I debiti dell'economia: profondo rosso




M.C.M., F.A.



Perché Guido Carli continua a insistere sulla necessità delle privatizzazioni, anche in contrasto con altri economisti? Perché sa che la finanziaria approvata dal governo non ha la forza per trascinare il Paese verso il risanamento finanziario pubblico. Vediamo i numeri che ha messo, nero su bianco. I più importanti, quelli da cui dipende tutto, sono assai opinabili: si tratta infatti delle previsioni di crescita "a oggi fino al 1993. In proposito, circolano diversi oroscopi. Il governo, nell'impostare i suoi conti, si è tenuto stretto all'ipotesi di gran lunga più ampia, più ottimistica. Ha previsto infatti che l'economia italiana cresca nel '90 del 3,2%, e del 3,3% nel '91, del 3,4% nel '92 e addirittura del 3,5% nel '93. Si tratta, evidentemente, di uno scenario "alto". Finora, tutti i centri di previsione che si sono espressi hanno detto che le cose andranno meno bene. Ma può anche darsi che alla fine Carli abbia ragione.
il secondo gruppo di cifre è quello che riguarda il fabbisogno di cassa del Tesoro (di solito espresso come percentuali del Pil). Nell'88, il disavanzo era stato pari all'11,5% del Pil. In concreto, gli italiani avevano prodotto fra beni e servizi circa un milione di miliardi, mentre lo Stato aveva fatto nuovi debiti pari all'11,5% di questa cifra. Debiti che si sono andati ad aggiungere a quelli giù esistenti e riguardanti passate gestioni: in totale, appunto, circa un milione di miliardi.

Qui siamo nel cuore della finanza pubblica. E' evidente, infatti, che fino a quando il disavanzo continua ad essere alto, l'indebitamento totale non può che continuare a crescere. La prima operazione da fare, quindi, se si vuole essere realisti, è di fare in modo almeno che il disavanzo (in rapporto al Pil) diventi via via meno importante; rappresenti, cioè, una quota sempre più piccola del Pil. E questo nelle previsioni di Carli c'è. Il disavanzo è pari all'11,5% del Pil nell'88, all'11% nell'89, al 10,4% nel '90, all'8,8% nel '91 e al 7,4% nel '92. Esiste, dunque, una compressione del disavanzo pubblico, in rapporto al Pil, di cui sarebbe scorretto e ingeneroso non valutare l'importanza, anche perché nel nostro Paese ridurre il disavanzo è sempre un'operazione difficile, perché comporta che si facciano meno spese e che si raccolgano più imposte.
Purtroppo, sono le stesse cifre di Carli a dire che questo sforzo non basta: il debito pubblico, infatti, continua a crescere più del Pil. Nell'88 esso era pari al 93% del Pil, nell'89 al 97,2%, nel '90 al 100,5%, nel '91 al 102,9% e nel '92 al 103,6%. Fra l'88 e il '92 (quattro anni) si passerà da un debito pubblico che prima era pari al 92,9% del Pil ad uno che alla fine sarà arrivato al 103,6%, più di dieci punti percentuali di aumento. In altre parole, il disavanzo si riduce, ma il debito pubblico continua a crescere, e quindi ad esigere somme sempre più alte (che si trasformano subito in nuovo debito) per far fronte agli interessi. E' un serpente che si morde la coda.
Gli esperti del Tesoro dicono che a partire dal '93, peraltro, la crescita del debito pubblico si fermerò. Da quel momento in avanti, la crescita dell'economia dovrebbe compensare il disavanzo annuale e quindi contenere, mantenere inalterato il rapporto debito pubblico/Pil. Tutto ciò comporta, ovviamente, che molte variabili stiano ferme: la crescita non deve diventare più bassa di quella prevista (molto alta); l'inflazione e i tassi d'interesse non devono crescere. Altrimenti il debito pubblico si metterà a correre anche dopo il '92, e sarà difficile fermarlo.
E' su questo punto che si innestano i continui messaggi di Carli a favore di un grosso programma di privatizzazione di aziende pubbliche. Per lo Stato, queste potrebbero essere operazioni "straordinarie" (identiche comunque a quelle fatte dalle aziende all'inizio degli anni '80), capaci di portare soldi nelle casse dell'erario e quindi di far scendere ancora più drasticamente l'ammontare del disavanzo. Dovrebbero avere dimensioni più consistenti, è ovvio. A quel punto, la crescita economica, se dovesse mantenersi buona, potrebbe cominciare, sia pure con grande lentezza, a sgretolare la montagna del debito pubblico. Oggi abbiamo questa situazione: per ogni 100 lire abbiamo 100 lire di debito pubblico. Secondo Andreatta, tagliando e vendendo, si potrebbe arrivare nel 2000 ad avere, per ogni 100 lire di Pil, 80 di debito. Che sono sempre tante.
Ecco perché Carli insiste. Questo Stato non se lo può cavare con qualche ritocco alle imposte. Deve "inventarsi" qualcosa. Chi ha buoni consigli da dare (e non cattivi esempi) si faccia avanti.

Fuori dall'Europa

Se ne è parlato parecchio, poco tempo fa; ma vale la pena di ritornare sui dati del sesto "Rapporto sullo stato dei poteri e dei servizi locali" della società mista Sps, dal momento che si tratta di cifre sconvolgenti. Analizzando le statistiche, opportunamente elaborate, dei servizi comunali forniti dai capoluoghi di provincia, emerge drammaticamente la crescente incapacità di molte municipalità a garantire i servizi essenziali, a soddisfare i bisogni dei cittadini. Lo Stato centralista soffoca la periferia. il deficit dei Comuni è in continua crescita (ma le Regioni non sono state capaci di utilizzare ben un terzo dei cospicui fondi europei e la Campania, caso-limite, è riuscita a non spenderne una lira!). Le tariffe dei servizi restano basse, (in media il biglietto o l'abbonamento dei mezzi pubblici di trasporto copre solo il 42% del costo, ma con Bolzano al 72%, Milano al 24% e Napoli al 9%). La cultura e le capacità manageriali appaiono assenti o sottoutilizzate nella maggior parte dei casi. Largo spazio resta libero per la corruzione di politici e amministratori, oltre che per la criminalità organizzata.
Senza dubbio, esistono vari capoluoghi ben governati. Ma, nell'insieme, il degrado risulta grave, mentre tende ad allargarsi il divario tra le aree forti e quelle deboli (il Sud nella sua gran parte). Qualche esempio delle due Italie: i metri quadrati di verde pubblico per abitante sono 3,5 nel Mezzogiorno e quasi 7 al Nord; ma le spese di manutenzione sono 11 al Sud e solo 2 altrove. Ogni netturbino settentrionale raccoglie in media 12 quintali di rifiuti solidi urbani all'anno, contro i 2 del collega medio meridionale; ma a Sud la spesa media comunale è di 20 mila lire a quintale, rispetto alle 14 mila del Nord.
Asili-nido: sono 3,7 ogni centomila abitanti nel Mezzogiorno, contro i quasi 6 del Nord (gli Iscritti sono qui 2,7 bambini su mille, contro gli 1,5 lì). Per gestire le mense scolastiche si spendono per un posto 11.500 lire a Sud, contro le 5.800 del Nord (ma a Roma si raggiunge la cifra-record di un milione e 700 mila lire per alunno all'anno). Gli acquedotti: il Sud, da sempre assetato e sottoservito, eroga solo 37 metri cubi annui per abitante, contro i 95 del Centro e gli 82 del Nord; ma il deficit per metro cubo è di 261 lire a Sud, di 735 al Centro e di 63 lire a Nord. E l'acqua è depurata in non più del 6% dei comuni meridionali (a costi elevati), mentre il Nord - sia pure con i suoi ritardi - giunge al 26%.
I guasti dell'attuale sistema sono sotto gli occhi di tutti, con conseguenze più gravi per le regioni più deboli, ove l'operatore pubblico non riesce affatto a svolgere il ruolo propulsore e perequativo che in un moderno Stato sociale dovrebbe competergli. In realtà, lo iato fra le due Italie si sta ampliando e risulta tanto più grave in quanto al Sud l'omologazione culturale ci sta dando cittadini con valori e aspettative sempre più avanzati ed "europei": il che rende a loro (e a noi) insopportabile lo scarto fra bisogni e diritti.


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