§ Inchiesta

Orizzonte 2000




M.C. Milo, A. Foresi, F. Albini
Collab: F. Alfani, S. Mastrostefano
Elab. Dati: B. Ortensi
Interviste: G.B. Cortese, L. Frassati



Paure del secolo che fugge

E' solo passato un altro millennio
Meno dieci. E poi, quale sarà il mondo abitato da Jonas che "avrà vent'anni nel Duemila"? "Il cibo che inghiottiamo pare vieppiù avvelenato, l'erba inaridisce, e una terribile pestilenza, sino a ieri ignota, si è diffusa per tutto l'orbe conosciuto, sì che innocenti e peccatori ne muoiono, come se il loro corpo non fosse in grado di opporre resistenza ai miasmi che l'invadono": così, il semiologo romanziere Umberto Eco, che annota "inorridito, i segni indubitabili che annunciano il declino del secolo" con un tono che avrebbe decisamente scoraggiato il regista svizzero Alain Tanner nel dar vita alla sua speranzosa creatura; un tono tanto prossimo invece a quello adoperato una decina di secoli prima da Rodolfo il Glabro in Cronache dell'anno Mille. Guerre, catastrofi, epidemie, orrori, sangue. follia, l'apocalisse: scarse e impercettibili le differenze tra la carestia della Borgogna raccontata da quel cluniacense colto e sottile più di un teologo, dai modi rozzi e grevi peggio di un contadino e -tanto per fare un esempio, assolutamente non unico - la tragedia del Libano scandita con quotidiana puntualità. E forse la tremenda carestia dell'anno 1033, descritta dal nevrotico e psicopatico Rodolfo, ebbe colori meno forti dell'allarme lanciato un anno fa dal Rapporto del World Watch Institute di Washington, secondo il quale sul mondo ricco, opulento, ingordo e consumistico pende addirittura la spada di Damocle della fame?
Meno dieci. E poi sarà il Duemila. Atteso, temuto, studiato, evocato, sondato: ecco il secondo millennio che sopravviene; magari è già cominciato e l'umanità si affretta a catalogare e inventariare idee, progetti e conquiste per riempire la sua Arca di Noè, o la fregata con la cui immagine Herman Melville conclude il suo Giacchetta bianca: o il mondo di un uomo in guerra, uno scafo che si è lasciato per sempre alle spalle il suo porto e naviga verso una meta sconosciuta con gli ordini di rotta sigillati in una busta? Insomma, come porsi di fronte a questa scadenza epocale? Con gli occhi comunque fiduciosi della ragazzina Clo del Diario di un millennio che fugge, di Marco Lodoli, o con quelli preoccupati del filosofo Massimo Cacciari, il quale, lavorando ad una summa teologica sulla vita eterna, pare essere arrivato alla glaciale conclusione: "Anche se potessimo inventarci strade per far fronte alle contraddizioni in cui siamo impantanati, questo non avrebbe niente a che vedere con la salvezza"?Certo, la lava eruttata ad intermittenza dall'Etna, i terremoti di San Francisco, della Cina e dell'Armenia, l'ozono che si lacera. L ' Aids galoppante sembrano segnali di un destino triste e sconsolato, senza plausibili margini di recupero. Ma non era stato proprio Cacciari a stigmatizzare come "la disastrologia contemporanea soprattutto nelle sue versioni millenaristiche nere, [ ... ], tutte strumentalmente rivolte a impedire che i late comers sperino in ciò di cui il Nord ha già largamente goduto, si limita a enfatizzare il lato distruttivo della catastrofe"?Lo aveva fatto in un saggio titolato proprio Catastrofi e contenuto nel numero settembre- dicembre '81 della rivista Laboratorio politico, dedicato al tema suggestivo "Catastrofi e trasformazioni".
Ad aprirlo era appunto la scena melvilliana di Giacchetta bianca citata da Giacomo Marramao, che poi notava: "L'angoscia del disordine e del deperimento energetico del sistema si è venuta imponendo nella teoria sociale contemporanea con l'ingresso della categoria di irreversibilità. Ma nelle scienze umane, a differenza di quelle naturali, questo esordio aveva coinciso con il prevalere di un'assunzione ottimistica circa il futuro; con i fasti delle idee di progresso e di tempo storico lineare; con la fiducia nella infinito perfettibilità evolutiva dell'organizzazione sociale".
Era la teorizzazione del valore maieutico della catastrofe, non più una rottura irrimediabile dell'ordine costituito, ma il punto di crisi positiva da cui far nascere un nuovo, migliore equilibrio: però mai definitivo, anzi aperto - diceva Marramao - "al possibile-imprevedibile", disponibile "ad accogliere un ospite inatteso".
Significava imparare a navigare in mare aperto, un po' Melville e un po' Nietzsche, viandanti e non viaggiatori verso una meta, perché una meta prefissata non esiste e non può esistere; era la filosofia di chi decideva di vivere, e mai slogan apparve così deciso e reale, col terremoto.
E oggi che cosa è successo per portare Cacciari, sostenitore autorevole di questa riflessione, a militare nel partito dei "millenaristi", nel movimento di chi osserva e interpreta l'emergenza ambientale come una catastrofe prossima ventura, i terremoti e gli sconquassi della natura come avvisaglie di una terribile apocalisse? E' probabile che proprio l'aggravarsi della situazione del pianeta terra, l'avvelenamento del suo eco-sistema abbiano praticamente annullato il discrimine tra scienze umane e scienze naturali, realizzando una tale interconnessione pessimistica da far affermare a Sergio Quinzio: "Se l'inquinamento dell'aria cresce, se la siccità e le inondazioni sembrano seguirsi senza più regole, se le foreste scompaiono e il deserto avanza, se il buco d'ozono si allarga, tutto insieme incalzando, siamo davvero sicuri che a tutto questo esista un rimedio a portato di mano, da applicare concordi a tutto il pianeta entro i tempi brevi in cui sarebbe necessario? Credo che sia lecito, anzi doveroso dubitarne".
Gettata come un fiammifero in un pagliaio, la preoccupazione di Quinzio ha avuto l'indubbio merito di portare allo scoperto un dibattito altrimenti celato da pudori mistici e religiosi, sommerso in un ambito di paure intime e profonde.
Tutti d'accordo con lui? Neanche per idea. Il fisico Carlo Bernardini ha definito il catastrofismo "la malattia infantile dell'ambientalismo". Vigile anche Luciano Gallino: "Occorre resistere alla tentazione di arrendersi dinanzi ai problemi dell'ambiente, le risorse che abbiamo oggi non sono mai state così grandi". Perplesso Norberto Bobbio: "La fiducia
del progresso inarrestabile che aveva ispirato per secoli le filosofie della storia dell'Occidente è esaurita". Critico Franco Fortini, il quale vede nell'insorgente neomillenarismo la tendenza a convincere che sia "meglio credere che tutto finisca piuttosto che rischiare il cambiamento" e, citando Ernesto De Martino, ricorda come l'antropologo della fine del mondo abbia indicato nello stare accanto alla morte ogni giorno la via d'uscita dalla condizione del servo. il quale si consola con i miti della catastrofe.
Sbagliato: è invece necessario esaltarsi nel "momento di Spartaco, che non perde mai del tutto, né dimentica la propria condizione servile se vuole essere di aiuto ai propri compagni e riceverne".
In altri e meno metaforici termini: se degrado c'è, e c'è ed è pure gravissimo, chi si rifugia nelle visioni apocalittiche e millenaristiche lo fa per evitare di confrontarsi con la estrema difficoltà del presente, di distinguere colpevoli e vittime, di cercare di individuare responsabilità e riscattarsi. Quindi, per rimanere in un lessico materialista, il catastrofismo non sarebbe soltanto la malattia infantile dell'ambientalismo, ma pure un nuovo oppio dei popoli oppressi.
Ma fissato tutto questo, il mondo comunque pare cadere a pezzi ora dopo ora, con una destabilizzante progressione che non sembra dare spazio ad istanze di trasformazioni positive; e dalle pieghe spuntano filosofie della crisi dal valore non precisamente maieutico come quella spiegata da Marramao; vengono fuori il neo-cinismo, il pragmatismo più minuto, l'utilitarismo esasperato.
E' l'invito a comportarsi come nella canzone di Prince, "1999": festeggiare fino alla follia l'ultimo atto del secondo millennio, perché tanto il terzo non si riuscirà nemmeno ad attingerlo.
Torna la sindrome di Rodolfo il Glabro e delle sue Cronache.
le quali però nascondevano un minimo di tensione verso l'avvenire, quando si chiudevano con la descrizione della primavera del mondo futuro: "Pareva che la terra stessa, scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse di un candido manto di chiese". Tensione condivisa da Eco, che vede "il sorgere di una Terza Età, di quella più santa e migliore". lui l'ha vista. Chi altro?

Convivere con il crash
La storia si ripete. Le edicole che sono di fronte a Wall Street, la strada più famosa del mondo che collega un fiume (tutto scorre) con un cimitero (tutto finisce), ancora ansimante per lo scampato pericolo dopo la caduta del venerdì 13, e sempre incerta sul futuro, esponevano la copertina del settimanale U.S. News, datato 16 ottobre, con le previsioni di Elaine Garzarelli sulle prospettive della Borsa. Nel 1987, la Garzarelli guadagnò fama mondiale per avere incitato, in diretta televisiva, gli investitori ad uscire da Wall Street, giusto prima del crollo del "lunedì nero". Come amava dire Andy Warhol, nel '900 la fama dura in media quindici minuti: l'imbarazzante settimanale, chiuso in tipografia prima di venerdì, consegnò alla storia la nuova previsione della Garzarelli: "Il mercato a quota 3100 e una valanga di soldi a Wall Street".
Non esattamente quel che si verificò; ma d'altronde la ricciuta guru era in buona compagnia. Il sofisticato mensile The Atlantic, autentico forum delle idee d'America, dedicava la copertina di ottobre, con incerto tempismo, all'"Arrivo del boom mondiale". Usando come chiave d'interpretazione del presente le teorie dell'economista austriaco Joseph Schumpeter, Charles Morris, specialista in take over alla Devonshire Partners. annunziò: "Stati Uniti e mondo sono sulla soglia di un boom economico senza precedenti, per intensità e durata".
Nel vorticare delle previsioni e di fronte a un mercato che si agitava alla velocità del computer, come si poteva vivere col crash, come potevano aziende e investitori singoli, lavoratori e finanzieri, imparare ad agire in un'economia mozzafiato come un ottovolante? La risposta non si trovò nelle newsletters petulanti che facevano il giro del mondo a caccia di quattrini. Venne voglia di cercarla lontano dal clamore del floor di Wall Street, tra l'edera del campus di Yale, dove James Tobin, premio Nobel per l'economia, guardava tutto con il distacco di uno degli ultimi Grandi Vecchi della teoria economica: "Wall Street? Non so più capirla, non so spiegarla". Ci abbandonava anche questo serissimo professore?"No, è che mi interessa sempre meno, perché è un mercato irrazionale, affollato da speculatori che non hanno né cuore né cervello per l'economia reale". Ma non è tornato Schumpeter? "Mi pareva fosse morto da quarant'anni. Il mercato cade nel 1987, ricade nel 1989 e la vita continua.
Non arrivo a dire che Wall Street abbia perduto ogni contatto con la realtà, ma di certo la febbre dei take over, la rincorsa degli speculatori non ha riflessi immediati sulla vita della gente". Come possiamo spiegare ai nostri lettori che devono convivere con il crash?"Dite loro: se è vero, come hanno scritto i giornali, che venerdì 13 è stato innescato dallo sgonfiarsi dell'affare sull'United Airlines, bene, il valore reale della United come compagnia che possiede aerei e che copre certe rotte è quello che è in termini economici. Può essere un po' più valutato, o un po' meno, ma senza gli isterismi della Borsa. Il resto è gioco di carta tra gli speculatori e ha un valore relativo. Se non, negativamente, per quel che dice della politica e dell'economia del mio Paese".
Chi fosse stato tentato di fare spallucce, pensando al solito Grillo Parlante accademico con premio Nobel nel cassetto, doveva confrontare le dichiarazioni al Corriere di Tobin con quelle rilasciate al Wall Street Journal da John Akers. Il presidente della Ibm: "Al giorno d'oggi, il mercato vive di vita propria. Non c'è nulla di razionale in vicende tipo il venerdì 13".
Se la Borsa è un jolly imprevedibile, ecco la prima spiegazione delle selvagge contraddizioni che hanno diviso e continuano a dividere gli esperti. Guru tipo la Garzarelli, cui pure milioni di investitori hanno guardato con ammirazione, ormai tendono sempre più spesso a cercare la "sparata" personale, per poi poter gridare: "L'avevo detto, io!". Se il 1987 fu appannaggio della Garzarelli, fu il redivivo Joseph Granville, l'uomo che una volta faceva muovere il mercato con la sua Granville Market Letter, a far centro quel venerdì 13: "Ho portato chi mi ascolta fuori dal mercato alla fine di agosto", esclamò felice dalla sua casa di Kansas City. La fine di agosto suonò subito dopo a Wall Street con la nostalgia per lo scudetto di una squadra in zona retrocessione. Borsa a 2728. Capitali all'estero a pioggia. Take over ancora di gran moda. Speculatori fiduciosi. Poi venerdì 13. Mentre l'ottovolante correva veloce, gli ottimisti facevano notare che la ripresa del lunedì non era stata negativa."Abbiamo imparato la lezione del 1987", era il ritornello che tutti ripetevano a Wall Street, "il freno dei computers ha funzionato, la Federal Reserve ha agito con acume garantendo il credito e l'anticipo di due ore degli affari ha dato modo ai nervi del mercato di sfogarsi senza drammi".
"C'è stata garanzia nella liquidità - osservava Paolo Glisenti del Worldwide I. Network - e il panico si è limitato, al contrario del 1987. Parecchi investitori si sono ricordati dei buoni affari realizzati da chi due anni fa ha avuto il sangue freddo di comprare". Ma, dopo il sollievo, di nuovo le preoccupazioni; proprio come i gitanti in ottovolante, che cambiano faccia quando il camioncino riprende, cigolando, la sua salita verso la prossima discesa. Glisenti ricordava lo scetticismo che si diffondeva tra i giapponesi, riottosi da quel momento nel finanziare i take over. Il presidente americano di una grande azienda diceva sottovoce: "Se io fossi un investitore a Wall Street mi farei un esame di coscienza, perché non è ancora finita". "Solo la fortuna", a giudizio della Washington Post, aveva impedito guai peggiori il lunedì successivo. "La banca Centrale può isolare l'economia dagli shock della Borsa, ma non può fare il contrario". E i numeri del mondo reale cominciavano ad addensarsi sul mondo di carta: 2.000 miliardi di dollari di indebitamento delle aziende Usa, quasi quanto il debito federale, entrambi più veloci del prodotto nazionale, analizzava Morgan Grenfell. Con produzione e produttività in calo. E col debito estero che sfiorava, inatteso, gli undici miliardi di dollari.
Ottimisti e pessimisti a bordo dell'ottovolante differivano esattamente su questa interpretazione: fino a quando il mercato globale riuscirà a finanziare lo scarto tra produzione e Borsa? "Invece che di Wall Street - diceva imperterrito Tobin, con una punta di rimprovero per il cronista - dovremmo parlare di deficit federale, di un Paese che si ostina a non raccogliere più tasse e a lasciar deperire i propri servizi e le proprie infrastrutture. Se il venerdì 13 è servito a far scendere la febbre dei take over, potrebbe essere persino un buon segno". "Un dollaro investito in Borsa nel 1926 ne ha fruttati 473,29; uno in Buoni del Tesoro 9,29", ribatteva l'esperto Laurence Siegel in difesa del mercato. Restava da capire come mai l'ansia per i titoli preda di take over si fosse diffusa velocemente ad altri.
Se il contagio restava così micidiale, convivere tra Orso e Toro diventava complicato. Bastava il rifiuto di una banca a finanziare l'ennesima compravendita di una compagnia aerea a mettere a soqquadro Wall Street? Venerdì 13 l'isteria aveva prevalso; lunedì aveva dominato la calma; ma di fatto di mercato - malgrado i freni sui computers e la proverbiale prudenza di Alan Greenspan alla Federal Reserve - restava cagionevole. C'era chi scommetteva sul rialzo a breve-medio termine del titoli, contando su investitori globali che avessero ancora liquido in tasca e fiducia in cuore. Parecchi osservatori temevano invece che si trattasse di una specie in via di estinzione ed esortavano chi entrava nella Borsa da solo, con i propri risparmi, a stare alla larga dai junk bonds, i "titoli spazzatura", (le azioni per finanziare i take over, ad alto rischio e ad alto profitto, con rischio in primo piano), investire su titoli stabili e a lungo, senza cercare di fare il surf per vendere e comprare sull'onda della Borsa. Differenziare era la parola d'ordine per non vivere nell'incertezza: accanto alle azioni, tenere Buoni del Tesoro e liquido. Era proprio la teoria del portafoglio che aveva guadagnato a Tobin il premio Nobel.
Ma nella confusione c'era chi non ascoltava. L'economista indiano Ravi Batra, che prevedeva il Grande Crack tre mesi dopo ed esortava a tenere i soldi sotto il materasso, aveva venduto 700 mila copie delle sue opere. Come sempre, la paura ha successo, più del raziocinio: "L'economia è diventata metafora della vita quotidiana -filosofeggiava Ardite Rubini, della Doubleday - e il sostituto dello psicanalista che definisce chi siamo e come viviamo". Appunto. Ma vallo a raccontare al parco buoi!

Dietro il muro, l'altra Europa
Dall'America a Londra e a Parigi la domanda è la stessa: trionfo della democrazia, vittoria dell'Occidente; e poi? Nell'"altra Europa" l'accelerazione della storia è vertiginosa. E sorprende. E alimenta nuove inquietudini. Tutto quel che accade costringe gli occidentali a limitarsi - come ha scritto il Los Angeles Times - "alla descrizione della fine di un passato, piuttosto che alla definizione di un futuro". Dunque, afferma, il quotidiano, "è necessario delineare il senso di una nuova visione".
Il futuro più probabile lo intravede Newsweek: "L'Occidente non si rende conto di quel che la dissoluzione dell'impero sovietico potrebbe rappresentare. Non è un'epoca di compiacimenti. E' un tempo di grandi speranze, ma anche di grandi pericoli. Potremmo trovarci in una situazione molto simile a quella del 1914, con la possibilità di molte Sarajevo. Qualcuna, atomica. Gli esperti che prevedono un'evoluzione di decenni fanno adesso un inventario dei pericoli.

Polonia. le speranze che possa salvarsi economicamente sono fievoli, poggiano quasi sul niente. Non è l'inflazione al 4.000 per cento che spaventa, ma le esperienze già fatte e la realtà dei meandri della sua società. Gli aiuti cospicui che le furono dati negli anni '70 si sono perduti nei vicoli della corruzione. Altri aiuti sono venuti e continuano a venire adesso, ed è giusto; ma Solidarnosc non è più unita, la sua base operaia non è più solida, e il nuovo governo dovrà imporre sacrifici tremendi. la popolazione, dicono gli osservatori, è stremata e si abbandona alla sfiducia; i contadini, nelle campagne, temono le riforme; nelle città domina l'incubo della disoccupazione inevitabile. Nascono insieme un'estrema destra populista e una burocrazia (gli ex gerarchi comunisti) che è la sola capace di amministrare, ed è corrotta e, sotto nuove vesti, crea le premesse per privilegi di casta. Tutto questo è certo il rovescio di una medaglia che ha un'altra faccia: quella del coraggio e della democrazia riconquistata. Ma dov'è la sicurezza del meglio?

Ungheria. Ha fatto tabula rasa del passato, ma il futuro si sta costruendo sulla costruzione di una nuova élite fatta dei quadri medi del vecchio partito comunista (il partito-Stato), dei dirigenti delle grandi aziende, di piccoli imprenditori privati, più capaci di speculazioni che di pratiche manageriali. Si parla di uno "stalinismo democratico", che non si sa che cosa significhi, ma che minaccia un vuoto di potere. Un vuoto o una impossibilità di potere.

Germania Est. Né l'Unione Sovietica né la Repubblica Democratica Tedesca avrebbero voluto l'esodo dei profughi e il rischio del suo dissolversi. E' rotto l'equilibrio che si basava su molti equivoci. Finita la politica dell'attesa, qualcosa deve accadere: verso Est o verso Ovest? Comunque, si pone il "problema tedesco" in modo nuovo; si pone il problema di nuovi rapporti tra Comunità economica europea e Comecon; si pone il problema di nuovi e imprevedibili rapporti tra Patto Atlantico e Patto di Varsavia, con quest'ultimo che non garantisce più niente, malgrado le pressioni di Mosca.

Cecoslovacchia. Si riconosce anche qui che Dubcek fu uno spirito anticipatore e che l'impiccagione di Nagy e dei patrioti morti sulla spinta della rivolta partita da piazza San Venceslao furono crimini politici. Nuovi fermenti possono portare a un'evoluzione che tolga il Paese dalla linea d'ombra nella quale si è confinato per tutti gli anni '80.

Infine, la stessa Unione Sovietica. Si viene a sapere ora che ciò che accade di esplosioni nazionali, di contrasti etnici, di pressioni di fanatismi musulmani, accadeva anche in passato, sotto Breznev. Lo si ignorava. La glasnost non è un rimedio; essa conferma soltanto che c'è come una tendenza alla regressione. Verso il passato: con un presente insostenibile, con un futuro incerto. Il comunismo non ha distrutto i demoni del passato, le antiche rivendicazioni e le vecchie, ancestrali. tentazioni si rivelano invincibili.
Tutto questo bisogna fronteggiare. Tutto questo non può più pesare sulle spalle del solo Gorbaciov e non ammette più una diarchia russo-americana. Mentre pensatori vinti dall'angoscia favoleggiano di fine della storia, la vera vittoria dell'Occidente e della democrazia deve ancora venire. Verrà quando si potrà evitare che le società dell'altra Europa, e non solo quelle, tornino allo stadio originario della loro storia.

Ma è fame per 730 milioni

Negli ultimi quarant'anni, l'agricoltura si è trasformata radicalmente: la produzione mondiale è quasi raddoppiata. lo sviluppo tecnologico è stato senza precedenti. Tuttavia, il problema dell'alimentazione rappresenta ancora una delle più gravi emergenze planetarie. Secondo le stime della Banca Mondiale, almeno 730 milioni di persone dei Paesi in via di sviluppo hanno una dieta insufficiente per uno standard di vita normale; e per 340 milioni di persone la scarsità della dieta determina una particolare vulnerabilità agli assalti delle malattie.
La situazione più drammatica è quella di alcuni Paesi dell'Africa e del Sud-Est asiatico. In Africa, il numero delle persone denutrite è aumentato da 92 milioni del 1969-71 a 110 milioni nel decennio successivo, per giungere ai 150 milioni attuali. La crisi alimentare in Africa è vecchia di almeno un quarto di secolo: ha avuto inizio negli anni '60, quando l'area sub-sahariana diventò una forte importatrice di derrate alimentari. Se la situazione non si modificherò, nel 2000 la regione dovrà importare circa 35 milioni di tonnellate di derrate alimentari.


La situazione africana si può paragonare a quella dell'India. I due continenti, nel '60, producevano 50 milioni di tonnellate di cereali ciascuno. Oggi, l'india, in seguito alla "rivoluzione verde" e ai miglioramenti tecnologici, ne produce 150 milioni. Al contrario, l'Africa continua a produrre più o meno la stessa quantità di allora. Per avere un'idea del basso livello di produttività, si pensi che un contadino africano produce 600 chilogrammi di cereali l'anno, contro gli 80.000 di un contadino statunitense o canadese: un rapporto di 133 a uno. E' vero che in Africa, dal '61 all'87, la produzione media annua è aumentata dell'1,6% (nell'84, addirittura, del 4%); ma la popolazione è cresciuta del 2,8%. Dunque, la produzione di alimenti, negli ultimi ventotto anni, non è cresciuta di pari passo con l'incremento della popolazione.
In Asia, invece, la produzione di cibo, a partire dagli anni '60, ha superato il saggio di crescita della popolazione. L'India ha raggiunto l'autosufficienza alimentare e il governo è stato in grado di finanziare una rete di irrigazione, un efficiente sistema di trasporti che permette sia lo stoccaggio sia il trasferimento di cibo da Stati come il Punjab, che ha un surplus produttivo, verso aree più povere, come il Rajasthan o il Bihar. Tuttavia, ci sono aree come il Vietnam, il Laos, la Birmania, il Pakistan, la stessa Cina, nelle quali l'autosufficienza è ancora un miraggio.
Ci dice il professor Streeten, della FAO: "All'inizio degli anni '50, lo sviluppo era considerato, soprattutto, come una questione di crescita economica. Fu data priorità all'industrializzazione e alle infrastrutture, che erano considerate sinonimo dì sviluppo. Si credeva comunemente che gli alti saggi di crescita della produzione avrebbero ridotto la povertà". l'idea era che l'industria moderna avrebbe creato posti di lavoro per coloro che provenivano dalla campagna e si stabilivano nelle città che cominciavano a industrializzarsi. la povertà e l'ineguaglianza si sarebbero quindi ridotte, come del resto era avvenuto nei Paesi sviluppati, nei quali il settore agricolo era gradualmente diminuito a favore del secondario e del terziario. Ma la crescita del settore industriale a scapito di quello tradizionale non era e non è stata di per sé indicativa di un miglioramento delle condizioni generali di vita della gente. Tanto è vero che questo processo si sta ripetendo nei Paesi del Terzo Mondo, i quali restano arretrati proprio perché non hanno risolto i problemi della disoccupazione, della povertà e dell'alimentazione. l'America latina, in questo contesto, è un esempio emblematico. In Giappone e in Gran Bretagna lo sviluppo industriale era andato di pari passo con quello agricolo; in Unione Sovietica le tappe forzate dell'industriaIizzazione, che un rigido centralismo aveva imposto al Paese, avevano praticamente distrutto il settore primario ed eliminato fisicamente i protagonisti della società rurale, anche con la deportazione di circa sei milioni di russi operato da Stalin. Il risultato, oggi, è un crescente deficit della bilancia commerciale alimentare.
Le esperienze trascorse, sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, hanno individuato la formidabile sfida che deve impegnare l'uomo nei prossimi decenni, Occorre vincere la corsa tra una popolazione che cresce e un'offerta alimentare che non è sufficiente a livello di singoli Paesi. Nell'ambito dei rapporti internazionali, attraverso una politica di aiuti in derrate, i Paesi avanzati devono cedere il surplus a chi ne ha bisogno. A loro volta, i Paesi del Terzo mondo devono considerare questo aiuto provvisorio e sviluppare le produzioni, con l'introduzione di tecnologie e di impianti irrigui, per raggiungere l'autosufficienza.

Dahrendorf: il vero problema è la transizione

E' uno dei massimi sociologi contemporanei, forse il principale teorico del liberalismo, ma nel passato e nel presente di Ralf Dahrendorf, 60 anni, tedesco trapiantato in Inghilterra, non ci sono soltanto titoli accademici come la direzione di un college oxfordiano e della London School of Economics, o di istituzioni culturali prestigiose carne la British Accademy e l'American Philosophical Society, quindici lauree "honoris causa"; c'è anche una grande passione politica, che lo ha portato a far parte, come Ministro, del primo governo Brandt in Germania e poi alla Cee, come Commissario per il commercio estero: una passione politica che Dahrendorf non ha smentito nella conferenza organizzata a Torino per iniziativa del Centro di ricerche e documentazione "Luigi Einaudi" sul tema: "La via verso la libertà: problemi della transizione dalla dittatura alla democrazia".Tre termini -democrazia, dittatura, transizione - che Dahrendorf ha spiegato così:
Democrazia significa poter cambiare senza rivoluzione; in altre parole, poter cambiare governo e direzione delle cose senza che il mutamento porti a conseguenze drammatiche, Dittatura significa che questo mutamento è impossibile, che ci sono una sola linea di pensiero ed un unico gruppo di persone che vuole mantenere le cose come stanno, con regole stabilite una volta per sempre. E la transizione è il fenomeno motto, motto importante al quale noi assistiamo oggi nell'Europa dell'Est ed in una parte dei Paesi in via di sviluppo: il tentativo di questi Paesi di liberarsi dalla dittatura della nomenklatura, della burocrazia che li opprime. Questi Paesi non sanno come fare, stanno cercando di trovare una forma di governo che li aiuti, stanno anche cercando un modello economico che funzioni, e la transizione è proprio questo: il processo che li porta ad uscire dalle regole della nomenklatura per raggiungere nuove forme di libertà.
Facciamo due esempi concreti. Unione Sovietica e Germania Orientale: che problemi affrontano in questo processo di transizione?
Per l'Unione Sovietica si tratto di una sfida veramente difficile. Si tratta di introdurre simultaneamente istituzioni democratiche e una economia efficiente, che sostituisca la miserabile economia pianificata attualmente in vigore: il duplice processo pone compiti che quasi nessuno, al momento, è stato in grado di risolvere.
Neppure Gorbaciov?
Veda io sono tra coloro che sperano sinceramente nella sua riuscito, ma sono abbastanza scettico, anche se spero che il mio scetticismo sia sbagliato. In certo qual modo, è più facile il compito della Germania Est, perché lì l'economia funziona meglio. E' vero, i tedeschi dell'Est se ne vanno perché non vogliono aspettare 78 anni per avere una macchina, ma lì l'economia va meglio e quindi il problema è principalmente quello di attivare riforme politiche e democratiche.
Veniamo ai problemi di casa nostra, l'Italia. Lei ha studiato l'Italia, si è occupato dell'Italia. L'Italia si sta occupando di lei. Il più grande partito d'opposizione, il Partito Comunista, ha detto: Dahrendorf è un maestro di pensiero cui rifarsi. Cosa ne pensa?
Prima di tutto, io sono un pensatore politico di orientamento liberale, e se i grandi gruppi politici sono interessati al mio pensiero, ovviamente mi fa piacere. In secondo luogo, abbiamo appena parlato dei grandi, drammatici problemi della transizione nei Paesi dell'Est. Confrontati con quelli, i nostri problemi (in Italia, in Gran Bretagna, in qualsiasi altro Paese europeo) sono piuttosto piccoli. E, in terzo luogo, anche noi dobbiamo affrontare il problema di combinare dinamismo e giustizia, di combinare sviluppo economico e sicurezza, di dare una base comune di diritti civili a tutti. Questi sono i problemi che mi interessano, questo è il mio programma. E se questo programma viene condiviso da un certo numero di forze politiche io non posso che essere contento.


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