§ Una cittą senza popolo

Futuri qualunquisti?




Giuseppe De Rita



Non c'è bisogno di sondaggi d'opinione, basta uno sguardo ai compagni d'ingorgo per avvertire che noi, popolo delle città, siamo un popolo rassegnato e miracolato insieme: la rassegnazione viene dalla consapevolezza del carattere tutto oggettivo della fragilità delle metropoli italiane; il senso del miracolo viene dalla sorpresa che alla fine non succede nulla di tragico, mai una rottura radicale della situazione, solo un assestamento continuato alla fatica di vivere in città.
C'è anzitutto, nel nostro sentirci rassegnati e miracolati, la crescita di consapevolezza che le metropoli sono "oggettivamente" fragili. Di solito, specie in questi ultimi anni, abbiamo dato le colpe ad una pretesa debolezza "soggettiva" delle nostre città, alle difficoltà del governo comunale, alla inadeguatezza delle classi politiche locali, al vanificarsi ricorrente delle giunte, alla mediocrità dei sindaci, alle ambiguità delle leggi (elettorali e no) di governo dell'area metropolitana. E abbiamo di conseguenza polemizzato quasi esclusivamente su queste debolezze di gestione.
Ci cominciamo invece ad accorgere che la fragilità urbana è prevalentemente oggettiva; a crearla, cioè, sono l'antica struttura urbanistica delle città italiane, la loro rapidissima esplosione demografica, la loro subalternità di fronte all'esplosione dell'automobile, la loro frammentazione funzionale (fatta di tante e diverse attività economiche e sociali), l'erraticità dei loro flussi di mobilità, la pratica impossibilità di una loro ristrutturazione anche quotidiana (si pensi alle situazioni tragiche create nei cantieri di lavoro anche piccolissimi).
Certo, i governanti hanno le loro colpe, ma il popolo delle città comincia a non addossare a loro tutto il disagio che deve sopportare. I problemi sono più grossi del sindaco e forse di tutti noi, rassegniamoci; questo sembra il clima psicologico di questa nostra epoca.
La coscienza dell'estrema fragilità oggettiva delle città si accompagna del resto alla rassicurante sensazione di essere miracolati. Basterebbe un incidente ogni centomila chilometri di movimento automobilistico per mandare in tilt una città; basterebbe un'interruzione di dieci minuti di elettricità per avere il panico urbano; basterebbe uno sciopero dei trasporti annonari per risentirci in clima di guerra; basterebbe uno sciopero duro della nettezza urbana per superare il livello di guardia della sporcizia collettiva. E invece, tutto sembra oliato e funzionante, viviamo in una precarietà che ha del miracoloso, costantemente al di qua della soglia della rottura, e che quindi ci teniamo ben stretta.
Vivere rassegnati e miracolati in una precarietà urbana. Questa sembra essere la prospettiva mentale con cui il popolo delle città si avvia a vivere i prossimi anni. I nostri drammi, quelli che ci coinvolgono emotivamente, sono del resto sempre meno legati alla comunità; tornano a riprender peso i problemi e i dolori personali, familiari, di relazione individuale, dove l'invivibilità della città ha peso solo indiretto. Perché allora prendersela con la invivibilità delle metropoli e con il loro sempre più mediocre governo? la domanda non è peregrina: in effetti si profila la possibilità di un qualunquismo urbano, di un disimpegno verso le cause dell'invivibilità delle città.
Chi tenta l'enfasi su tali argomenti rischia di restare spiazzato, contrariamente a quanto è avvenuto fino a qualche anno fa. il disagio umano di chi vive in città è sempre più un fatto dei singoli e sempre meno un fatto di popolo.
Forse anche in questa luce va visto lo scarso interesse del mondo cattolico: essendo quello che vive a più diretto contatto col disagio, e spesso col dolore delle città, tale mondo capisce che non basta più l'azione politica e il rinnovamento del governo metropolitano, ma occorrono interventi diretti, fatti in proprio, e con grande coinvolgimento umano. Tutto il contrario della delega politica, fosse pure di seconda lista; avremo quindi sempre più sinodi diocesani di impulso sociale e pastorale, e sempre meno partecipazione alle campagne elettorali.
Coscienza della fragilità oggettiva delle città, qualunquismo rassegnato e disimpegnato di fronte alla politica, ricerca di nuove piste di impegno nel sociale: questi, i tre fattori che stanno sottilmente cambiando il modo di ragionare sul governo delle città. Ne sentiremo i passi ulteriori, pur se silenziosi, nei mesi futuri.

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