Immigrati e sviluppo del Sud




Giuseppe Galasso



Ormai non si fa più un'osservazione importante: quella sul paradosso costituito dal fatto che l'immigrazione dal Terzo Mondo cade, in Italia, in un Paese in cui si dà per scontato che vi siano più, e non meno, di un milione e mezzo di disoccupati "ufficiali". Invece, è un'osservazione che va sempre fatta. Essa ci dice che quella immigrazione non è dovuta nel caso dell'Italia, ad una mancanza di braccia da lavoro; ci dice che è dovuta ad un mutamento di mentalità: gli italiani non accettano più di compiere determinati lavori, perché faticosi o inferiori o per altra ragione. Se fosse dovuto a mancanza di braccia, nel prossimo ventennio dovrebbe riguardare soprattutto il Nord, dove il deficit demografico va facendosi sempre più rilevante. Poiché è dovuta ad un elemento socio-culturale, riguarderà, invece, il Sud come il Nord: anche se vi sono più nascite, nel Sud i lavori via via assunti dagli immigrati saranno rifiutati (è facile prevederlo) domani ancora più di oggi.
E questo punto, che nessuno sembra percepire, è fondamentale per l'azione meridionalistica. Vuoi dire che bisognerà fare spazio in questa azione ad un Sud che continuerà a rifiutare certi lavori e ad accogliere per questi lavori (e, alla rinfusa, un po' per tutto) gli immigrati di colore.
Poiché lo scarico di manodopera meridionale al Nord, dove ce n'è bisogno, non sembra voler più assumere le dimensioni che spontaneamente ebbe negli anni '50 e '60, e poiché i coloureds possono ora assicurare essi la manodopera integrativa necessaria al Nord, è facile capire quali dimensioni debbo assumere lo sviluppo del Sud, se non si vuole che esso resti un ghetto assediato tra l'inevitabile afflusso dal Terzo Mondo e il definitivo cadere di ogni interesse per quella che finora è stata la sua carta più forte, ossia la sua manodopera. Ridiventerebbe subito attuale (ma diciamo la verità: è già terribilmente attuale oggi) il deprecato consiglio di De Gasperi: emigrare.
Il formarsi in Italia di una demografia multicolore è il segno - al Nord, ma anche al Sud - della maturazione di un Paese più moderno. Invidiavamo Parigi e Londra perché il loro carattere di metropoli internazionali si rivelava già fisicamente nelle strade per la presenza di tanta popolazione di colore. Vogliamo ora dolerci che questa internazionalità si affermi anche in Italia? E ciò, senza contare il rafforzamento demografico indispensabile che da I l'immigrazione viene all'economia italiana nel momento in cui essa si accinge a imboccare una strada di popolazione decrescente.
Il razzismo è stupido anche per la sua incapacità di rendersi conto di questi dati di fatto elementari.
Ciò premesso, è anche chiaro, però, che all'immigrazione non si può guardare con la faciloneria demagogica che continua ad imperversare in materia. Già si parla di voto amministrativo agli immigrati, quando il fenomeno immigratorio è da noi ancora troppo recente e ancora troppo poco integrato perché si adottino soluzioni maturate altrove dopo una assai meno tempestiva sedimentazione.
Già si parla di mantenere inalterato la pratica libertà di afflusso oggi in vigore, mentre un controllo di essa si rende necessario nell'interesse, soprattutto, degli stessi immigranti. Già si parla di fornire servizi e strutture che l'amministrazione italiana è a tutt'oggi lontanissima dall'essere capace di assicurare agli stessi italiani.
Questi, ed altri, sono temi scottanti, a cui occorre guardare con realismo e coraggio. A nostro avviso, l'immigrazione è un capitale prezioso; se lo amministreremo bene, noi e gli immigrati, dardi grandi soddisfazioni e vantaggi a noi e a loro, e farà dell'Italia un Paese più moderno, più complesso, più maturo. Bisogna puntare su responsabilità, moralità, accortezze.
E' un dovere che abbiamo verso la grande realtà umana dell'immigrazione e che abbiamo innanzitutto (non ce lo dovremmo mai dimenticare) verso di noi e verso i nostri figli. E', appunto, una "spinta da governare".


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