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Ma la cittą č ancora un bene comune |
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J.
Comblin
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Forse
il problema consiste nel fatto che la città contemporanea, la
megalopoli, non ha più uno spettacolo da dare a se stessa, non
ha più vita civica, vita collettiva, I due aspetti del problema
sono legati: senza l'anima della città non c'è possibilità
di costruire un centro, ma senza il centro non c'è la vita della
città. Una cosa è certa: se i centri spariscono o si trasformano
in quartieri amministrativi o commerciali, o peggio in musei, come nelle
vecchie città europee, la città è condannata a
morire.
Non si può credere che i mezzi di comunicazione di massa, che sono dei mezzi di contatto a distanza, possano sostituire i centri. Questi mezzi danno degli spettacoli inerti, nei quali gli uditori e gli spettatori non sono in alcun modo attori. La città è invece uno spettacolo in cui ciascuno deve assumere il suo ruolo. I mezzi di diffusione di mossa inculcano l'idea che la città è opera dell'amministrazione, cioè della forza magica degli uomini che la presiedono, inducono alla sottomissione passiva, alla burocrazia. Quando si tratto di quella funzione umana, globale e concreta, che è la città, bisogna che ci sia il contatto concreto e la partecipazione concreto. Non invano i greci esigevano la presenza fisica dei cittadini alle assemblee... Gli Stati moderni hanno privilegiato le loro capitali e reso "provinciali", cioè tristi e piatte, le altre città; hanno fatto delle capitali i luoghi dei grandi spettacoli nazionali: parate militari, feste, rivoluzioni e colpi di stato. Tali spettacoli però non servono che a inebriare le folle, a ispirare il rispetto per la potenza dello Stato. In questi casi lo Stato ha ucciso la città, perché in fin dei conti lo spettacolo che le città devono darsi è quello della loro libertà e della loro autonomia, il dramma che devono recitare è l'esercizio della libertà. La città, in ultima analisi, è l'incarnazione di quello che la tradizione teologica medievale chiamava il bene comune. Essa è il bene comune materialmente presente. |
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