Cinque
anni fa aveva inizio "l'epopea gorbacioviana", con un ferreo
processo di epurazione della dirigenza di partito, la cosiddetta "nomenklatura".
Mai come in quel periodo la stampa fu tanto larga di notizie di cronaca
nera. I dossier svolazzavano ovunque, gettando scompiglio nei vari ministeri.
Uomini che sembravano immortali, intoccabili, furono raggiunti da una
ventata di scandali e spazzati via nel giro di un anno. Nella commedia,
tutti i "cattivi" stavano da una parte, tutti i "buoni"
dall'altra.
Tra i "cattivi" ricordiamo Grigorij Romanov, padrone di Leningrado,
e Viktor Griscin, padrone di Mosca, il primo accusato di uso illecito
di vasellame, il secondo di corruzione. E ancora, Bodrov e Velickov,
processati a Rostov insieme a molti altri dirigenti sotto l'accusa di
avere per anni derubato il Paese, privandolo di beni essenziali. La
notizia di valige piene di caviale e di carne fresca fece il giro dell'Unione.
Tutto questo mentre il "buon" Gromiko irrompeva nei negozi
per appurarvi il regolare funzionamento. E mentre l'altro "buono",
Shevarnadze, di ritorno dagli Stati Uniti, pretendeva una verifica minuziosa
dei suoi bagagli, mettendo in seria difficoltà gli altri dirigenti
che erano con lui, carichi di delizie introvabili nel Paese.
Una campagna demagogica, attuata al solo scopo di sostituire l'eredità
brezneviana, estremamente conservatrice, con uomini "gorbacioviani",
quali Egor Ligaciov, Nikolay Rizhkov,
Edward Shevarnadze e altri. Ma, a parere del leader sovietico, un passo
indispensabile per dare il via al processo di riforma, alla perestrojka.
Quello che è successo dopo lo sappiamo tutti. Il cammino di Gorbaciov
si è caratterizzato per tutta una serie di vittorie all'estero,
ma anche per una catena di insuccessi all'interno del Paese. E oggi
è praticamente un uomo solo, responsabile di aver "scardinato
una vita quotidiana prima umiliata per anni, ma pianificata per sempre".
Le resistenze non vengono più solo dal fronte conservatore, ma
dal popolo stesso, per il quale la maggiore libertà non è
servita a dare maggiore benessere. Nonostante la svolta, i negozi continuano
ad essere semivuoti e quello che all'epoca di Breznev era penuria oggi
è addirittura povertà.
La "terza
via"
Convinzione dei riformisti è che esiste ed è attuabile
una terza via tra l'economia dirigista di Stalin e quella capitalistica.
Ed è l'economia mista, che consiste nel coordinare la produzione
statale, centralizzata, con il libero mercato.
Una teoria questa che si allontana dagli insegnamenti di Lenin, che
in quelle due forme di produzione vedeva un insanabile conflitto.
I riformisti, inoltre, guardano al mercato come unica soluzione alla
carenza di beni esistente nel paese. Ma, al tempo stesso, osteggiano
le leggi spietate che gli sono proprie. Vorrebbero, cioè, che
il passaggio ad un'economia mista si realizzasse senza alti costi
sociali.
Un'illusione. Il mercato porta inevitabilmente con sé, quanto
meno nel primo periodo, inflazione e disoccupazione. Ed è su
questi fattori che si gioca il destino della svolta. Dietro la perestrojka
ci sono gli intellettuali, i tecnici qualificati, gli alti dirigenti
del partito. Ma i nemici sono certamente più numerosi. I conservatori
hanno argomenti molto più convincenti per portare dalla loro
larghi strati della popolazione. Di fronte alle incertezze e alla
precarietà della nuova situazione, infatti, molti rimpiangono
il vecchio regime, inefficiente ma garantista.
E così, paradossalmente, Gorbaciov, che in tutti questi anni
ha appoggiato e facilitato lo smantellamento del sistema imperiale
extraeuropeo (Afghanistan, Angola, Vietnam), nonché della corona
periferica di sicurezza (Polonia, Germania Est, Cecoslovacchia, Ungheria),
trova oggi le maggiori resistenze proprio all'interno del paese.
L'accusa, da un lato, è di aver gettato la Russia nell'anarchia
e nella guerra civile; dall'altro, di non averne minimamente risollevato
le sorti economiche. L'operaio denuncia "la crescita dei prezzi
e l'assenza di merci nei negozi". Il contadino si oppone all'abolizione
dei kolchoz e dei sovchoz. Tutti concordi sul fatto che non si può
ancora invocare "la pazienza della gente"! Nonostante queste
accuse e nonostante il reale e crescente malcontento della popolazione,
il leader sovietico non cade. Non è un caso. Nessuno dei suoi
avversari vorrebbe trovarsi al suo posto, non foss'altro per l'assoluta
mancanza di programmi sostitutivi da proporre. Come dice lo stesso
Gorbaciov, sembra proprio che "la perestrojka non abbia alternative".
Anche se il passaggio dal totalitarismo politico al pluralismo e dall'economia
pianificata al mercato non è un'esperienza di tutti i giorni.
Di fatto, non si è mai verificata.
Trends economici
Il sistema economico sovietico si caratterizza ancora oggi per la
carenza di beni di consumo di origine industriale e per lo stallo
in cui versa la produzione di generi alimentari. All'epoca di Stalin,
questa era una politica voluta: l'obiettivo era di favorire l'accumulazione
- quindi il risparmio - comprimendo i consumi. Attualmente, invece,
resta quale effetto indesiderato della pianificazione. Si assiste
così ad una situazione assurda: i salari crescono, ma la gente
non sa che farsene, visto che non può trovare sul mercato i
beni di cui ha bisogno. Il malessere è diffuso. Secondo l'opinione
comune, la riconquista della libertà è servita solo
a creare una cerchia di nuovi ricchi.
Secondo i principali indicatori di sviluppo, l'economia sovietica
si sta avvicinando alla crescita zero. La ripresa, verificatasi nel
1986, non ha avuto seguito nell'anno successivo. Nel 1987, infatti,
il tasso di crescita del reddito nazionale prodotto, pari al 2,3%
(contro la previsione del 4,1%), è tra i più bassi dal
dopoguerra.
Una tendenza positiva, invece, si registra nel 1988 (tre punti in
più rispetto all'anno precedente). Tendenza che è riuscita
solo a portare l'economia sovietica ad un tasso di crescita analogo
a quello dell'era brezneviana, denominata del "ristagno".
Lo stesso trend si riscontra nei dati relativi alla produzione industriale.
Il 1986 è un anno di forte aumento degli investimenti in questo
settore; ma già nel 1987 la tendenza si attenua e nel 1988
continua a non dare segni di ripresa. D'altra parte, mentre nel quinquennio
'81-'85 gli investimenti industriali favorivano politiche di modernizzazione
produttiva, negli anni seguenti non sono più impiegati nel
rinnovamento tecnologico: torna in auge la vecchia politica di costruire
impianti nuovi senza ristrutturare quelli esistenti.
Nel 1989 non vi è alcuna svolta. Anzi. E' un anno veramente
critico. La produzione industriale avanza a ritmi molto lenti. Gli
obiettivi di piano, giù drasticamente ridimensionati nell'88,
vengono disattesi. Diminuisce la produzione di beni di investimento,
come pure quella di petrolio, carbone e acciaio. Critici anche i dati
relativi al settore strategico dei trasporti e delle comunicazioni.
La stessa bilancia commerciale si chiude in deficit rispetto all'attivo
ottenuto nell'anno precedente.
Altro settore in crisi è quello agricolo. Nonostante che negli
ultimi anni sia leggermente aumentata la produttività, la situazione
continua ad essere grave. Difficoltà provengono dal fronte
organizzativo. Il 20-30% del raccolto, infatti, viene perduto a causa
dell'inefficiente coordinamento tra produzione e trasformazione industriale
e della carenza di un razionale sistema distributivo. Tutto questo
ad onta di enormi investimenti, che nel settore costituiscono circa
il 27% dell'investimento complessivo.
La nuova politica
agraria
L'agricoltura è sempre stata un settore strategico per la Russia.
In passato perché sullo sfruttamento dei contadini si basavano
il sistema degli equilibri economici e il rapido sviluppo industriale.
Oggi perché la sua crisi mette in serio pericolo le sorti della
perestrojka. Convinzione dei riformisti è che un radicale mutamento
dei rapporti agrari possa rendere più agevole la stessa riforma
prevista per l'industria. Come vedremo, infatti, la carenza di prodotti
alimentari e di materie prime agricole, insieme alla parziale liberalizzazione
dei prezzi, hanno portato ad un notevole aumento dei costi di produzione
e all'impossibilità per lo Stato di mantenere gli attuali livelli
di sovvenzionamento. La crescita della produzione agricola avrebbe
l'effetto di contenere i prezzi di vendita e di bloccare la spirale
inflazionistica. Da qui le pressioni a ché abbiano reale applicazione
la legge sulle cooperative e lo statuto dei colcosiani.

La legge sulle cooperative ha l'obiettivo di liberalizzare l'iniziativa
economica' sulla base dell'esigenza che esista nel paese un rapporto
di concorrenzialità tra i due settori - cooperativo e privato
- e quello statale. Nello Statuto viene affermato il principio che
sta alla base di tutta la riforma economica: l'autonomia nelle sue
varie forme: organizzativa, di scelta delle colture, di accesso al
credito. In concreto, queste iniziative non hanno dato alcun risultato
positivo. La legge sulle cooperative è stata svuotata di contenuti.
E le stesse cooperative viste dalla gente come fonte di corruzione
e di affarismo. Mentre l'autonomia sancita dallo Statuto è
vanificata dal persistere di una situazione di dipendenza dallo Stato
che vede circa il 70% dei kolchoz nell'incapacità di fare scelte
proprie. Come per l'industria, anche per questo settore vi è
il rischio che i "goszakazy" (le commesse statali) si trasformino
in veri e propri ordini statali e che, dunque, nulla muti rispetto
al passato.
Sono dei mesi scorsi, inoltre, due nuove leggi con le quali s'introduce
la proprietà individuale e il "possesso a vita" dei
terreni, trasmissibili in eredità. In particolare, la legge
sulla terra assicurerà ai contadini "il diritto di disporre
dei prodotti coltivati e dei profitti che derivano dalla loro vendita".
Un'iniziativa importante che, secondo la Tass, "renderà
il contadino finalmente certo del suo domani".
La normativa, inoltre, prevede che sovchoz e kolchoz ottengano le
terre in proprietà permanente: un radicale mutamento rispetto
al regime attuale, che consente solo l'utilizzo dei campi, mentre
il raccolto appartiene di fatto allo Stato, che lo acquista a prezzi
irrisori. Ma è chiaro che queste novità legislative
aprono la strada al definitivo superamento dei kolchoz e alla nascita
e allo sviluppo delle prime fattorie private.
Enormi resistenze vengono allora dal fronte conservatore. La paura
è che la proprietà individuale sconvolga il sistema
e che "la società sovietica cessi di essere una società
socialista".
La legge sull'impresa
In vigore dal 1 gennaio 1988, è il punto cruciale della riforma
economica. In essa è sancito il principio di autonomia dell'impresa.
Infatti, dall'inizio del 1989, in tutte le unità industriali
vige l'autonomia contabile, finanziaria e gestionale. Ma è
un principio ancora meramente nominalistico, difficile da tradurre
in pratica. La sua attuazione richiede, tra l'altro, che siano realizzate
importanti modifiche nel sistema creditizio, nel sistema dei prezzi,
nei criteri di piano. Richiede, inoltre, che si proceda alla formazione
di un mercato all'ingrosso dei mezzi di produzione.
Ora, la scelta politica in atto, frutto di compromesso tra riformisti
e conservatori, è quella di compiere queste riforme gradualmente,
differenziandone i tempi di attuazione. La logica dei correttivi "a
piccole dosi" nasce dalla convinzione che il Paese non accetterebbe
mutamenti drastici. Ma il rischio è quello di dar vita ad un
circolo vizioso in cui, da una parte, l'autonomia dell'impresa è
ostacolata dal persistere di elementi di rigidità e in cui,
dall'altra, il sistema dei prezzi e la struttura del mercato non possono
essere modificati proprio per la mancanza di una piena autonomia dell'impresa
stessa. Si tratta di aspetti strettamente correlati: il passaggio
all'autogestione, non accompagnato dalle suindicate riforme, getta
le imprese nel caos. Di fronte ai disagi della nuova situazione molti
chiedono il ritorno ai vecchi metodi. Ma anche prescindendo da questo
problema, altre difficoltà si profilano.
Innanzitutto, l'autonomia implica per le imprese l'adozione di politiche
di razionalizzazione produttiva, di riduzione degli sprechi, di rinnovamento
tecnologico. Tutti sappiamo, però, che questa è una
cultura sconosciuta all'Unione Sovietica.
Da sempre le imprese hanno fatto affidamento sulle sovvenzioni statali.
Ne è derivato un atteggiamento pigro e parassitario, lontano
da ogni criterio di economicità. Con la piena realizzazione
della riforma nulla di tutto questo può sopravvivere.
Il pagamento di interessi sui crediti bancari deve sostituire la politica
dei crediti gratuiti. L'uso incondizionato di risorse naturali, fonte
di inauditi sprechi, va ridimensionato con il pagamento di una rendita.
Ai bassi prezzi praticati per le forniture di semilavorati e di materie
prime deve subentrare un regime di prezzi "equi", se non
di mercato.
Un passo quest'ultimo ormai obbligato, dato l'aumento dei costi cui
vanno incontro i suddetti fattori: i giacimenti presenti nella parte
occidentale dell'U.R.S.S. sono, infatti, esauriti ed è necessario
intraprendere lo sfruttamento dei giacimenti situati in zone più
lontane.
Tutto questo sta a significare che anche i costi di produzione industriale
sono destinati ad aumentare.
Per contro, i profitti potranno essere conseguiti solo in un'ottica
di lungo periodo; mentre la concorrenza metterà in serio pericolo
la vita delle imprese meno competitive. In questa fase, quindi, è
molto probabile che le unità produttive più deboli chiedano
sussidi allo Stato e premano per un ritorno al precedente sistema.
Ma le difficoltà non si fermano qui. Altri problemi provocano
resistenze al nuovo corso. Basti pensare alla riforma dei prezzi.
Innanzitutto, osserviamo che il tentativo di dar vita ad una soluzione
intermedia, tra prezzi liberi e prezzi imposti dallo Stato, si è
allontanato dall'obiettivo di fornire al paese seri punti economici
di riferimento.
Secondo la legge, infatti, non tutti i prezzi possono essere determinati
dal mercato. Restano di competenza statale i prezzi dei beni di particolare
importanza, quali le materie prime, l'energia, i macchinari, molti
beni di consumo. Si tratta di settori fondamentali, per i quali persiste
la politica di sovvenzionamento. Naturalmente, le relative imprese
continuano a non avere alcun interesse nel modificare gli inefficienti
metodi di gestione.
Ma a parte il netto contrasto con il principio dell'autonomia, questa
politica paternalistica non può protrarsi a lungo. Finora lo
Stato ha potuto mantenere bassi i prezzi di vendita dei prodotti industriali
grazie ad un regime di contenimento del costo del lavoro, che a sua
volta veniva realizzato attraverso l'imposizione ai contadini di prezzi
di acquisto quasi ridicoli. Ora, la parziale liberalizzazione dei
prezzi agricoli ha determinato l'aumento degli stessi e la conseguente
perdita, da parte dello Stato, della sua principale fonte di accumulazione.
Da qui l'impossibilità di mantenere i vecchi standards di sovvenzionamento.
Così anche i prezzi "calmierati" sono destinati ad
aumentare e devono, come minimo, essere adeguati ai costi di produzione.
Di fatto, gli aumenti sono già in corso. Anche se non sono
tali da eliminare gli elevatissimi sussidi statali. E' certo, quindi,
che vi saranno ulteriori rincari. Intanto, la situazione ha già
dato vita ad una spinta verso l'alto dei salari. E' stata cioè
innescata, per la prima volta in Unione Sovietica, la spirale inflazionistica.
Il turbamento tra i consumatori è diffuso.
E ancora: l'autonomia implica responsabilizzazione. Le imprese non
possono più permettersi il lusso di sperperare risorse. Le
possibilità di guadagno sono legate proprio alla loro capacità
di ridurre le spese e di razionalizzare la produzione. Ma, come dicevamo,
i costi di produzione tendono ad aumentare a causa del rincaro dei
prezzi delle materie prime e dei semilavorati. L'unico fattore su
cui l'impresa può agire resta la forza lavoro.
E allora, o si procede ai licenziamenti o si riducono i salari. Né
l'una né l'altra soluzione possono essere adottate senza che,
nel contempo, aumenti il malumore degli operai. La riduzione dei salari
è addirittura improponibile di fronte, come abbiamo visto,
ad un rincaro del costo della vita. Per quanto riguarda la prima soluzione,
ricordiamo che nel solo 1988 sono stati eliminati ben 1 milione di
posti di lavoro.
Il licenziamento dovrebbe essere inquadrato in una logica di utilizzo
estensivo della forza lavoro. Si tratta di creare nuove fabbriche
nelle zone meno sviluppate del paese e dove, d'altra parte, sono concentrate
le Conti di materie prime non ancora sfruttate. Ma anche in questo
caso sorgeranno proteste.
Malvolentieri, infatti, i lavoratori accetteranno di essere spostati
in zone molto lontane, inospitali e carenti di servizi. Il pericolo,
insomma, è che la riforma, sostenuta in principio dal basso,
venga osteggiata proprio dalle forze popolari, che più direttamente
ne subiscono i costi e i sacrifici.
Ostacoli all'attuazione della legge vengono, inoltre, anche dal fronte
Istituzionale. In effetti, sono tutt'altro che recisi i legami con
la vecchia politica di pianificazione amministrativa. Le parole di
Gorbaciov, pronunziate più di un anno fa, sono ancora attuali:
"Sotto forma di commesse statali è stato praticamente
conservato il precedente sistema degli obiettivi obbligatori per il
volume di produzione.
Questo non è altro che il risultato del potere dei ministeri
in assenza del dovuto controllo, con la connivenza del Gosplan e degli
organi permanenti del Consiglio dei ministri" (da URSS oggi).
I "goszakazy", le commesse non vincolanti che hanno sostituito
i precedenti ordini statali, avrebbero dovuto ridurre lo Stato alla
stregua di un qualunque altro cliente. In quest'ottica, le imprese
avrebbero dovuto concorrere tra loro per ottenere quelle commesse.
In concreto, le ordinazioni statali assorbono tuttora una quota estremamente
alta della produzione complessiva, circa l'80%, vincolano le imprese
e non consentono che si instauri quel rapporto di concorrenzialità
tra le stesse.
Nazionalismo
e Potere
Abbiamo detto in precedenza che nessuno degli avversari di Gorbaciov
vorrebbe trovarsi al suo posto in questo momento. Il Presidente sovietico
deve oggi fare i conti con quelle forze che la perestrojka ha scomposto,
con i sentimenti covati sottocenere per anni e venuti fuori in modo
convulso, incontrollabile: ed è separatismo nel Baltico, autonomismo
"naturale" in Armenia, fondamentalismo islamico in Azerbajdzan.
Si tratta di questioni gravi, figlie di un processo di disgregazione
sociale oltre che economica. La sensazione dominante in URSS in questo
momento è quella di essere In presenza di un "potere impotente",
che ha sconvolto anche quelle poche certezze esistenti, che ha fatto
saltare in aria il processo di sovietizzazione, l'unico principio
in grado di tenere unito l'impero. Ammonisce Andranik Migranian: "Verrà
presto il giorno in cui prima di chiedersi se il potere del Cremlino
è democratico, l'Occidente si chiederà se è ancora
un potere"!
Solo in quest'ottica si spiega la tragedia di Baku. L'invio dell'Armata
Rossa nella città ha avuto una pericolosa valenza politica.
L'obiettivo non è stato tanto quello di far cessare un conflitto
inter-etnico, quanto di riaffermare la presenza e l'autorità
dello Stato di fronte ad un fondamentalismo eversivo e destabilizzante,
quale quello degli estremisti azeri, definiti da Gorbaciov "forze
di carattere antistatale, anticostituzionale, antipopolare, che in
alcune regioni hanno sopraffatto ogni autorità, distruggendo
le frontiere sovietiche, senza più nascondere l'obiettivo di
conquistare il potere con la violenza".
Il gesto "esemplare" compiuto a Baku è comunque gravido
di conseguenze e non sarà ancora l'esercito a risolverle. Gli
azeri che hanno vissuto in prima persona la tragedia, e che non sono
tutti musulmani, ora strappano le tessere del Pcus, bruciano le bandiere
rosse, gridano il loro odio verso lo Stato sovietico: "Abbasso
il fascismo del partito comunista dell'Unione Sovietica", "Gorbaciov
è il boia del popolo kazako, di quello georgiano ed azero".
L'appello del leader all'unità, in nome di una vita migliore
di tutti i popoli dell'URSS, appare un gesto quasi disperato. Come
disse Bulgakov: "Brutta cosa vivere mentre crollano gli imperi".
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