Lecce: silenzi e sprechi




Nello Wrona



Servizi da paese in via di sviluppo; "performances" gestionali antieconomiche e in ogni caso inadeguate ai bisogni; spese improduttive; risposte di mercato che non soddisfano un'utenza sempre più articolata e differenziata. Per Lecce, una radiografia impietosa dal sesto Rapporto sullo stato dei poteri e dei servizi locali. Dove e quando lo si è potuto verificare.
Intanto, Lecce non fornisce dati su alcuni servizi essenziali e al centro di non poche vicende, anche giudiziarie: depurazione delle acque, smaltimento dei rifiuti solidi urbani, acquedotti, verde urbano e giardini. Dati non trasmessi o non certificati.
Il vuoto di notizie è comunque allarmante. Per altri servizi invece, non poche sorprese. Nel trasporto pubblico, Lecce impiega più di trecento persone e registra i costi di gestione più elevati della regione, ma il rapporto tra chilometri percorsi sulla tratta dai mezzi pubblici e numero dei viaggiatori è il più basso d'Italia. Tempo d'attesa per ogni passaggio: 20 minuti.
Nel trasporto scolastico si è avuta, nel triennio '83-'86, una contrazione del 50,3% degli alunni con diritto al servizio, ma un corrispettivo aumento (addirittura dell'85,0%) del numero di scuolabus per 1.000 abitanti. Attualmente, sono più di trenta, quanti ne circolano a Savona, Siena, Varese, città che hanno però il triplo di aventi diritto al trasporto.
Cifre in rosso anche per la refezione scolastica e gli asili-nido. Nel primo caso, la copertura delle spese per alunno si attesta sul 18,7%, ma i costi unitari sono pari a quelli di realtà territoriali come Alessandria e Como (1.222.000 lire, in media), dove il recupero è almeno il doppio di quello leccese. Nel secondo, la copertura è ulteriormente diminuita (-13,% in tre anni), benché il tasso di natalità sia costante, o in aumento, rispetto al Centro-Nord. Prestazioni inferiori alla media, infine, per il servizio di polizia locale e per l'igiene pubblica. Un'ultima annotazione: la Puglia - tra il 1975 e il 1988 - è la regione che registra il tasso più alto di sottoutilizzazione delle risorse economiche dei fondi europei di sviluppo regionale, pur avendone, con la Campania, i contributi principali. E, in Puglia, è proprio Lecce ad ignorare ancora queste forme di incentivazione.

Ma il Sud paga più tasse

I poteri locali si stanno disintegrando. Il nostro disagio di cittadini comincia proprio a contatto con le amministrazioni e i servizi del luogo in cui viviamo. Se una riforma delle istituzioni è necessaria, essa deve partire dagli enti locali. Alcuni dati parlano chiaro. L'11% degli eletti nei consigli regionali, provinciali e comunali (capoluoghi) appartiene a liste e raggruppamenti estranei ai partiti tradizionali. Secondo stime attendibili, questo fenomeno potrebbe riguardare ben il 23% degli eletti alle prossime amministrative del 1990. l'indebitamento netto dei comuni, che indica le necessità finanziarie dell'ente per garantire lo svolgimento delle proprie funzioni, sfiorava i 15 mila miliardi di lire nell'87, con un aumento del 62,3% rispetto all'86.Il sistema di finanza derivata (quote d'imposta pagate allo Stato, trasferite successivamente in periferia) non funziona. Forse è utile una maggiore autonomia impositiva, la possibilità cioè per le regioni, le province e i comuni di creare delle proprie imposte. In Italia, infatti, le entrate locali sono complessivamente il 2,3% di quelle totali dello Stato, contro il 31 della Germania Federale, il 10 della Gran Bretagna, l'11,5 della Spagna. Ma non è sicuro che, da noi, le attuali amministrazioni sarebbero in grado di gestire eventuali maggiori tasse proprie. Basti pensare che in Basilicata, in Calabria e in Puglia non sono stati utilizzati quasi il 60% dei contributi concessi dal fondo sociale della Cee nel 1987, e in Campania neppure un solo Ecu. In media, le regioni italiane non hanno ancora beneficiato del 32,2% dei fondi concessi. Soldi che rimangono a Bruxelles, poiché le nostre amministrazioni non riescono a rispettare le procedure necessarie per ottenerli.
Certo è che almeno il sistema fiscale va rivisto, perché la pressione è maggiore proprio nel Sud. Ciò significa che in relazione al suo stipendio, un meridionale paga più tasse comunali di un settentrionale: per servizi (acqua, nettezza urbana, trasporti, energia elettrica, ecc.) che sono regolarmente peggiori.
Per far fronte alle necessità crescenti (opere pubbliche, tecnologia), si ricorre sempre più spesso all'intervento speciale dello Stato centrale. Sono ben 49 le leggi o decreti con cui il governo trasferisce agli enti locali fondi stanziati per interventi "straordinari" o "di interesse nazionale" (da Roma a Reggio Calabria, dalla Valtellina a Napoli, tanto per fare alcuni esempi). Questi versamenti rappresentano ormai il 30,7% del totale dei trasferimenti agli enti locali. l'indebolimento dei poteri locali - è stato notato - favorisce la diffusione della criminalità organizzata. Nello stesso tempo, la mancanza di tecnici e di manager impedisce un'adeguata politica di indirizzo e di controllo della spesa pubblica e non garantisce la verifica delle procedure d'appalto. Non c'è da stupirsi, allora, se tutto questo scatena gli appetiti della criminalità nelle "regioni deboli"; se 14 province del Sud sono ai primi 15 posti per numero di omicidi volontari in rapporto alla popolazione; se il 62% degli assassinii si registra in sole tre regioni: Sicilia, Calabria e Campania.

Le opportunità del Mezzogiorno alla vigilia del 1993

Intervista con Franco Modigliani

Secondo lei, in cifre assolute si risparmia di più al Nord, ma in cifre relative si risparmia nella stessa misura al Sud come al Nord. E' così?
Proprio così. Vede, il Nord è andato avanti molto bene, è cresciuto ad un tasso elevato. Quanto al Mezzogiomo, il problema è che esso si tiene a un 20% in meno, più o meno sempre allo stesso scarto dal Nord. Il divario comunque si conserva, più o meno uguale; ma proprio questo vuol dire che anche il Sud è andato avanti allo stesso, elevato tasso di crescita dei redditi del Nord. Ed è questo tasso di crescita ciò che ha influenza sul risparmio.
Lei dimostra questo con la sua teoria del ciclo vitale. Non ha dunque peso il livello del reddito, che al Nord è molto più alto?
No, quel che conta è il tasso di crescita. E' un errore pensare che più si è ricchi e più si risparmia: su questa base ci sarebbe da attendersi che nel Sud il risparmio, in proporzione, fosse minore. Invece è il tasso di crescita dei redditi che influenza il tasso di risparmio. E i dati rilevati dalla Banca d'Italia lo confermano: nel Centro-Nord c'è un livello elevatissimo di risparmio, il 26,5% del reddito. Ma nel Mezzogiorno il tasso di risparmio è molto vicino a quello del Nord, già così elevato; è quasi uguale: è il 25% del reddito. Si tratta di un indice di risparmio davvero molto alto, rispetto a quelli degli altri Paesi industrializzati: sono, questi italiani, indici che si collocano sul livello di quello del Giappone. Dunque, si dovrà concludere che se non ci sono investimenti a Sud, questo non è dovuto alla mancanza di risparmio, ma ad altre cause. Per esempio, una parte del risparmio del Sud viene investito a Nord, e non avviene il contrario.
In questa fase il Sud a che punto è?
Il Sud ha rallentato il passo in termini di livello di reddito e di produttività per addetto; però ci stiamo avviando verso un'epoca di espansione generale, legata al Mercato comune europeo, e generalmente questi periodi di sviluppo rapido hanno effetto positivo anche al Sud.
Possiamo intravedere a breve termine qualcosa, nello scenario europeo?
La piena occupazione nel Nord avrà un riverbero positivo al Sud. Fino ad un anno fa c'era disoccupazione anche al Nord, ora pare che sia stato raggiunto un limite fisiologico. In pratica, la piena occupazione. Questo è un nuovo dato, che avrà i suoi effetti positivi.
Nel senso che si riapriranno per i meridionali le porte dell'emigrazione?
Se i meridionali vorranno emigrare al Nord ne avranno la possibilità. Ma so che oggi non sono favorevoli a questa soluzione.
Non è meglio che emigrino a Sud le aziende del Centro-Nord?
Certo, è proprio questa l'opportunità che si può aprire. E questo controbilancia gli effetti esterni negativi che esistono nel Sud, il fenomeno delle mafie e della camorra, per intenderci. E' questo che scoraggia l'impresa del Nord alle opportunità aperte dal Sud: in effetti, l'impresa non intende andare a mettersi nei pasticci. Ora però la risorsa offerta dalla forza di lavoro esistente sul posto può costituire un'attrattiva tale da far riconsiderare le cose. E poi c'è la grande attrattiva delle bellezze naturali e del clima favorevole: sono cose importanti. Ma naturalmente lo Stato deve continuare a combattere la criminalità organizzata.
Una criminalità che si annida soprattutto dove c'è ricchezza...
Mafia, 'ndrangheta e camorra sono già radicate da secoli; operavano già ai tempi in cui la ricchezza era davvero poca, hanno saputo sfruttare non solo i ricchi, ma anche i poveri...
Lei che studia il risparmio, vi ha osservato tracce precise della mafia?
Non direi che ci sono tracce particolari. Penso che anche la mafia risparmi motto: il suo è un lavoro aleatorio per il quale è necessario accumulare riserve.
Lei considera positivamente l'evoluzione tecnologica del Sud?
Esiste ormai una diffusa manodopera qualificata e non dubito che il Sud abbia la capacità di mettere in moto un nuovo impulso connesso con l'alta tecnologia e con l'innovazione.

Stato e opere d'arte

Ordine: censire. Prospettiva: vendere

Quanti, quali e dove sono i beni culturali italiani, per arrivare a saperlo prima del 1993, quando la caduta delle ultime barriere doganali europee aprirà le frontiere anche alle opere d'arte? Si lancia una campagna nazionale di catalogazione straordinaria, con l'ambizione di mettere finalmente sotto controllo il patrimonio più ricco, più importante e anche più disastrato del mondo. E' la prima iniziativa legislativa del ministro dei Beni culturali: mira a impegnare i 130 miliardi rimasti per il settore nella finanziaria dell'89, per costruire una mappa di monumenti a rischio (circa 30
miliardi), riordinare e conservare gli archivi (altri 30 miliardi), e avviare una catalogazione a tappeto del patrimonio (70 miliardi). Il provvedimento ha avuto l'assenso di massima delle forze politiche e segna una svolta nella vicenda iniziata più di tre anni fa all'insegna dei "giacimenti culturali": i 600 miliardi trasferiti in concessione alle imprese informatiche per 39 progetti di catalogazione e valorizzazione di singoli insiemi di beni culturali, scelti in un campionario proposto dalle imprese stesse. La prospettiva di continuare su quella strada, rialimentando le concessioni esaurite e aprendone altre, è stata esclusa dal Parlamento tra malumori e polemiche. Arrivando a conclusione, i "giacimenti" hanno lasciato in mezzo al guado segmenti di catalogo inutilizzabili, perché tra loro eterogenei, e 3.500 giovani laureati e diplomati sono restati senza lavoro. Il nuovo provvedimento recupera la situazione, prendendo motivo dall'emergenza '93, attesa con allarme da quanti temono una fuga massiccia di patrimonio sconosciuto attraverso il canale dei mercati d'arte. La nuova campagna di catalogazione si distingue dai "giacimenti" per il ritorno dell'iniziativa alla competenza pubblica ed esclusiva di un organo ministeriale: l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, attivo dal1975 e da allora semi-paralizzato dalle ristrettezze di bilancio (1,2 miliardi all'anno). All'Istituto è infatti attribuita l'organizzazione della campagna, generale e sistematica, a cominciare dai beni mobili (opere d'arte) più esposti alla minaccia del mercato unico. la realizzazione avviene invece col supporto delle Sovrintendenze tra le quali è divisa la competenza territoriale e dei giovani reduci dei "giacimenti" in qualità di manodopera già formata.
La legge si occupa anche dei prodotti dei "giacimenti", prevedendo che se ne studi una "razionale utilizzazione". Quanto alle imprese messe alla porta, potranno rientrare dalla finestra di apposite convenzioni da stipularsi per la gestione dei "beni rinvenienti" (gli strumenti di valorizzazione costruiti dai "giacimenti").
Quanta catalogazione si potrà fare con 70 miliardi? Tenuto conto che si tratta di una schedatura sommaria, non esaustiva del catalogo vero e proprio che resterà da sostanziare in tempi più lunghi, si valuta che lo stanziamento basti per circa tre milioni di opere: un numero pari alle schede compilate negli ultimi 15 anni e largamente al di sotto della stima della quantità di patrimonio esistente in Italia. Si tratta comunque di un rilancio dell'azione conoscitiva dello Stato, che dovrebbe integrarsi, sul fronte dei beni immobili (monumenti), con la prevista mappa del rischio: un inventario finalizzato a definire la priorità degli interventi di recupero, sottraendoli alla causalità che finora li ha governati nell'Italia delle torri che crollano e dei musei chiusi per il dissesto dei palazzi che li contengono.


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