§ Il corsivo

Piazza dell'utopia




Aldo Bello



Quante piazze ho nel cuore da quando faccio questo mestiere? San Venceslao, a Praga, dove nel '68 i carri armati sovietici schiacciarono la Primavera cecoslovacca; Jaleh. a Teheran, dove le truppe speciali dello Sciò fecero strage della folla affamata e aprirono un varco all'integralismo islamico; della Vittoria, a Varsavia, dove emerse Solidarnosc, de Mayo, a Buenos Aires, con le madri dei desaparecidos in gramaglie; Bolìvar, in Bolivia, col sogno della libertà campesina; de la Paix, ad Algeri, col sogno del pane; Tienanmen, a Pechino, col sogno della democrazia; Puskin, a Mosca, col sogno della perestrojka; Alexanderplatz, a Berlino, col sogno della riunificazione. E le piazze di Soweto, contro l'apartheid; di Panama, contro il narcotraffico; di Ramallah, nel segno dell'intifada... Un gran brivido percorre il mondo; o quel mondo che non è "a due terzi di luce", come si dice; volendo precisare che, nel rimanente terzo, le componenti della libertà, della democrazia e dello sviluppo sono incompiute, se non proprio lontane - o remote - dal compiersi. Qui dunque, nelle piazze di questo mondo a un terzo di luce, si prospetta - travolgente - lo scenario di risorgimenti destinati a lasciare il segno, perché ispirati e mossi (si tratti di fattori etnici o politici o economici, separati o confluenti, poco importa) dalla memoria collettiva.
E' stato scritto che in Europa la famiglia, la Chiesa e la comunità, nei loro vari momenti di vita, agirono per secoli per la formazione di questa memoria, trasmettendo essenzialmente il passato dopo averlo selezionato ed elaborato. Ed era una memoria fruibile da tutti, univoca e interclassista e, almeno nella coscienza o nell'opinione dei più, politicamente neutra. Fino a che nell'Ottocento le ideologie della modernizzazione europea mandarono in frantumi questo quadro. Dice Galli Della Loggia: "Non fu solo l'affermazione dell'individualismo come modello di costruzione della personalità e come matrice di nuovi rapporti sociali. Altrettanto importante fu il fatto che l'ambito della memoria collettiva divenne terreno di aperta contesa ideologico-politica".Dapprima l'Illuminismo, in seguito il Romanticismo con le sue istanze nazionalistiche, infatti, scatenarono "contro" o "sul" passato una lotta la cui sola analogia possibile è forse quella condotta dal Cristianesimo contro Roma; lotta poi proseguita dai virulenti eredi di questo secolo: il leninismo e il nazifascismo. Al posto di famiglia, Chiesa e comunità, la società liberale preferì la scuola per la formazione-trasmissione della memoria collettiva. La scuola pubblica, l'università. Scontò, allora, l'ampiezza della memoria, limitata sostanzialmente a un'ottica culturale, con la riproduzione dei valori collettivi: e di conseguenza rappresentò solo una parte della società e finì per negare il progetto stesso della sua istituzionalità, cioè l'autonomia dell'individuo. Questi limiti e contraddizioni sono esplosi nei decenni nostri all'interno delle società occidentali con democrazia di massa: scuola e università hanno finito col dispensare nozioni erratiche "e di una blanda socializzazione da oratorio laico". Precisa Galli Della Loggia: "Forse per la prima volta nella storia, una società ha perduto il "controllo" del passato, il controllo-possesso stabile e fondante di un suo passato, imputabile ad essa in quanto insieme collettivo". Ogni gruppo, lobby, club, partito, può scegliersi e costruirsi il passato che più gli aggrada: e in questo modo trasferisce retrospettivamente (dilatandola) la corporativizzazione tipica delle società democratiche. "Dopo aver servito come puntello ai più tirannici e onnivori storicismi, il passato è ora chiamato a giustificare l'incomponibile parzialità delle identità".
Ma l'insieme delle memorie parziali dei diversi gruppi sociali non compensa la perdita della memoria-identità generale. Senza il possesso di una parte almeno di memoria collettiva si è condannati alla non-comunicazione, che è il primo passo - ma decisivo - verso la deculturizzazione radicale. Verso il vuoto. Che pure dovrò essere colmato: dal mercato, dalla moda, dai loro surrogati.
Tra retorica e ipocrisia, la storia italiana contemporanea è cresciuta nel mito del do it yourself democracy, della democrazia fatta con le nostre mani: la Resistenza abbatté il Fascismo, i Costituenti ci consegnarono le istituzioni democratiche; la democrazia vive per la forte volontà democratica degli italiani. Niente di più parziale. Il Fascismo cadde perché perse la guerra; le istituzioni democratiche sarebbero nate anche senza la Resistenza, come si verificò in Germania e in Giappone; la nostra stabilità si spiega con la stabilità del quadro politico internazionale.
La democrazia nacque a Roma, a Bonn e a Tokyo, come diretta emanazione del progetto rooseveltiano di "imperialismo democratico", proiezione internazionale del New Deal, elaborato dalla Costa Atlantica già in tempo di guerra, quando fu chiaro che il baricentro della storia avrebbe abbandonato l'Europa e che la profezia formulata un secolo prima da Tocqueville stava per realizzarsi: America e Russia stavano per ereditare il mondo.
Il progetto, nei suoi tre cardini dell'economia di mercato, del libero scambio e della democrazia liberale, non fu accettato di buon grado dall'Italia. Gli industriali, abituati alle protezioni di regime, osteggiarono il libero scambio. La democrazia liberale venne innestato su un terreno culturale tutt'altro che propizio: la Chiesa e le masse cattoliche (malgrado il cattolico-liberale De Gasperi) la accettarono perché non avevano alternative: tant'è che il Vaticano continuò ad appoggiare a lungo le dittature spagnola e portoghese. Le masse comuniste, a loro volta, subirono Yalta.
Sono stati gli squilibri internazionali a garantire la tenuta delle istituzioni liberal-democratiche in Italia. Scrive Angelo Panebianco: "Chi ritiene che la democrazia liberale abbia ormai messo autonome radici ha l'onere di spiegare come mai non si sia mai affermato, in Italia, un comune codice deontologico della democrazia. E' chiaro a chiunque che se un politico italiano, di qualsiasi bandiera, osasse dire, come Kennedy, "non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese", verrebbe immediatamente seppellito, per dirla con Nietzsche, sotto un'omerica (e corale) risata".
In realtà, dunque, noi non abbiamo mai interiorizzato le regole della democrazia. Allora è inconsistente lo stereotipo che contrappone un Paese reale (sano) a un paese legale (corrotto). Beota è poi l'altro stereotipo, che vorrebbe contrapporre un'area "sana" del Paese ad un'altra. "corrotta". Il monadismo regionale di Alberto di Giussano è antistorica memoria parziale.
Il baricentro del mondo si sta nuovamente spostando. Questa volta, nel Pacifico. Il processo' innescato da tempo, sta allontanando gli Stati Uniti dall'Europa, specularmente al declino americano nel pianeta. Se il processo di separazione è lento, ciò è dovuto alle dissimulazioni consentite dai travagli della perestrojka. Oltre tutto, negli Stati Uniti cresce esponenzialmente il peso elettorale di gruppi etnici latino-americani ed asiatici, estranei culturalmente all'Europa. E l'acutizzarsi dei problemi di democrazia e di sviluppo in Unione Sovietica e nell'Europa dell'Est impediscono che il baricentro della storia torni nel Vecchio Continente, dove la Germania Federale e quella Democratica hanno delicati problemi di rapporti e di prospettive.
Dunque: allentate le reti di protezione, caduti i puntelli esterni, sbiadita la memoria collettiva, rinvigorite oltre misura e fuori controllo le lobbies, che cosa sarà dell'anossica democrazia italiana? Slitterò verso una forma di corporativismo salazariano (che fu il sogno irrealizzato di Pio XII), sia pure soft, dietro una facciata di progressismo e di istanze irenico-terzomondiste, con la benedizione d'Oltre Tevere? E' un'ipotesi brutale, ma comunque fuori dallo scenario di retorica e di ipocrisia che ha visto sfiorire nel breve spazio d'un mattino l'idea del buongoverno einaudiano. E che sarà di un Paese che ha un muro nel cuore, percorso, per di più, da lampi di schizofrenia razzista? Che sarà del Sud?
Stato o mercato? Pubblico o privato? Spesa ordinaria o intervento straordinario? Tornano gli interrogativi irrisolti, alla ricerca della ricetta finalmente buona per il Mezzogiorno. E' difficile scegliere le formule in una realtà che le ricette le ha provate tutte, nel bene e nel male traendo da ciascuna un certo beneficio, senza mai raggiungere la guarigione. E ora il rischio è quello di un aggravamento definitivo da contatto: un contatto che si chiama, appunto, Europa; lo stesso che all'inizio degli anni '50 interruppe le speranze del Sud in una piena integrazione nazionale con una prima sia pur timida apertura delle frontiere europee. Ora, il fatidico '93 alle porte suggerisce a Mario Sarcinelli preoccupate notazioni sul futuro del Sud in Europa (Moneta e Credito, giugno 1 989). E' incredibile di quali alleanze autorevoli goda oggi il Sud, dalla Banca d'Italia al Tesoro: il che da la misura del livello delle preoccupazioni, rispetto ad una società civile miope ed emarginatrice. E va dato atto alla relazione di Antonio D'Amato al convegno di Capri, di un coraggio e di una lucidità davvero inconsueti, anche per gli accenti di aperta autocritica.
Ma oggi il problema sembra diverso e D'Amato ha il merito d'aver dischiuso questa prospettiva. Giunti a questo punto, infatti, la questione del Sud finisce per combaciare con quella dell'Italia nell'Europa del mercato unico e, in definitiva, con quella dello Stato e del governo dell'economia. Dio sa quanto bisogno avremmo di far tornare il Sud nell'ambito delle politiche regionali di sviluppo, ma per una volta sia consentito di fare un passo indietro nell'analisi dei fatti. Si dice che bisogna riportare lo Stato nel Mezzogiorno. Ma quale Stato? Quello dei decennali silenzi su Ustica, o quello di un Consiglio superiore della magistratura che rischia di infrangere se stesso e il proprio prestigio sugli scogli avvelenati del "caso Palermo"?
Il nostro è uno Stato debole, ma integrato al Nord da una società civile articolata e moderna che di esso non ha un gran bisogno. Risulta inadeguato alla complessità di un governo della società industriale avanzata, ma in esso i partiti mantengono un peso sproporzionato, sia sotto il profilo di un consenso ormai ossificato sia sotto quello di un potere assoluto di scelta degli uomini che c'è e resta, e di cui i partiti non hanno intenzione di privarsi. L'analisi, anch'essa svolta a Capri da autorevoli uomini di governo, non sembra lasciare adito a dubbi al riguardo.
Nonché quindi pensare a non meglio definite riforme istituzionali, eccoci travolti dalla frenetica ricerca di minuscole frange di consenso in consultazioni d'ogni tipo, ripetute a cadenza infrannuale, con valori politici attribuiti a quelle squisitamente amministrative. Ora, in queste condizioni, quale Stato dobbiamo avviare verso il Sud? Lo Stato che esiste è già presente a Mezzogiorno nelle forme che purtroppo conosciamo, e non ha saputo trovare di meglio che una legge come la famigerata n. 64 del 1986, che a più di tre anni dalla suo emanazione suggerisce ancora autorevoli dubbi interpretativi a Massimo Annesi e a Giovanni Marongiu (Rivista giuridica del Mezzogiorno, Svimez n. 2, 1989). Lo Stato che ideò e realizzò l'intervento straordinario nel ventennio '50-'70 era in qualche misura diverso e la sua crisi ha finito per coincidere con quella dello stesso Sud nel quale, dopo gli shock petroliferi degli anni '70, si è verificato il blocco del processo di crescita. Se è vero che l'intervento straordinario ha finito col sostituire (con le devastanti distorsioni di antropologia politica e culturale che ha comportato) quello ordinario, è altrettanto vero che con il primo è finito anche il secondo.
Mentre gli investimenti, nella media del Paese, mantengono ormai da oltre un biennio tassi di crescita assai elevati, essi non riguardano che in minima parte il Mezzogiorno. Un tasso di disoccupazione del 12 per cento in campo nazionale, previsto dall'ultimo Rapporto Prometeia, implica un tasso almeno doppio nel Sud e in particolare nelle sue zone più depresse.
Uno Stato, quindi, che non governa certo i tumultuosi processi della moderna economia e finanza. Senza dire che in ogni caso governare l'economia non può voler dire forzare il mercato, ma semmai creare le condizioni per lo sviluppo di esso, eliminando la rigidità del salario e ricreando la mobilità dei fattori, come precisamente auspica Sarcinelli. Ma di tutto questo non c'è alcun segno -come almeno prima avveniva - nelle enunciazioni programmatiche del governo. Ancora una volta, allora, il crollo dello Stato minaccia di divenire il crollo del Sud. Torna vero l'antico ammonimento, apparentemente denegato, secondo cui l'Italia sarà ciò che sarà il Mezzogiorno?
Manca una piazza ideale, neo-illuministica, nell'esperienza contemporanea. Una piazza italiano nella quale si abbattano le coscienze di pietra e si realizzi un'"utopia capovolta". Ha scritto Salvatore Veca: "Ho l'impressione (...) che "democrazia" sia un termine terribilmente vago. In parole povere, la democrazia mi sembra uno "strano oggetto" in cerca di teoria. Non è poi così sorprendente che le cose stiano in questo modo. La democrazia dei contemporanei non è altro che "quanto stiamo facendo", in un angolo di mondo, da un secolo circa. Se la consideriamo come un insieme di istituzioni, procedure, regole per la vita pubblica, siamo di fronte a un mosaico fatto di tante tessere differenti. Se la consideriamo come un insieme di principii, ideali e valori, l'impressione del puzzle si rafforza. In realtà, le "democrazie" dei contemporanei non sono venute al mondo come Minerva dalla testa di Giove. Esse sono piuttosto l'esito di una lunga, complicata evoluzione, di una specie di bricolage, di conflitti, di compromessi fra interessi, valori e principii alternativi e rivali (...). E' una sfida seria per il mantenimento delle promesse inadempiute della democrazia. Dobbiamo imparare a convivere con questa tensione essenziale che si esprime nel conflitto fra i due ingredienti di valore, entrambi irrinunciabili, dell'individualismo e del pluralismo".
La piazza può essere quella la cui storia oscilli fra Hobbes e Kant, nella quale un'etica abbia bisogno di una politica, e viceversa, e di istituzioni, regole, patti, e viceversa. Di un nuovo contratto sociale. Di intelligenza, in quest'Italia imperfetta, con le piazze minime, opulente, qualunquiste, servili; rapaci e malavitose; con le prediche millenaristiche e con le strategie politico-economiche ciniche. Con i cuori viola e con le coscienze pallide. Ma c'è ancora spazio per questa piazza dell'utopia?

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