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Un settecento europeo
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Maledetti Borboni? |
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Ada
Provenzano, Tonino Caputo, Gianfranco Langatta
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Nessun
rapporto di causa ed effetto tra l'esplosione di antimeridionalismo
in alcune regioni del Nord e la celebrazione della cultura meridionale
del Settecento, svoltasi in un approfondito dibattito alla Reggia di
Caserta, presenti i principi delle case reali di Borbone e degli Asburgo.
Vogliamo dire che all'antimeridionalismo delle "lighe" non
si è risposto inalberando la bandiera col giglio del Regno delle
Due Sicilie, ma cercando di capire perché il problema dell'arretratezza
meridionale non venne risolto né dal dispotismo illuminato del
"secolo d'oro" della cultura napoletana, il Settecento, né
dal liberalismo dello Stato italiano, né dalla democrazia repubblicana
del dopoguerra.
Il convegno, su "I Borboni di Napoli e la Rivoluzione francese", ha avuto per guida ideale il titolo del libro dello storico Giuseppe Galasso "La filosofia in soccorso dei governi": titolo preso dal Filangieri, il settecentesco autore della "Scienza della legislazione", uno dei massimi esponenti dell'illuminismo napoletano. Il concetto è che la cultura, se non è mera attrazione accademica, può e deve fornire i contenuti di un'azione riformatrice di governo. E tale fu la cultura meridionale del Settecento che, dopo la decadenza del lungo viceregno spagnolo, esplose nel secolo dei lumi, quando nel 1734, con Carlo di Borbone, fu rifondato nel Sud lo Stato nazionale e per vari decenni cultura e dinastia procedettero in parallelo. L'Illuminismo napoletano proponeva ai nuovi regnanti non solo scienza della legislazione, a trasformazione della classe dirigente (Genovesi), spostando l'educazione dall'Umanesimo all'economia, in modo da creare una mentalità e una classe di imprenditori; nuova cultura anticuriale (Giannone), per emancipare il Regno dalle pretese feudali della Chiesa; rivoluzione nella medicina, con le sperimentazioni sulle malattie infettive di Cotugno e le neuroricerche di Pagano; legislazione sociale che, per i lavoratori della Reale Seteria di San Leucio, precorreva di un secolo le forme previdenziali a cui nella seconda metà dell'Ottocento darà impulso Bismarck nel Reich germanico. Insomma, la cultura in soccorso dei governi per realizzare la città dell'uomo, dopo le incompiute promesse della città di Dio in terra. La cultura si trasforma in classe-guida, che fornisce programmi ai ministri spagnoli, toscani e inglesi che operano alla Corte di Napoli: né la scelta dei ministri stranieri è un capriccio della dinastia, ma riconoscimento anticipatore dell'universalità europea della cultura del secolo, che gli intellettuali meridionali rendevano napoletana nel momento stesso in cui la arricchivano di originalità napoletana. Forse è per questo connubio profondo tra il Sud e l'Europa del Settecento che qualcuno ha voluto dire a Caserta che senza la fine del Regno di Napoli, nel 1860, oggi i meridionali non avrebbero bisogno di aiuto ed il Mezzogiorno sarebbe molto più europeo. In realtà, se da un punto di vista sentimentale si possono comprendere le ragioni di chi ha esaltato la gloria del re di Napoli, non va dimenticato che la storiografia ammoniva con Croce che il regno di Napoli era "finito in idea" nel 1799, quando, dieci anni dopo la presa della Bastiglia, anche a Napoli esplose, tardiva e sfortunata, la rivoluzione, che spezzò il procedere parallelo di cultura e dinastia. "Gloriosa sconfitta" di quella rivoluzione, che vide alcuni degli intellettuali passare dal ruolo di soccorritori del governo al ruolo di governanti essi stessi, padri necessitati di una Repubblica che abbozzerò una Costituzione della quale -affermerà con razionalità storicistica uno di quei padri, Vincenzo Cuoco - "se è buona per tutti gli uomini, vuoi dire che non è buona per nessuno". In realtà, l'illuminismo napoletano crollò quando da consigliere del principe divenne principe esso stesso, perdendo innanzitutto il senso dei tempi storici: così da cominciare la rivoluzione quando in Francia era finita e già quasi ripudiata. "Gloriosa", dunque, la rivoluzione napoletana del 1799, solo perché alimenterò, nell'Ottocento, il colpo d'ala al moto di risorgimento nazionale. Ma fu del tutto gratuita la conclusione astrattamente rivoluzionaria dell'Illuminismo meridionale? Non proprio: nel '99 le riforme del Regno del Sud erano ancora quasi tutte da fare: ogni cosa era stata scritta nel libro degli intellettuali, ma solo alcune cose erano state realizzate dai governanti del "dispotismo illuminato", tuttavia con alcuni primati consacrati (San Leucio; la prima ferrovia italiana; il catasto onciario che rendeva certe le proprietà; la stazione marittima; la fabbrica di porcellane a Capodimonte; l'arte presepiale; le regge di Caserta e Portici; il teatro San Carlo; l'"Albergo dei Poveri"; la delimitazione del potere feudale a difesa della libertà personale; un principio di rivoluzione industriale, con garanzie sociali, sanitarie e previdenziali; persino le prime carte di credito: tutte realtà, che i giacobini d'oltralpe andavano reclamando con furore da tempo). Comunque, la vita del reame non era solo quella dello splendore della Versailles mediterranea, cioè della reggia casertana del Vanvitelli. "Ai cancelli delle nostre ville - ammoniva Genovesi - ci sono gli Ottentotti"; e Galanti, il grande scrittore politico-geografico del Regno, relazionava al re, impegnato a rendere sempre più splendida una capitale che, insieme con Parigi, era la più popolosa d'Europa, sostenendo che la miseria fisica e civile cominciava appena quindici chilometri fuori Napoli. I problemi che si pose la cultura napoletana del Settecento furono dunque gli stessi che oggi costringono gli italiani più responsabili a rompersi la testa contro e con la questione meridionale. La quale non nasce con la formazione del Regno d'Italia, nel 1860, ma le preesiste, proprio perché il bilancio riformistico del Settecento napoletano (nell'amministrazione, nella giustizia, nei diritti civili, negli indirizzi scolastici, nel rinnovamento imprenditoriale) non era adeguato ai bisogni del Mezzogiorno. Che non fosse colpa del Borbone, come invece ha sostenuto una storiografia viziosa, è vero: la depressione veniva da lontano. Ma la situazione era quella. Situazione politico-economica e sociale, intendiamo dire. Perché sotto moltissimi altri aspetti l'Illuminismo napoletano fu anticipatore in campo europeo. E' il caso della celeberrima "Enciclopédie". La storia degli eventi che le dettero origine, così come oggi la conosciamo, è ricca di fascino e di intrighi. L'editore Le Breton aveva iniziato da solo l'avventura editoriale dell'Enciclopedia. Nel gennaio del 1745 Gottfried Sellius, un traduttore tedesco di Danzica, gli propose una sua traduzione in francese della "Cyclopedia" di Ephraim Chambers presentando, per rendere economicamente interessante l'evento, un possibile socio finanziario dell'impresa, un inglese, John Mills, definito "ricco e opulento", ma ben presto rivelatosi affarista di poco conto. Nel febbraio dello stesso anno, Le Breton stipulò con Sellius e Mills il primo contratto per la traduzione in francese, corretta e ampliata, dell'opera di Chambers. Poco dopo, venne emessa una licenza di stampa in bianco per quella traduzione. Ma in agosto un litigio portò alla rottura tra editore e traduttori (pessimi traduttori), con conseguente revoca della licenza. Le Breton aprì allora trattative con i librai Briasson, David e Durand, per continuare insieme con loro l'opera, giungendo al relativo contratto di collaborazione nel gennaio 1746. Forse, proprio i tre editori associati coinvolsero nell'impresa Diderot e D'Alembert. Il primo - all'epoca impiegato presso costoro per la traduzione del "Dizionario di medicina", di James - fu interessato inizialmente soltanto come traduttore, mentre D'Alembert, che era già membro dell'Accadémie des Sciences, ebbe l'incarico di una revisione critica delle parti scientifiche. In giugno, la direzione dell'opera di traduzione fu affidata formalmente all'Abate Gua de Malves, che vi lavorava fin dagli ultimi mesi del 1745. Ben presto, tra Diderot e l'abate Gua sorsero diatribe e scontri, che portarono al fatidico 1747, quando in agosto anche Gua troncò il contratto editoriale, aprendo la via al subentro ufficiale di Diderot e D'Alembert nella direzione dei lavori. Decollò così la vera "avventura" dell'"Enciclopedia", in particolare quando, nel 1748, gli editori ottennero un nuovo privilegio per un'opera oramai profondamente diversa dalla semplice trasposizione in francese dei lavori di Chambers. Intanto, a Napoli, accadeva un fatto eccezionale. Alla fine del 1747, Giuseppe Maria Secondo pubblicava la traduzione della stessa opera di Chambers col titolo: "Ciclopedia ovvero Dizionario Universale delle Arti e delle scienze che contiene un'Esposizione de' Termini ed una Relazione delle cose significate da' medesimi nelle arti liberali e meccaniche e nelle scienze umane e divine. Le figure, le spezie, le proprietà, le produzioni, le preparazioni ed usi delle cose naturali ed artificiali. L'origine, il progresso e lo stato delle cose ecclesiastiche, civili, militari e del commercio co' varj sistemi, sette, opinioni & c. Tra filosofi, teologi, matematici, Medici, antiquarj, critici & c. / Diretto il tutto per un corso di antica, e moderna Letteratura, estratto / da' migliori Autori, Dizionari, Giornali, Memorie, Transazioni, / efemeridi, & c. in molti linguaggi". L'autore era pugliese, nato a Lucera, in Capitanata, nel 1715, cresciuto a Napoli; egli dedicò la propria opera, datandola 1° settembre 1947, "all'eccellentissimo signor cavaliere D. Carlo de Guevara de' Duchi di Bovino", fra l'altro con la motivazione: "Ella è a V. E. dovuta, non meno perché degna del vostro alto talento, che per averne data a me la prima notizia, e per avermi generosamente somministrato l'originale, donde è tratta la mia versione". Nel novembre 1750, Diderot pubblicò il suo celebre "Prospectus" (così innovativo rispetto a quello che nel '45 avevano redatto Sellius e Mills), che diventerà il vero e proprio programma editoriale dell'opera. Un programma che fu comunque molto contrastato, in particolare dai circoli religiosi vicini ai Gesuiti. Il testo del "Prospectus", con lievi modifiche, sarà ristampato come seguito al "Discorso preliminare" di D'Alembert con il quale si apre il primo tomo dell'Enciclopedia", finalmente pubblicato il 1° luglio 1751. La "Cyclopedia" di Chambers era così diventata "Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une société de gens de lettres". C'è, in questo titolo, la netta contrapposizione allo "spirito di geometria" col quale il precedente direttore, l'abate Gua de Malves, voleva caratterizzare l'opera, proponendo di fatto la semplice traduzione del testo inglese. E proprio nel "Prospectus" del '50 Diderot lascia intravedere alcune tracce interessanti di possibili collegamenti della "Encyclopédie" con la traduzione napoletana del 1747 del lavoro di Chambers, traduzione che può dunque essere vista come possibile, decisiva premessa alla decisione di impostare un'opera tutta nuova, piuttosto che soltanto una trasposizione linguistica. In quella sede, infatti, Diderot così si espresse: " (...) l'Enciclopedia di Chambers, della quale sono state pubblicate a Londra varie edizioni in breve tempo; quest'enciclopedia, di recente tradotta in italiano, e che a vostro avviso merita gli onori che le vengono tributati in Inghilterra e all'estero, non si sarebbe forse mai fatta se, prima ch'essa apparisse in inglese, non fossero già esistite nella nostra lingua opere dalle quali Chambers ha attinto oltre misura e senza discernimento la maggior parte delle cose che ha messo nel suo dizionario. Che cosa avrebbero dunque pensato i nostri francesi di una traduzione pura e semplice? Essa avrebbe suscitato l'indignazione dei dotti e le proteste del pubblico ... ". Mentre all'autore inglese dedicò un giusto encomio: "Noi non ricusiamo a quest'autore il riconoscimento dovutogli. Egli ha ben colto i vantaggi dell'ordine enciclopedico, ossia della concatenazione mediante la quale è possibile discendere dai primi principii d'una scienza o di un'arte fino alle sue conseguenze più remote; da queste risalire ai primi principii; passare impercettibilmente dall'una scienza o arte all'altra, e - se è permesso dir così - fare il giro del mondo letterario senza smarrirsi". Comunque, il filosofo francese ribadì come la sua proposta editoriale avesse una forte caratterizzazione francese, che andò ben oltre l'orizzonte entro cui si articolava l'Enciclopedia inglese. A questo punto, non pare azzardato pensare che un condizionamento "nazionalistico" avesse indotto Diderot a fare qualcosa che si differenziasse da ciò che Napoli aveva già proposto come opera esemplare, per di più in una lingua, quella italiana, molto simile alla francese. Né probabilmente fu estranea alla decisione di Diderot l'accusa avanzata dal traduttore pugliese Giuseppe Maria Secondo, là dove si chiese come mai gli intellettuali transalpini avessero trascurato di tradurre nella loro lingua un lavoro importante come quello di Chambers. Sulle motivazioni che dettero origine alla "Encyclopédie" si può quindi avanzare un'ipotesi non balzana: Diderot conobbe proprio l'edizione anticipatrice napoletana del '47, e non quella veneta dell'anno successivo, della "Cyclopedia" e si può immaginare che leggendo le critiche di stampo "campanilistico" mosse da Giuseppe Maria Secondo e meditando sulle difficoltà di metodo che una pura e semplice traduzione avrebbe comportato, sia stato indotto a optare per un'opera nuova. che da quella inglese traeva ispirazione soltanto per la sua impostazione generale: una piccola, ma significativa "scheggia" napoletana fra le reali motivazioni che indussero Diderot a tramutare un'ipotesi di traduzione in un'opera nuova e rivoluzionaria. Affascina, seduce l'idea che l'intuizione della grande Enciclopedia sia stata stimolata dalla caparbia volontà di un dimenticato scritto del Regno di Napoli, che seppe realizzare un'impresa che ricorda quella di Diderot, anche se in termini più limitati per concezione e per conseguenze culturali. A Giuseppe Maria Secondo di Lucera, verso il quale la memoria storica non è stata prodiga di ricordi, va comunque attribuito il privilegio di avere avviato, in un contesto italiano, quel processo che - arricchitosi d'altri contenuti e reso profondo e duraturo da altri interventi - renderà moderno anche da noi l'approccio al sapere. la pubblicazione napoletana della "CicIopedia" diede il via nel nostro Paese a una precisa tradizione culturale legata all'"Encyclopédie", che avrebbe trovato nuova linfa e conferma quando a Lucca fu pubblicata la prima riedizione della grande opera francese, appena qualche anno dopo l'iniziale apparizione presso le librerie di Parigi. Si dovette alla felice intuizione di Ottaviano Diodati, nobile lucchese. l'avere introdotto ufficialmente in Italia, quasi contemporaneamente all'apparizione in Francia, l'"Encyclopédie" di Diderot e di D'Alembert, stampata presso Vincenzo Giuntini tra il 1758 e il 1776 (i diciassette volumi di testo e gli undici di tavole dell'opera francese erano comparsi tra il 1751 e il 1772). Anche nei confronti di Diodati e di Giuntini la memoria storica non è stata particolarmente benevola, essendo l'uno e l'altro oggi quasi del tutto dimenticati, sebbene avessero consolidato nel settore delle enciclopedie una tradizione italiana, che in seguito è giunta ai nostri giorni. Solo da poco è emerso con forza un approccio storico e giuridico-economico allo studio del sistema meridionale, che ha rettificato, sia pure con molto sordine, il giudizio sulla condizione del Sud. In passato, costantemente, si era affermata una pregiudiziale economica e sociale nei confronti del Mezzogiorno; tanto che si era guardato ai "processi di sviluppo meridionale" in un'ottica esclusivamente economicistica, dimenticando quanto importante fosse la coesione tra storia, scienze sociali ed economia per una corretta comprensione della realtà delle regioni meridionali. la stessa "questione meridionale" è tuttora concettualizzata come un problema di industrializzazione. Continua, cioè, il pregiudizio culturale. Il primo, vero freno Che, dopo l'unificazione, ha investito il Sud, "terra di conquista", è stato quello di volerlo adeguare necessariamente, e ciecamente, al Nord. Di qui, la corsa affannosa verso l'uguaglianza con le aree urbane nord-italiane e nord-europee, nel nome di un Mezzogiorno diverso da se stesso, industrializzato secondo i canoni tipici del capitalismo europeo. E' vero che all'indomani dell'Unità le regioni settentrionali presentavano differenze notevoli con quelle meridionali. Nel Sud, miseria, ignoranza, disoccupazione, arretratezza economica, erano fortemente presenti; ma è altrettanto vero che questi aspetti socio-economici costituivano la caratteristica dominante in moltissime aree, urbane e non, del Nord. Tradizionalmente, le regioni meridionali hanno dovuto affrontare comparazioni solo con i centri settentrionali di massimo sviluppo capitalistico: Milano, Torino, Genova; come se l'"altra Italia" si racchiudesse solo in questo celeberrimo "triangolo". Ovvio che, nel tempo, e da tale confronto assillante, il Sud sia apparso sempre come la regione meno "sviluppata". E lo appaia oggi più che mai, in tempi in cui le fasce regionali confinanti con il vecchio "triangolo" hanno fruito dell'espansione capitalistica partita proprio da quel "triangolo" ormai soffocato dal suo stesso sviluppo intensivo: e questo hanno spacciato, in toto, per "sviluppo endogeno" o "autonomo". Il che non è. La contiguità geografica con i tessuti industriali e con i mercati di sbocco sono stati determinanti. All'inizio non era così. Nel Sud, una forte imprenditorialità era presente ben prima dell'Unità. L'industria era fiorente. Riguardava la lavorazione del lino e della canapa, le fonderie, gli stabilimenti meccanici, i cantieri navali, il legno, la trasformazione dei prodotti della terra (il vino e l'olio viaggiavano per il mondo, raggiungendo anche le Americhe, la Svezia, la Russia, l'Iberia, il Nord-Europa, l'Inghilterra). Primeggiavano le province di Napoli, Salerno, Bari, Palermo, e poi Otranto, Gallipoli, Trani, Barletta, Gaeta, Reggio Calabria, Messina. Al momento dell'unificazione, l'industria meridionale non solo non era inferiore a quella settentrionale (alimentata dall'economia di guerra; e, a Sud, da quella di pace), ma addirittura superiore. Nel 1871, gli addetti all'industria sul totale della forza-lavoro erano pari al Nord al 22%, al Centro al 18,5%, al Sud al 24,1%. Dieci anni dopo, al Nord erano pari al 25,4%, al Centro al 23,6% e a Sud addirittura al 30,7%. Col 1901, l'inversione di tendenza: al Nord 26,6%, al Centro 23,6%, al Sud 23,1%. Furono fattori politici e precise manovre economiche a stroncare l'industria nel Sud, con una politica libero-scambista che, con alcuni protezionismi abilmente pilotati, e con decisive "guerre commerciali", misero in ginocchio l'ex Regno delle Due Sicilie. E' vero che la "questione meridionale" si può far risalire alla calata dei Normanni e al ferreo feudalismo che si instaurò nel tempo. Ma è altrettanto vero che tutti i correttivi introdotti dal pensiero economico, scientifico, giuridico, dal Settecento in poi vennero annullati dalla "conquista del Sud". Per Ferdinando II quel 3 ottobre 1839 fu forse il giorno più felice della sua carriera di re. E non tanto per l'evento storico che si compiva, cioè l'inaugurazione della prima strada ferrata italiana, quanto per lo spettacolo inconsueto che si presentava lungo l'itinerario Napoli-Portici; anzi, Napoli-Granatello. Alle 11 in punto, un colpo di cannone annunciò la partenza del convoglio. Meno di un quarto d'ora dopo, la locomotiva arrivò, tirandosi dietro ben nove vetture, in una delle quali prese posto il re (evento segnalato con un secondo colpo di cannone). Fu una splendida festa anche per i napoletani che erano accorsi a migliaia in via dei fossi (tra Porta del Carmine e Porta Nolana), ove erano le prime strutture della stazione di Napoli. Forse anche per loro fu una gran festa. E' sufficiente a dimostrarlo il fatto che quando, alle ore 16, la ferrovia venne aperta al pubblico, ne successero davvero di tutti i colori. Nel loro entusiasmo, addirittura, impedivano al treno di muoversi, e a nulla valsero le preghiere e poi le minacce dei militari incaricati di mantenere l'ordine pubblico. Ad un certo punto, il macchinista fu costretto a fermare il convoglio al ponte dell'Arenaccia e a far scendere i passeggeri. Ma la festa continuò a lungo: per diversi giorni. Con l'inaugurazione della Napoli-Portici, primo tratto di quella destinata a congiungere Napoli con Nocera e, tramite una diramazione, con Castellammare di Stabia, e che sempre in epoca borbonica sarebbe stata prolungata fino a Vietri, Napoli conquistò rispetto al resto d'Italia un altro dei suoi primati, inserendosi audacemente nella rivoluzione industriale in atto in Europa, e precedendo, a 14 anni dalla costruzione della prima ferrovia del mondo, la Stockton-Darlington, Germania, Francia, Irlanda, Belgio, Austria, Russia e Olanda. Proprio in coincidenza con l'affermarsi, in Europa, del nuovo mezzo di trasporto, il governo di Ferdinando II incaricò il direttore di ponti e strade, Afan De Rivera, di valutare l'opportunità di introdurre la strada ferrata nel Regno. Nelle Due Sicilie, peraltro, erano scarse persino le vie di comunicazione, e le poche esistenti toccavano solo le grandi città, lasciando isolati 1 .600 centri su 1. 800. Il De Rivera, tuttavia, sostenne che ragioni di orografia si opponevano alla messa in opera di ferrovie e diede parere sfavorevole. Fu respinta, nel gennaio 1836, anche la domanda inoltrata dal napoletano Antonio Ducoté, tendente ad ottenere la concessione per la costruzione di una strada ferrata Napoli-Bari. Un paio di settimane dopo, il francese Armando Bayard scrisse al sovrano, offrendosi di costruire con capitale francese una strada ferrata nel Regno delle Due Sicilie. Perché proprio qui? Perché la manodopera era più a buon mercato. L'accordo fu raggiunto nell'ottobre del '36; i lavori ebbero inizio nell'aprile del '38. Un anno e mezzo dopo, giovedì 3 ottobre del '39, l'inaugurazione. Il 6 settembre del '40 fu prolungato il tratto fino a Torre del Greco; in meno di quindici mesi fu raggiunta Castellammare; il 18 maggio del '44 fu toccata Nocera: l'impegno era stato mantenuto. Ma Ferdinando II volle andare oltre. Costruì le officine di Pietrarsa, che prolungarono la linea fino a Vietri. Era il 31 luglio 1860. Poco meno di quaranta giorni dopo, di quel treno si sarebbe servito Garibaldi in marcia, con i suoi mille, su Napoli. Era smontato da cavallo a Vietri, il 7 settembre. Ha scritto Lucio Villari: "Una importante industria, questa, che consentiva la progettazione e la costruzione di modelli di locomotive che avrebbero reso le ferrovie dello Stato napoletano indipendenti dal mercato estero. Ma, come si sa, dopo l'unità d'Italia, Pietrarsa fu declassata al ruolo di officina di riparazioni". Quante cose sottendono quel 3 ottobre e questo declassamento! Un Regno mediterraneo Le grandi isole:
Balarm e Apulia Uomini contro Storia di un popolo e di due resistenze L'estrema, disperata
difesa del Regno delle Due Sicilie si concluse con la resa di Gaeta,
il 25 febbraio 1861. I piemontesi concessero alle truppe borboniche
l'onore delle armi e poi Francesco Il e la sua coraggiosa Maria Sofia
presero la triste via verso Roma e l'esilio. Su una fortezza, però,
quella di Civitella, ancora per qualche tempo sventolò una
sbrindellata bandiera borbonica, intorno alla quale si strinsero pochi
eroi che avevano deciso di non arrendersi. I piemontesi, dopo Castelfidardo,
Ancona e San Leo, completarono l'occupazione, ma quel lembo di terra
napoletana continuava ad essere accanitamente difeso. Terrone = cafone Cafone, sostantivo.
Nel Sud significa contadino, ed è voce osca latinizzata, "cabocabonis",
Cafone, anche aggettivo, è persona grossolana e ignorante,
priva di gusto, di rispetto e di tatto. La parola ha superato i confini
meridionali dopo l'Unità. In precedenza, l'uso era limitato
alla città di Napoli e a pochi altri centri urbani del Sud;
e cominciò ad avere il suo valore aspramente offensivo durante
il regno aragonese, allorché Napoli, capitale di un Regno e
centro di cultura influentissimo, prese ad espandersi, avviandosi
a divenire la più popolosa città d'Europa. In quel tempo,
lo sviluppo dell'edilizia richiamò una quantità di contadini
ansiosi di trovare un'occupazione. L'immigrazione era del resto favorita
dai re e dai viceré con appropriati provvedimenti: a Napoli,
per esempio, vigeva il prezzo politico del pane e vi erano sconosciute
le ricorrenti carestie che tormentavano le campagne, Purtroppo, l'attività
edilizia aveva carattere ciclico e spesso languiva, così gli
immigrati rimanevano senza mezzi di sussistenza e si trasformavano
in plebe inquieta e aggressiva; i furti e le grassazioni si moltiplicavano,
uscire anche in pieno giorno dalla città senza un'adeguata
scorta di guardie era una pazzia; infieriva il brigantaggio e imperversava
la delinquenza di città, una specie di camorra ante litteram.
Piccola nobiltà e borghesia reagivano a questa situazione assumendo,
nei confronti degli "ultimi venuti" e dei contadini che,
nonostante tutto, continuavano a cercare protezione in città,
un atteggiamento di durissima ostilità: chiunque venisse da
fuori e non fosse un "napoletano verace" era considerato
un cafone; persona, per l'appunto, grossolana e ignorante, priva di
gusto e di rispetto. Se lo Stato è mecenate L'Archivio Storico
del Banco di Napoli e l'Archivio della Reale Arciconfraternita del
SS. Sacramento dei Nobili Spagnoli contengono decreti reali, corrispondenze,
carteggi, legislazioni speciali, tutti preziosi inediti dei maggiori
uomini di cultura e sovrani del Regno di Napoli; in particolare, di
Vico, Cuoco, Giannone, Tanucci, Galiani, Filangieri, Cotugno, scienziati,
letterati, giuristi, storici, poeti e artisti: Cimarosa, Paisiello,
Scarlatti, Francesco Solimena, Gaspare Traversi, Gaspare Vanvitelli,
Ferdinando Sanfelice... Vi si delinea, fra l'altro, la politica del
Regno nelle incentivazioni delle arti, nelle opere pubbliche (Ospizio
dei Poveri, Ospedale della Pietà, di San Giacomo, dell'Annunziata,
dei Poveri; e le Casse di maritaggio per fornire di dote le fanciulle
indigenti, e gli asili nido), nella politica di assistenza ed educazione
dell'infanzia. Tutti i numeri di un gran Borbone Parliamo di re
Carlo. Regnò a Napoli facendosi chiamare semplicemente "Carlo"
o "don Carlos" o "Carlo Borbone". Michelangelo
Schipa, che per primo studiò in maniera approfondita la vita
di questo sovrano, dice che tale scelta non fu apprezzata a Parigi,
dove si sosteneva che, nel rispetto rigoroso delle regole dinastico-genealogiche,
il re delle Due Sicilie avrebbe dovuto chiamarsi "Carlo di Francia",
e analogamente quello di Spagna "Filippo di Francia". Quel primo ponte sospeso La costruzione
di questo ponte borbonico, iniziato nel 1828 e terminato nel 1832,
su progetto dell'architetto napoletano Luigi Giura, Un binario lungo 151 anni La locomotiva
a vapore era stata inventata nel 1803 dal meccanico inglese Richard
Threvithick. Il prototipo fu successivamente perfezionato da George
e Robert Stephenson, padre e figlio, che ne migliorarono i manovellismi
e introdussero le ruote flangiate, cioè dotate di bordo, che
ne evitavano il deragliamento. Fu proprio la "Locomotion"
degli Stephenson, considerata la prima vaporiera moderna, a inaugurare
la linea fra Stockton e Darlington, percorsa a 18 Km/h da un convoglio
di ben 34 carri merci. Un successivo perfezionamento, sempre degli
Stephenson. fu la "Rocket", il "Razzo", visto
che raggiungeva senza esplodere la velocità di 38 Km/h e poteva
trainare 19 quintali. Dalla Napoli-Portici al Pendolino 1839 Inaugurazione
della Napoli-Portici. L'Autore Ephraim Chambers Non senza qualche
agitazione io dò nelle mani del Lettore quest'Opera. Ella è
cotanto sproporzionata alle forze di una sola persona, che appena
potrebbe bastarvi un'Accademia; e quel che maggiormente accresce i
miei timori, è il breve spazio di tempo, che ho dovuto impiegare
nell'esecuzione di una cosa, che avrebbe dovuto almeno tenere occupata
l'intera vita umana. Il Vocabolario dell'Accademia della Crusca è
stato più di quarant'anni a compilarsi; e 'l Dizionario dell'Accademia
Francese molto Il traduttore Giuseppe Maria Secondo L'Opera che offerisco al Pubblico è una delle più mirabili produzioni dell'umano intendimento. Ella non ha bisogno di nuove e replicate prove per attestarsene l'eccellenza, essendo tanto ben conosciuta nella Repubblica delle Lettere, che il desiderio grande de' Letterati di provvedersene tutti, fece sì, che in pochi anni n'uscissero da Londra pressoché trentamila esemplari. Efraim Chambers non lascia tuttavia di rendere grande la maraviglia, come mai l' uniche sue forze, abbiano potuto esser bastanti a compilare un Dizionario Universale dell' Arti e delle Scienze ( ... ). Ma non meno maraviglia però ha recato, il vederla finora confinata nel suo solo original linguaggio Inglese, senza che i Letterati di Francia, di Olanda e di altre Nazioni, che ben ne hanno riconosciuto il merito, e considerata l'utilità e la necessità, ne avessero intrapresa una traduzione in Francese, per renderla più comune all'altre Nazioni, più prossime all'Italia. Egli è vero che il trasportare dal linguaggio Inglese un'Opera così grande, sarebbe loro costata un'immensa fatica, ma non per questa, non vi sarebbero essi riusciti con tutto quelI'onore, che sempre mai han riportati, nel dar fuora altre grandi e mirabili pruove del loro felice talento. Una tal/ maraviglia, accompagnata di un vivo desiderio di far provare a' miei Concittadini le mirabili produzioni dell'ingegno umano, mi mossero di meditarne una versione Italiana. Perché? Domenico Rea Spesso penso all'errore
che ha commesso Napoli nel rimanere indietro in Europa. Trecento anni
or sono noi non avevamo niente da invidiare a nessuno e, in Italia,
per popolazione, forma urbana, valori d'arte, rapporti con l'estero,
eravamo tra i primi. Poi accadde qualcosa. Ci fermammo. Aggiungemmo
solo dei particolari. Sventrammo ed estendemmo, ma il nocciolo, il
centro della vita rimase quello di sempre: di qua la plebe, di là
gli aristocratici, il piano nobile e il basso. Londra e Parigi, che
avevano gli stessi problemi, andarono avanti. Fecero la rivoluzione
borghese e industriale, instaurarono la democrazia. Posero davanti
a tutto il diritto delle genti che un abitante dei vicoli di Spaccanapoli,
G.B. Vico, aveva da tempo affermato. Sporca e puteolente era Napoli,
ma più sporche e puzzolenti erano Londra e Parigi. Le testimonianze
sono innumerevoli... E intanto Ginevra calvinista è diventata
un giardino; Londra ha solo tracce nobili del passato; Parigi rimane
ancora una tappo dello spirito e Napoli è rimasta non solo
se stessa, ma si è lasciata crescere all'interno e all'esterno
una sorta di terzo mondo pieno di gentaglia che possiede soltanto
l'istinto. Ancora, perché? Lucio Villari E' pur vero che
il regime politico e sociale del Regno delle Due Sicilie era lontano
da quel modello liberal-parlamentare inglese e francese che sembrava
necessario e intrinseco allo sviluppo del capitalismo industriale. |
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