Ormai non si fa
più un'osservazione importante: quella sul paradosso costituito
dal fatto che l'immigrazione dal Terzo Mondo cade, in Italia, in un
Paese in cui si dà per scontato che vi siano più, e
non meno, di un milione e mezzo di disoccupati "ufficiali".
Invece, è un'osservazione che va sempre fatta. Essa ci dice
che quella immigrazione non è dovuta nel caso dell'Italia,
ad una mancanza di braccia da lavoro; ci dice che è dovuta
ad un mutamento di mentalità: gli italiani non accettano più
di compiere determinati lavori, perché faticosi o inferiori
o per altra ragione. Se fosse dovuto a mancanza di braccia, nel prossimo
ventennio dovrebbe riguardare soprattutto il Nord, dove il deficit
demografico va facendosi sempre più rilevante. Poiché
è dovuta ad un elemento socio-culturale, riguarderà,
invece, il Sud come il Nord: anche se vi sono più nascite,
nel Sud i lavori via via assunti dagli immigrati saranno rifiutati
(è facile prevederlo) domani ancora più di oggi.
E questo punto, che nessuno sembra percepire, è fondamentale
per l'azione meridionalistica. Vuoi dire che bisognerà fare
spazio in questa azione ad un Sud che continuerà a rifiutare
certi lavori e ad accogliere per questi lavori (e, alla rinfusa, un
po' per tutto) gli immigrati di colore.
Poiché lo scarico di manodopera meridionale al Nord, dove ce
n'è bisogno, non sembra voler più assumere le dimensioni
che spontaneamente ebbe negli anni '50 e '60, e poiché i coloureds
possono ora assicurare essi la manodopera integrativa necessaria al
Nord, è facile capire quali dimensioni debbo assumere lo sviluppo
del Sud, se non si vuole che esso resti un ghetto assediato tra l'inevitabile
afflusso dal Terzo Mondo e il definitivo cadere di ogni interesse
per quella che finora è stata la sua carta più forte,
ossia la sua manodopera. Ridiventerebbe subito attuale (ma diciamo
la verità: è già terribilmente attuale oggi)
il deprecato consiglio di De Gasperi: emigrare.
Il formarsi in Italia di una demografia multicolore è il segno
- al Nord, ma anche al Sud - della maturazione di un Paese più
moderno. Invidiavamo Parigi e Londra perché il loro carattere
di metropoli internazionali si rivelava già fisicamente nelle
strade per la presenza di tanta popolazione di colore. Vogliamo ora
dolerci che questa internazionalità si affermi anche in Italia?
E ciò, senza contare il rafforzamento demografico indispensabile
che da I l'immigrazione viene all'economia italiana nel momento in
cui essa si accinge a imboccare una strada di popolazione decrescente.
Il razzismo è stupido anche per la sua incapacità di
rendersi conto di questi dati di fatto elementari.
Ciò premesso, è anche chiaro, però, che all'immigrazione
non si può guardare con la faciloneria demagogica che continua
ad imperversare in materia. Già si parla di voto amministrativo
agli immigrati, quando il fenomeno immigratorio è da noi ancora
troppo recente e ancora troppo poco integrato perché si adottino
soluzioni maturate altrove dopo una assai meno tempestiva sedimentazione.
Già si parla di mantenere inalterato la pratica libertà
di afflusso oggi in vigore, mentre un controllo di essa si rende necessario
nell'interesse, soprattutto, degli stessi immigranti. Già si
parla di fornire servizi e strutture che l'amministrazione italiana
è a tutt'oggi lontanissima dall'essere capace di assicurare
agli stessi italiani.
Questi, ed altri, sono temi scottanti, a cui occorre guardare con
realismo e coraggio. A nostro avviso, l'immigrazione è un capitale
prezioso; se lo amministreremo bene, noi e gli immigrati, dardi grandi
soddisfazioni e vantaggi a noi e a loro, e farà dell'Italia
un Paese più moderno, più complesso, più maturo.
Bisogna puntare su responsabilità, moralità, accortezze.
E' un dovere che abbiamo verso la grande realtà umana dell'immigrazione
e che abbiamo innanzitutto (non ce lo dovremmo mai dimenticare) verso
di noi e verso i nostri figli. E', appunto, una "spinta da governare".