Paure
del secolo che fugge
E' solo passato
un altro millennio
Meno dieci. E poi, quale sarà il mondo abitato da Jonas che
"avrà vent'anni nel Duemila"? "Il cibo che inghiottiamo
pare vieppiù avvelenato, l'erba inaridisce, e una terribile
pestilenza, sino a ieri ignota, si è diffusa per tutto l'orbe
conosciuto, sì che innocenti e peccatori ne muoiono, come se
il loro corpo non fosse in grado di opporre resistenza ai miasmi che
l'invadono": così, il semiologo romanziere Umberto Eco,
che annota "inorridito, i segni indubitabili che annunciano il
declino del secolo" con un tono che avrebbe decisamente scoraggiato
il regista svizzero Alain Tanner nel dar vita alla sua speranzosa
creatura; un tono tanto prossimo invece a quello adoperato una decina
di secoli prima da Rodolfo il Glabro in Cronache dell'anno Mille.
Guerre, catastrofi, epidemie, orrori, sangue. follia, l'apocalisse:
scarse e impercettibili le differenze tra la carestia della Borgogna
raccontata da quel cluniacense colto e sottile più di un teologo,
dai modi rozzi e grevi peggio di un contadino e -tanto per fare un
esempio, assolutamente non unico - la tragedia del Libano scandita
con quotidiana puntualità. E forse la tremenda carestia dell'anno
1033, descritta dal nevrotico e psicopatico Rodolfo, ebbe colori meno
forti dell'allarme lanciato un anno fa dal Rapporto del World Watch
Institute di Washington, secondo il quale sul mondo ricco, opulento,
ingordo e consumistico pende addirittura la spada di Damocle della
fame?
Meno dieci. E poi sarà il Duemila. Atteso, temuto, studiato,
evocato, sondato: ecco il secondo millennio che sopravviene; magari
è già cominciato e l'umanità si affretta a catalogare
e inventariare idee, progetti e conquiste per riempire la sua Arca
di Noè, o la fregata con la cui immagine Herman Melville conclude
il suo Giacchetta bianca: o il mondo di un uomo in guerra, uno scafo
che si è lasciato per sempre alle spalle il suo porto e naviga
verso una meta sconosciuta con gli ordini di rotta sigillati in una
busta? Insomma, come porsi di fronte a questa scadenza epocale? Con
gli occhi comunque fiduciosi della ragazzina Clo del Diario di un
millennio che fugge, di Marco Lodoli, o con quelli preoccupati del
filosofo Massimo Cacciari, il quale, lavorando ad una summa teologica
sulla vita eterna, pare essere arrivato alla glaciale conclusione:
"Anche se potessimo inventarci strade per far fronte alle contraddizioni
in cui siamo impantanati, questo non avrebbe niente a che vedere con
la salvezza"?Certo, la lava eruttata ad intermittenza dall'Etna,
i terremoti di San Francisco, della Cina e dell'Armenia, l'ozono che
si lacera. L ' Aids galoppante sembrano segnali di un destino triste
e sconsolato, senza plausibili margini di recupero. Ma non era stato
proprio Cacciari a stigmatizzare come "la disastrologia contemporanea
soprattutto nelle sue versioni millenaristiche nere, [ ... ], tutte
strumentalmente rivolte a impedire che i late comers sperino in ciò
di cui il Nord ha già largamente goduto, si limita a enfatizzare
il lato distruttivo della catastrofe"?Lo aveva fatto in un saggio
titolato proprio Catastrofi e contenuto nel numero settembre- dicembre
'81 della rivista Laboratorio politico, dedicato al tema suggestivo
"Catastrofi e trasformazioni".
Ad aprirlo era appunto la scena melvilliana di Giacchetta bianca citata
da Giacomo Marramao, che poi notava: "L'angoscia del disordine
e del deperimento energetico del sistema si è venuta imponendo
nella teoria sociale contemporanea con l'ingresso della categoria
di irreversibilità. Ma nelle scienze umane, a differenza di
quelle naturali, questo esordio aveva coinciso con il prevalere di
un'assunzione ottimistica circa il futuro; con i fasti delle idee
di progresso e di tempo storico lineare; con la fiducia nella infinito
perfettibilità evolutiva dell'organizzazione sociale".
Era la teorizzazione del valore maieutico della catastrofe, non più
una rottura irrimediabile dell'ordine costituito, ma il punto di crisi
positiva da cui far nascere un nuovo, migliore equilibrio: però
mai definitivo, anzi aperto - diceva Marramao - "al possibile-imprevedibile",
disponibile "ad accogliere un ospite inatteso".
Significava imparare a navigare in mare aperto, un po' Melville e
un po' Nietzsche, viandanti e non viaggiatori verso una meta, perché
una meta prefissata non esiste e non può esistere; era la filosofia
di chi decideva di vivere, e mai slogan apparve così deciso
e reale, col terremoto.
E oggi che cosa è successo per portare Cacciari, sostenitore
autorevole di questa riflessione, a militare nel partito dei "millenaristi",
nel movimento di chi osserva e interpreta l'emergenza ambientale come
una catastrofe prossima ventura, i terremoti e gli sconquassi della
natura come avvisaglie di una terribile apocalisse? E' probabile che
proprio l'aggravarsi della situazione del pianeta terra, l'avvelenamento
del suo eco-sistema abbiano praticamente annullato il discrimine tra
scienze umane e scienze naturali, realizzando una tale interconnessione
pessimistica da far affermare a Sergio Quinzio: "Se l'inquinamento
dell'aria cresce, se la siccità e le inondazioni sembrano seguirsi
senza più regole, se le foreste scompaiono e il deserto avanza,
se il buco d'ozono si allarga, tutto insieme incalzando, siamo davvero
sicuri che a tutto questo esista un rimedio a portato di mano, da
applicare concordi a tutto il pianeta entro i tempi brevi in cui sarebbe
necessario? Credo che sia lecito, anzi doveroso dubitarne".
Gettata come un fiammifero in un pagliaio, la preoccupazione di Quinzio
ha avuto l'indubbio merito di portare allo scoperto un dibattito altrimenti
celato da pudori mistici e religiosi, sommerso in un ambito di paure
intime e profonde.
Tutti d'accordo con lui? Neanche per idea. Il fisico Carlo Bernardini
ha definito il catastrofismo "la malattia infantile dell'ambientalismo".
Vigile anche Luciano Gallino: "Occorre resistere alla tentazione
di arrendersi dinanzi ai problemi dell'ambiente, le risorse che abbiamo
oggi non sono mai state così grandi". Perplesso Norberto
Bobbio: "La fiducia
del progresso inarrestabile che aveva ispirato per secoli le filosofie
della storia dell'Occidente è esaurita". Critico Franco
Fortini, il quale vede nell'insorgente neomillenarismo la tendenza
a convincere che sia "meglio credere che tutto finisca piuttosto
che rischiare il cambiamento" e, citando Ernesto De Martino,
ricorda come l'antropologo della fine del mondo abbia indicato nello
stare accanto alla morte ogni giorno la via d'uscita dalla condizione
del servo. il quale si consola con i miti della catastrofe.
Sbagliato: è invece necessario esaltarsi nel "momento
di Spartaco, che non perde mai del tutto, né dimentica la propria
condizione servile se vuole essere di aiuto ai propri compagni e riceverne".
In altri e meno metaforici termini: se degrado c'è, e c'è
ed è pure gravissimo, chi si rifugia nelle visioni apocalittiche
e millenaristiche lo fa per evitare di confrontarsi con la estrema
difficoltà del presente, di distinguere colpevoli e vittime,
di cercare di individuare responsabilità e riscattarsi. Quindi,
per rimanere in un lessico materialista, il catastrofismo non sarebbe
soltanto la malattia infantile dell'ambientalismo, ma pure un nuovo
oppio dei popoli oppressi.
Ma fissato tutto questo, il mondo comunque pare cadere a pezzi ora
dopo ora, con una destabilizzante progressione che non sembra dare
spazio ad istanze di trasformazioni positive; e dalle pieghe spuntano
filosofie della crisi dal valore non precisamente maieutico come quella
spiegata da Marramao; vengono fuori il neo-cinismo, il pragmatismo
più minuto, l'utilitarismo esasperato.
E' l'invito a comportarsi come nella canzone di Prince, "1999":
festeggiare fino alla follia l'ultimo atto del secondo millennio,
perché tanto il terzo non si riuscirà nemmeno ad attingerlo.
Torna la sindrome di Rodolfo il Glabro e delle sue Cronache.
le quali però nascondevano un minimo di tensione verso l'avvenire,
quando si chiudevano con la descrizione della primavera del mondo
futuro: "Pareva che la terra stessa, scrollandosi e liberandosi
della vecchiaia, si rivestisse di un candido manto di chiese".
Tensione condivisa da Eco, che vede "il sorgere di una Terza
Età, di quella più santa e migliore". lui l'ha
vista. Chi altro?
Convivere con
il crash
La storia si ripete. Le edicole che sono di fronte a Wall Street,
la strada più famosa del mondo che collega un fiume (tutto
scorre) con un cimitero (tutto finisce), ancora ansimante per lo scampato
pericolo dopo la caduta del venerdì 13, e sempre incerta sul
futuro, esponevano la copertina del settimanale U.S. News, datato
16 ottobre, con le previsioni di Elaine Garzarelli sulle prospettive
della Borsa. Nel 1987, la Garzarelli guadagnò fama mondiale
per avere incitato, in diretta televisiva, gli investitori ad uscire
da Wall Street, giusto prima del crollo del "lunedì nero".
Come amava dire Andy Warhol, nel '900 la fama dura in media quindici
minuti: l'imbarazzante settimanale, chiuso in tipografia prima di
venerdì, consegnò alla storia la nuova previsione della
Garzarelli: "Il mercato a quota 3100 e una valanga di soldi a
Wall Street".
Non esattamente quel che si verificò; ma d'altronde la ricciuta
guru era in buona compagnia. Il sofisticato mensile The Atlantic,
autentico forum delle idee d'America, dedicava la copertina di ottobre,
con incerto tempismo, all'"Arrivo del boom mondiale". Usando
come chiave d'interpretazione del presente le teorie dell'economista
austriaco Joseph Schumpeter, Charles Morris, specialista in take over
alla Devonshire Partners. annunziò: "Stati Uniti e mondo
sono sulla soglia di un boom economico senza precedenti, per intensità
e durata".
Nel vorticare delle previsioni e di fronte a un mercato che si agitava
alla velocità del computer, come si poteva vivere col crash,
come potevano aziende e investitori singoli, lavoratori e finanzieri,
imparare ad agire in un'economia mozzafiato come un ottovolante? La
risposta non si trovò nelle newsletters petulanti che facevano
il giro del mondo a caccia di quattrini. Venne voglia di cercarla
lontano dal clamore del floor di Wall Street, tra l'edera del campus
di Yale, dove James Tobin, premio Nobel per l'economia, guardava tutto
con il distacco di uno degli ultimi Grandi Vecchi della teoria economica:
"Wall Street? Non so più capirla, non so spiegarla".
Ci abbandonava anche questo serissimo professore?"No, è
che mi interessa sempre meno, perché è un mercato irrazionale,
affollato da speculatori che non hanno né cuore né cervello
per l'economia reale". Ma non è tornato Schumpeter? "Mi
pareva fosse morto da quarant'anni. Il mercato cade nel 1987, ricade
nel 1989 e la vita continua.
Non arrivo a dire che Wall Street abbia perduto ogni contatto con
la realtà, ma di certo la febbre dei take over, la rincorsa
degli speculatori non ha riflessi immediati sulla vita della gente".
Come possiamo spiegare ai nostri lettori che devono convivere con
il crash?"Dite loro: se è vero, come hanno scritto i giornali,
che venerdì 13 è stato innescato dallo sgonfiarsi dell'affare
sull'United Airlines, bene, il valore reale della United come compagnia
che possiede aerei e che copre certe rotte è quello che è
in termini economici. Può essere un po' più valutato,
o un po' meno, ma senza gli isterismi della Borsa. Il resto è
gioco di carta tra gli speculatori e ha un valore relativo. Se non,
negativamente, per quel che dice della politica e dell'economia del
mio Paese".
Chi fosse stato tentato di fare spallucce, pensando al solito Grillo
Parlante accademico con premio Nobel nel cassetto, doveva confrontare
le dichiarazioni al Corriere di Tobin con quelle rilasciate al Wall
Street Journal da John Akers. Il presidente della Ibm: "Al giorno
d'oggi, il mercato vive di vita propria. Non c'è nulla di razionale
in vicende tipo il venerdì 13".
Se la Borsa è un jolly imprevedibile, ecco la prima spiegazione
delle selvagge contraddizioni che hanno diviso e continuano a dividere
gli esperti. Guru tipo la Garzarelli, cui pure milioni di investitori
hanno guardato con ammirazione, ormai tendono sempre più spesso
a cercare la "sparata" personale, per poi poter gridare:
"L'avevo detto, io!". Se il 1987 fu appannaggio della Garzarelli,
fu il redivivo Joseph Granville, l'uomo che una volta faceva muovere
il mercato con la sua Granville Market Letter, a far centro quel venerdì
13: "Ho portato chi mi ascolta fuori dal mercato alla fine di
agosto", esclamò felice dalla sua casa di Kansas City.
La fine di agosto suonò subito dopo a Wall Street con la nostalgia
per lo scudetto di una squadra in zona retrocessione. Borsa a 2728.
Capitali all'estero a pioggia. Take over ancora di gran moda. Speculatori
fiduciosi. Poi venerdì 13. Mentre l'ottovolante correva veloce,
gli ottimisti facevano notare che la ripresa del lunedì non
era stata negativa."Abbiamo imparato la lezione del 1987",
era il ritornello che tutti ripetevano a Wall Street, "il freno
dei computers ha funzionato, la Federal Reserve ha agito con acume
garantendo il credito e l'anticipo di due ore degli affari ha dato
modo ai nervi del mercato di sfogarsi senza drammi".
"C'è stata garanzia nella liquidità - osservava
Paolo Glisenti del Worldwide I. Network - e il panico si è
limitato, al contrario del 1987. Parecchi investitori si sono ricordati
dei buoni affari realizzati da chi due anni fa ha avuto il sangue
freddo di comprare". Ma, dopo il sollievo, di nuovo le preoccupazioni;
proprio come i gitanti in ottovolante, che cambiano faccia quando
il camioncino riprende, cigolando, la sua salita verso la prossima
discesa. Glisenti ricordava lo scetticismo che si diffondeva tra i
giapponesi, riottosi da quel momento nel finanziare i take over. Il
presidente americano di una grande azienda diceva sottovoce: "Se
io fossi un investitore a Wall Street mi farei un esame di coscienza,
perché non è ancora finita". "Solo la fortuna",
a giudizio della Washington Post, aveva impedito guai peggiori il
lunedì successivo. "La banca Centrale può isolare
l'economia dagli shock della Borsa, ma non può fare il contrario".
E i numeri del mondo reale cominciavano ad addensarsi sul mondo di
carta: 2.000 miliardi di dollari di indebitamento delle aziende Usa,
quasi quanto il debito federale, entrambi più veloci del prodotto
nazionale, analizzava Morgan Grenfell. Con produzione e produttività
in calo. E col debito estero che sfiorava, inatteso, gli undici miliardi
di dollari.
Ottimisti e pessimisti a bordo dell'ottovolante differivano esattamente
su questa interpretazione: fino a quando il mercato globale riuscirà
a finanziare lo scarto tra produzione e Borsa? "Invece che di
Wall Street - diceva imperterrito Tobin, con una punta di rimprovero
per il cronista - dovremmo parlare di deficit federale, di un Paese
che si ostina a non raccogliere più tasse e a lasciar deperire
i propri servizi e le proprie infrastrutture. Se il venerdì
13 è servito a far scendere la febbre dei take over, potrebbe
essere persino un buon segno". "Un dollaro investito in
Borsa nel 1926 ne ha fruttati 473,29; uno in Buoni del Tesoro 9,29",
ribatteva l'esperto Laurence Siegel in difesa del mercato. Restava
da capire come mai l'ansia per i titoli preda di take over si fosse
diffusa velocemente ad altri.
Se il contagio restava così micidiale, convivere tra Orso e
Toro diventava complicato. Bastava il rifiuto di una banca a finanziare
l'ennesima compravendita di una compagnia aerea a mettere a soqquadro
Wall Street? Venerdì 13 l'isteria aveva prevalso; lunedì
aveva dominato la calma; ma di fatto di mercato - malgrado i freni
sui computers e la proverbiale prudenza di Alan Greenspan alla Federal
Reserve - restava cagionevole. C'era chi scommetteva sul rialzo a
breve-medio termine del titoli, contando su investitori globali che
avessero ancora liquido in tasca e fiducia in cuore. Parecchi osservatori
temevano invece che si trattasse di una specie in via di estinzione
ed esortavano chi entrava nella Borsa da solo, con i propri risparmi,
a stare alla larga dai junk bonds, i "titoli spazzatura",
(le azioni per finanziare i take over, ad alto rischio e ad alto profitto,
con rischio in primo piano), investire su titoli stabili e a lungo,
senza cercare di fare il surf per vendere e comprare sull'onda della
Borsa. Differenziare era la parola d'ordine per non vivere nell'incertezza:
accanto alle azioni, tenere Buoni del Tesoro e liquido. Era proprio
la teoria del portafoglio che aveva guadagnato a Tobin il premio Nobel.
Ma nella confusione c'era chi non ascoltava. L'economista indiano
Ravi Batra, che prevedeva il Grande Crack tre mesi dopo ed esortava
a tenere i soldi sotto il materasso, aveva venduto 700 mila copie
delle sue opere. Come sempre, la paura ha successo, più del
raziocinio: "L'economia è diventata metafora della vita
quotidiana -filosofeggiava Ardite Rubini, della Doubleday - e il sostituto
dello psicanalista che definisce chi siamo e come viviamo". Appunto.
Ma vallo a raccontare al parco buoi!
Dietro il muro,
l'altra Europa
Dall'America a Londra e a Parigi la domanda è la stessa: trionfo
della democrazia, vittoria dell'Occidente; e poi? Nell'"altra
Europa" l'accelerazione della storia è vertiginosa. E
sorprende. E alimenta nuove inquietudini. Tutto quel che accade costringe
gli occidentali a limitarsi - come ha scritto il Los Angeles Times
- "alla descrizione della fine di un passato, piuttosto che alla
definizione di un futuro". Dunque, afferma, il quotidiano, "è
necessario delineare il senso di una nuova visione".
Il futuro più probabile lo intravede Newsweek: "L'Occidente
non si rende conto di quel che la dissoluzione dell'impero sovietico
potrebbe rappresentare. Non è un'epoca di compiacimenti. E'
un tempo di grandi speranze, ma anche di grandi pericoli. Potremmo
trovarci in una situazione molto simile a quella del 1914, con la
possibilità di molte Sarajevo. Qualcuna, atomica. Gli esperti
che prevedono un'evoluzione di decenni fanno adesso un inventario
dei pericoli.
Polonia. le speranze
che possa salvarsi economicamente sono fievoli, poggiano quasi sul
niente. Non è l'inflazione al 4.000 per cento che spaventa,
ma le esperienze già fatte e la realtà dei meandri della
sua società. Gli aiuti cospicui che le furono dati negli anni
'70 si sono perduti nei vicoli della corruzione. Altri aiuti sono
venuti e continuano a venire adesso, ed è giusto; ma Solidarnosc
non è più unita, la sua base operaia non è più
solida, e il nuovo governo dovrà imporre sacrifici tremendi.
la popolazione, dicono gli osservatori, è stremata e si abbandona
alla sfiducia; i contadini, nelle campagne, temono le riforme; nelle
città domina l'incubo della disoccupazione inevitabile. Nascono
insieme un'estrema destra populista e una burocrazia (gli ex gerarchi
comunisti) che è la sola capace di amministrare, ed è
corrotta e, sotto nuove vesti, crea le premesse per privilegi di casta.
Tutto questo è certo il rovescio di una medaglia che ha un'altra
faccia: quella del coraggio e della democrazia riconquistata. Ma dov'è
la sicurezza del meglio?
Ungheria. Ha fatto
tabula rasa del passato, ma il futuro si sta costruendo sulla costruzione
di una nuova élite fatta dei quadri medi del vecchio partito
comunista (il partito-Stato), dei dirigenti delle grandi aziende,
di piccoli imprenditori privati, più capaci di speculazioni
che di pratiche manageriali. Si parla di uno "stalinismo democratico",
che non si sa che cosa significhi, ma che minaccia un vuoto di potere.
Un vuoto o una impossibilità di potere.
Germania Est.
Né l'Unione Sovietica né la Repubblica Democratica Tedesca
avrebbero voluto l'esodo dei profughi e il rischio del suo dissolversi.
E' rotto l'equilibrio che si basava su molti equivoci. Finita la politica
dell'attesa, qualcosa deve accadere: verso Est o verso Ovest? Comunque,
si pone il "problema tedesco" in modo nuovo; si pone il
problema di nuovi rapporti tra Comunità economica europea e
Comecon; si pone il problema di nuovi e imprevedibili rapporti tra
Patto Atlantico e Patto di Varsavia, con quest'ultimo che non garantisce
più niente, malgrado le pressioni di Mosca.
Cecoslovacchia.
Si riconosce anche qui che Dubcek fu uno spirito anticipatore e che
l'impiccagione di Nagy e dei patrioti morti sulla spinta della rivolta
partita da piazza San Venceslao furono crimini politici. Nuovi fermenti
possono portare a un'evoluzione che tolga il Paese dalla linea d'ombra
nella quale si è confinato per tutti gli anni '80.
Infine, la stessa
Unione Sovietica. Si viene a sapere ora che ciò che accade
di esplosioni nazionali, di contrasti etnici, di pressioni di fanatismi
musulmani, accadeva anche in passato, sotto Breznev. Lo si ignorava.
La glasnost non è un rimedio; essa conferma soltanto che c'è
come una tendenza alla regressione. Verso il passato: con un presente
insostenibile, con un futuro incerto. Il comunismo non ha distrutto
i demoni del passato, le antiche rivendicazioni e le vecchie, ancestrali.
tentazioni si rivelano invincibili.
Tutto questo bisogna fronteggiare. Tutto questo non può più
pesare sulle spalle del solo Gorbaciov e non ammette più una
diarchia russo-americana. Mentre pensatori vinti dall'angoscia favoleggiano
di fine della storia, la vera vittoria dell'Occidente e della democrazia
deve ancora venire. Verrà quando si potrà evitare che
le società dell'altra Europa, e non solo quelle, tornino allo
stadio originario della loro storia.
Ma è
fame per 730 milioni
Negli ultimi quarant'anni,
l'agricoltura si è trasformata radicalmente: la produzione
mondiale è quasi raddoppiata. lo sviluppo tecnologico è
stato senza precedenti. Tuttavia, il problema dell'alimentazione rappresenta
ancora una delle più gravi emergenze planetarie. Secondo le
stime della Banca Mondiale, almeno 730 milioni di persone dei Paesi
in via di sviluppo hanno una dieta insufficiente per uno standard
di vita normale; e per 340 milioni di persone la scarsità della
dieta determina una particolare vulnerabilità agli assalti
delle malattie.
La situazione più drammatica è quella di alcuni Paesi
dell'Africa e del Sud-Est asiatico. In Africa, il numero delle persone
denutrite è aumentato da 92 milioni del 1969-71 a 110 milioni
nel decennio successivo, per giungere ai 150 milioni attuali. La crisi
alimentare in Africa è vecchia di almeno un quarto di secolo:
ha avuto inizio negli anni '60, quando l'area sub-sahariana diventò
una forte importatrice di derrate alimentari. Se la situazione non
si modificherò, nel 2000 la regione dovrà importare
circa 35 milioni di tonnellate di derrate alimentari.
La situazione africana si può paragonare a quella dell'India.
I due continenti, nel '60, producevano 50 milioni di tonnellate di
cereali ciascuno. Oggi, l'india, in seguito alla "rivoluzione
verde" e ai miglioramenti tecnologici, ne produce 150 milioni.
Al contrario, l'Africa continua a produrre più o meno la stessa
quantità di allora. Per avere un'idea del basso livello di
produttività, si pensi che un contadino africano produce 600
chilogrammi di cereali l'anno, contro gli 80.000 di un contadino statunitense
o canadese: un rapporto di 133 a uno. E' vero che in Africa, dal '61
all'87, la produzione media annua è aumentata dell'1,6% (nell'84,
addirittura, del 4%); ma la popolazione è cresciuta del 2,8%.
Dunque, la produzione di alimenti, negli ultimi ventotto anni, non
è cresciuta di pari passo con l'incremento della popolazione.
In Asia, invece, la produzione di cibo, a partire dagli anni '60,
ha superato il saggio di crescita della popolazione. L'India ha raggiunto
l'autosufficienza alimentare e il governo è stato in grado
di finanziare una rete di irrigazione, un efficiente sistema di trasporti
che permette sia lo stoccaggio sia il trasferimento di cibo da Stati
come il Punjab, che ha un surplus produttivo, verso aree più
povere, come il Rajasthan o il Bihar. Tuttavia, ci sono aree come
il Vietnam, il Laos, la Birmania, il Pakistan, la stessa Cina, nelle
quali l'autosufficienza è ancora un miraggio.
Ci dice il professor Streeten, della FAO: "All'inizio degli anni
'50, lo sviluppo era considerato, soprattutto, come una questione
di crescita economica. Fu data priorità all'industrializzazione
e alle infrastrutture, che erano considerate sinonimo dì sviluppo.
Si credeva comunemente che gli alti saggi di crescita della produzione
avrebbero ridotto la povertà". l'idea era che l'industria
moderna avrebbe creato posti di lavoro per coloro che provenivano
dalla campagna e si stabilivano nelle città che cominciavano
a industrializzarsi. la povertà e l'ineguaglianza si sarebbero
quindi ridotte, come del resto era avvenuto nei Paesi sviluppati,
nei quali il settore agricolo era gradualmente diminuito a favore
del secondario e del terziario. Ma la crescita del settore industriale
a scapito di quello tradizionale non era e non è stata di per
sé indicativa di un miglioramento delle condizioni generali
di vita della gente. Tanto è vero che questo processo si sta
ripetendo nei Paesi del Terzo Mondo, i quali restano arretrati proprio
perché non hanno risolto i problemi della disoccupazione, della
povertà e dell'alimentazione. l'America latina, in questo contesto,
è un esempio emblematico. In Giappone e in Gran Bretagna lo
sviluppo industriale era andato di pari passo con quello agricolo;
in Unione Sovietica le tappe forzate dell'industriaIizzazione, che
un rigido centralismo aveva imposto al Paese, avevano praticamente
distrutto il settore primario ed eliminato fisicamente i protagonisti
della società rurale, anche con la deportazione di circa sei
milioni di russi operato da Stalin. Il risultato, oggi, è un
crescente deficit della bilancia commerciale alimentare.
Le esperienze trascorse, sia nei Paesi sviluppati che in quelli in
via di sviluppo, hanno individuato la formidabile sfida che deve impegnare
l'uomo nei prossimi decenni, Occorre vincere la corsa tra una popolazione
che cresce e un'offerta alimentare che non è sufficiente a
livello di singoli Paesi. Nell'ambito dei rapporti internazionali,
attraverso una politica di aiuti in derrate, i Paesi avanzati devono
cedere il surplus a chi ne ha bisogno. A loro volta, i Paesi del Terzo
mondo devono considerare questo aiuto provvisorio e sviluppare le
produzioni, con l'introduzione di tecnologie e di impianti irrigui,
per raggiungere l'autosufficienza.
Dahrendorf:
il vero problema è la transizione
E' uno dei massimi
sociologi contemporanei, forse il principale teorico del liberalismo,
ma nel passato e nel presente di Ralf Dahrendorf, 60 anni, tedesco
trapiantato in Inghilterra, non ci sono soltanto titoli accademici
come la direzione di un college oxfordiano e della London School of
Economics, o di istituzioni culturali prestigiose carne la British
Accademy e l'American Philosophical Society, quindici lauree "honoris
causa"; c'è anche una grande passione politica, che lo
ha portato a far parte, come Ministro, del primo governo Brandt in
Germania e poi alla Cee, come Commissario per il commercio estero:
una passione politica che Dahrendorf non ha smentito nella conferenza
organizzata a Torino per iniziativa del Centro di ricerche e documentazione
"Luigi Einaudi" sul tema: "La via verso la libertà:
problemi della transizione dalla dittatura alla democrazia".Tre
termini -democrazia, dittatura, transizione - che Dahrendorf ha spiegato
così:
Democrazia significa poter cambiare senza rivoluzione; in altre parole,
poter cambiare governo e direzione delle cose senza che il mutamento
porti a conseguenze drammatiche, Dittatura significa che questo mutamento
è impossibile, che ci sono una sola linea di pensiero ed un
unico gruppo di persone che vuole mantenere le cose come stanno, con
regole stabilite una volta per sempre. E la transizione è il
fenomeno motto, motto importante al quale noi assistiamo oggi nell'Europa
dell'Est ed in una parte dei Paesi in via di sviluppo: il tentativo
di questi Paesi di liberarsi dalla dittatura della nomenklatura, della
burocrazia che li opprime. Questi Paesi non sanno come fare, stanno
cercando di trovare una forma di governo che li aiuti, stanno anche
cercando un modello economico che funzioni, e la transizione è
proprio questo: il processo che li porta ad uscire dalle regole della
nomenklatura per raggiungere nuove forme di libertà.
Facciamo due esempi concreti. Unione Sovietica e Germania Orientale:
che problemi affrontano in questo processo di transizione?
Per l'Unione Sovietica si tratto di una sfida veramente difficile.
Si tratta di introdurre simultaneamente istituzioni democratiche e
una economia efficiente, che sostituisca la miserabile economia pianificata
attualmente in vigore: il duplice processo pone compiti che quasi
nessuno, al momento, è stato in grado di risolvere.
Neppure Gorbaciov?
Veda io sono tra coloro che sperano sinceramente nella sua riuscito,
ma sono abbastanza scettico, anche se spero che il mio scetticismo
sia sbagliato. In certo qual modo, è più facile il compito
della Germania Est, perché lì l'economia funziona meglio.
E' vero, i tedeschi dell'Est se ne vanno perché non vogliono
aspettare 78 anni per avere una macchina, ma lì l'economia
va meglio e quindi il problema è principalmente quello di attivare
riforme politiche e democratiche.
Veniamo ai problemi di casa nostra, l'Italia. Lei ha studiato l'Italia,
si è occupato dell'Italia. L'Italia si sta occupando di lei.
Il più grande partito d'opposizione, il Partito Comunista,
ha detto: Dahrendorf è un maestro di pensiero cui rifarsi.
Cosa ne pensa?
Prima di tutto, io sono un pensatore politico di orientamento liberale,
e se i grandi gruppi politici sono interessati al mio pensiero, ovviamente
mi fa piacere. In secondo luogo, abbiamo appena parlato dei grandi,
drammatici problemi della transizione nei Paesi dell'Est. Confrontati
con quelli, i nostri problemi (in Italia, in Gran Bretagna, in qualsiasi
altro Paese europeo) sono piuttosto piccoli. E, in terzo luogo, anche
noi dobbiamo affrontare il problema di combinare dinamismo e giustizia,
di combinare sviluppo economico e sicurezza, di dare una base comune
di diritti civili a tutti. Questi sono i problemi che mi interessano,
questo è il mio programma. E se questo programma viene condiviso
da un certo numero di forze politiche io non posso che essere contento.