un libro che - per le ragioni sopra indicate - sarebbe assai errato deprezzare come evasivamente memorialistico.


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