§ Un settecento europeo

Maledetti Borboni?




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Gianfranco Langatta
Ricerche storiche: F. Solari, A. Taddei, S. Francini, L. De Santis



Nessun rapporto di causa ed effetto tra l'esplosione di antimeridionalismo in alcune regioni del Nord e la celebrazione della cultura meridionale del Settecento, svoltasi in un approfondito dibattito alla Reggia di Caserta, presenti i principi delle case reali di Borbone e degli Asburgo. Vogliamo dire che all'antimeridionalismo delle "lighe" non si è risposto inalberando la bandiera col giglio del Regno delle Due Sicilie, ma cercando di capire perché il problema dell'arretratezza meridionale non venne risolto né dal dispotismo illuminato del "secolo d'oro" della cultura napoletana, il Settecento, né dal liberalismo dello Stato italiano, né dalla democrazia repubblicana del dopoguerra.
Il convegno, su "I Borboni di Napoli e la Rivoluzione francese", ha avuto per guida ideale il titolo del libro dello storico Giuseppe Galasso "La filosofia in soccorso dei governi": titolo preso dal Filangieri, il settecentesco autore della "Scienza della legislazione", uno dei massimi esponenti dell'illuminismo napoletano. Il concetto è che la cultura, se non è mera attrazione accademica, può e deve fornire i contenuti di un'azione riformatrice di governo. E tale fu la cultura meridionale del Settecento che, dopo la decadenza del lungo viceregno spagnolo, esplose nel secolo dei lumi, quando nel 1734, con Carlo di Borbone, fu rifondato nel Sud lo Stato nazionale e per vari decenni cultura e dinastia procedettero in parallelo.
L'Illuminismo napoletano proponeva ai nuovi regnanti non solo scienza della legislazione, a trasformazione della classe dirigente (Genovesi), spostando l'educazione dall'Umanesimo all'economia, in modo da creare una mentalità e una classe di imprenditori; nuova cultura anticuriale (Giannone), per emancipare il Regno dalle pretese feudali della Chiesa; rivoluzione nella medicina, con le sperimentazioni sulle malattie infettive di Cotugno e le neuroricerche di Pagano; legislazione sociale che, per i lavoratori della Reale Seteria di San Leucio, precorreva di un secolo le forme previdenziali a cui nella seconda metà dell'Ottocento darà impulso Bismarck nel Reich germanico. Insomma, la cultura in soccorso dei governi per realizzare la città dell'uomo, dopo le incompiute promesse della città di Dio in terra. La cultura si trasforma in classe-guida, che fornisce programmi ai ministri spagnoli, toscani e inglesi che operano alla Corte di Napoli: né la scelta dei ministri stranieri è un capriccio della dinastia, ma riconoscimento anticipatore dell'universalità europea della cultura del secolo, che gli intellettuali meridionali rendevano napoletana nel momento stesso in cui la arricchivano di originalità napoletana.
Forse è per questo connubio profondo tra il Sud e l'Europa del Settecento che qualcuno ha voluto dire a Caserta che senza la fine del Regno di Napoli, nel 1860, oggi i meridionali non avrebbero bisogno di aiuto ed il Mezzogiorno sarebbe molto più europeo. In realtà, se da un punto di vista sentimentale si possono comprendere le ragioni di chi ha esaltato la gloria del re di Napoli, non va dimenticato che la storiografia ammoniva con Croce che il regno di Napoli era "finito in idea" nel 1799, quando, dieci anni dopo la presa della Bastiglia, anche a Napoli esplose, tardiva e sfortunata, la rivoluzione, che spezzò il procedere parallelo di cultura e dinastia. "Gloriosa sconfitta" di quella rivoluzione, che vide alcuni degli intellettuali passare dal ruolo di soccorritori del governo al ruolo di governanti essi stessi, padri necessitati di una Repubblica che abbozzerò una Costituzione della quale -affermerà con razionalità storicistica uno di quei padri, Vincenzo Cuoco - "se è buona per tutti gli uomini, vuoi dire che non è buona per nessuno". In realtà, l'illuminismo napoletano crollò quando da consigliere del principe divenne principe esso stesso, perdendo innanzitutto il senso dei tempi storici: così da cominciare la rivoluzione quando in Francia era finita e già quasi ripudiata. "Gloriosa", dunque, la rivoluzione napoletana del 1799, solo perché alimenterò, nell'Ottocento, il colpo d'ala al moto di risorgimento nazionale.
Ma fu del tutto gratuita la conclusione astrattamente rivoluzionaria dell'Illuminismo meridionale? Non proprio: nel '99 le riforme del Regno del Sud erano ancora quasi tutte da fare: ogni cosa era stata scritta nel libro degli intellettuali, ma solo alcune cose erano state realizzate dai governanti del "dispotismo illuminato", tuttavia con alcuni primati consacrati (San Leucio; la prima ferrovia italiana; il catasto onciario che rendeva certe le proprietà; la stazione marittima; la fabbrica di porcellane a Capodimonte; l'arte presepiale; le regge di Caserta e Portici; il teatro San Carlo; l'"Albergo dei Poveri"; la delimitazione del potere feudale a difesa della libertà personale; un principio di rivoluzione industriale, con garanzie sociali, sanitarie e previdenziali; persino le prime carte di credito: tutte realtà, che i giacobini d'oltralpe andavano reclamando con furore da tempo). Comunque, la vita del reame non era solo quella dello splendore della Versailles mediterranea, cioè della reggia casertana del Vanvitelli. "Ai cancelli delle nostre ville - ammoniva Genovesi - ci sono gli Ottentotti"; e Galanti, il grande scrittore politico-geografico del Regno, relazionava al re, impegnato a rendere sempre più splendida una capitale che, insieme con Parigi, era la più popolosa d'Europa, sostenendo che la miseria fisica e civile cominciava appena quindici chilometri fuori Napoli.
I problemi che si pose la cultura napoletana del Settecento furono dunque gli stessi che oggi costringono gli italiani più responsabili a rompersi la testa contro e con la questione meridionale. La quale non nasce con la formazione del Regno d'Italia, nel 1860, ma le preesiste, proprio perché il bilancio riformistico del Settecento napoletano (nell'amministrazione, nella giustizia, nei diritti civili, negli indirizzi scolastici, nel rinnovamento imprenditoriale) non era adeguato ai bisogni del Mezzogiorno. Che non fosse colpa del Borbone, come invece ha sostenuto una storiografia viziosa, è vero: la depressione veniva da lontano. Ma la situazione era quella.
Situazione politico-economica e sociale, intendiamo dire. Perché sotto moltissimi altri aspetti l'Illuminismo napoletano fu anticipatore in campo europeo.
E' il caso della celeberrima "Enciclopédie". La storia degli eventi che le dettero origine, così come oggi la conosciamo, è ricca di fascino e di intrighi. L'editore Le Breton aveva iniziato da solo l'avventura editoriale dell'Enciclopedia. Nel gennaio del 1745 Gottfried Sellius, un traduttore tedesco di Danzica, gli propose una sua traduzione in francese della "Cyclopedia" di Ephraim Chambers presentando, per rendere economicamente interessante l'evento, un possibile socio finanziario dell'impresa, un inglese, John Mills, definito "ricco e opulento", ma ben presto rivelatosi affarista di poco conto. Nel febbraio dello stesso anno, Le Breton stipulò con Sellius e Mills il primo contratto per la traduzione in francese, corretta e ampliata, dell'opera di Chambers. Poco dopo, venne emessa una licenza di stampa in bianco per quella traduzione. Ma in agosto un litigio portò alla rottura tra editore e traduttori (pessimi traduttori), con conseguente revoca della licenza.
Le Breton aprì allora trattative con i librai Briasson, David e Durand, per continuare insieme con loro l'opera, giungendo al relativo contratto di collaborazione nel gennaio 1746. Forse, proprio i tre editori associati coinvolsero nell'impresa Diderot e D'Alembert. Il primo - all'epoca impiegato presso costoro per la traduzione del "Dizionario di medicina", di James - fu interessato inizialmente soltanto come traduttore, mentre D'Alembert, che era già membro dell'Accadémie des Sciences, ebbe l'incarico di una revisione critica delle parti scientifiche. In giugno, la direzione dell'opera di traduzione fu affidata formalmente all'Abate Gua de Malves, che vi lavorava fin dagli ultimi mesi del 1745.
Ben presto, tra Diderot e l'abate Gua sorsero diatribe e scontri, che portarono al fatidico 1747, quando in agosto anche Gua troncò il contratto editoriale, aprendo la via al subentro ufficiale di Diderot e D'Alembert nella direzione dei lavori. Decollò così la vera "avventura" dell'"Enciclopedia", in particolare quando, nel 1748, gli editori ottennero un nuovo privilegio per un'opera oramai profondamente diversa dalla semplice trasposizione in francese dei lavori di Chambers.
Intanto, a Napoli, accadeva un fatto eccezionale. Alla fine del 1747, Giuseppe Maria Secondo pubblicava la traduzione della stessa opera di Chambers col titolo: "Ciclopedia ovvero Dizionario Universale delle Arti e delle scienze che contiene un'Esposizione de' Termini ed una Relazione delle cose significate da' medesimi nelle arti liberali e meccaniche e nelle scienze umane e divine. Le figure, le spezie, le proprietà, le produzioni, le preparazioni ed usi delle cose naturali ed artificiali. L'origine, il progresso e lo stato delle cose ecclesiastiche, civili, militari e del commercio co' varj sistemi, sette, opinioni & c. Tra filosofi, teologi, matematici, Medici, antiquarj, critici & c. / Diretto il tutto per un corso di antica, e moderna Letteratura, estratto / da' migliori Autori, Dizionari, Giornali, Memorie, Transazioni, / efemeridi, & c. in molti linguaggi".
L'autore era pugliese, nato a Lucera, in Capitanata, nel 1715, cresciuto a Napoli; egli dedicò la propria opera, datandola 1° settembre 1947, "all'eccellentissimo signor cavaliere D. Carlo de Guevara de' Duchi di Bovino", fra l'altro con la motivazione: "Ella è a V. E. dovuta, non meno perché degna del vostro alto talento, che per averne data a me la prima notizia, e per avermi generosamente somministrato l'originale, donde è tratta la mia versione".
Nel novembre 1750, Diderot pubblicò il suo celebre "Prospectus" (così innovativo rispetto a quello che nel '45 avevano redatto Sellius e Mills), che diventerà il vero e proprio programma editoriale dell'opera. Un programma che fu comunque molto contrastato, in particolare dai circoli religiosi vicini ai Gesuiti. Il testo del "Prospectus", con lievi modifiche, sarà ristampato come seguito al "Discorso preliminare" di D'Alembert con il quale si apre il primo tomo dell'Enciclopedia", finalmente pubblicato il 1° luglio 1751.
La "Cyclopedia" di Chambers era così diventata "Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une société de gens de lettres". C'è, in questo titolo, la netta contrapposizione allo "spirito di geometria" col quale il precedente direttore, l'abate Gua de Malves, voleva caratterizzare l'opera, proponendo di fatto la semplice traduzione del testo inglese. E proprio nel "Prospectus" del '50 Diderot lascia intravedere alcune tracce interessanti di possibili collegamenti della "Encyclopédie" con la traduzione napoletana del 1747 del lavoro di Chambers, traduzione che può dunque essere vista come possibile, decisiva premessa alla decisione di impostare un'opera tutta nuova, piuttosto che soltanto una trasposizione linguistica.
In quella sede, infatti, Diderot così si espresse: " (...) l'Enciclopedia di Chambers, della quale sono state pubblicate a Londra varie edizioni in breve tempo; quest'enciclopedia, di recente tradotta in italiano, e che a vostro avviso merita gli onori che le vengono tributati in Inghilterra e all'estero, non si sarebbe forse mai fatta se, prima ch'essa apparisse in inglese, non fossero già esistite nella nostra lingua opere dalle quali Chambers ha attinto oltre misura e senza discernimento la maggior parte delle cose che ha messo nel suo dizionario. Che cosa avrebbero dunque pensato i nostri francesi di una traduzione pura e semplice? Essa avrebbe suscitato l'indignazione dei dotti e le proteste del pubblico ... ".
Mentre all'autore inglese dedicò un giusto encomio: "Noi non ricusiamo a quest'autore il riconoscimento dovutogli. Egli ha ben colto i vantaggi dell'ordine enciclopedico, ossia della concatenazione mediante la quale è possibile discendere dai primi principii d'una scienza o di un'arte fino alle sue conseguenze più remote; da queste risalire ai primi principii; passare impercettibilmente dall'una scienza o arte all'altra, e - se è permesso dir così - fare il giro del mondo letterario senza smarrirsi".
Comunque, il filosofo francese ribadì come la sua proposta editoriale avesse una forte caratterizzazione francese, che andò ben oltre l'orizzonte entro cui si articolava l'Enciclopedia inglese. A questo punto, non pare azzardato pensare che un condizionamento "nazionalistico" avesse indotto Diderot a fare qualcosa che si differenziasse da ciò che Napoli aveva già proposto come opera esemplare, per di più in una lingua, quella italiana, molto simile alla francese. Né probabilmente fu estranea alla decisione di Diderot l'accusa avanzata dal traduttore pugliese Giuseppe Maria Secondo, là dove si chiese come mai gli intellettuali transalpini avessero trascurato di tradurre nella loro lingua un lavoro importante come quello di Chambers.
Sulle motivazioni che dettero origine alla "Encyclopédie" si può quindi avanzare un'ipotesi non balzana: Diderot conobbe proprio l'edizione anticipatrice napoletana del '47, e non quella veneta dell'anno successivo, della "Cyclopedia" e si può immaginare che leggendo le critiche di stampo "campanilistico" mosse da Giuseppe Maria Secondo e meditando sulle difficoltà di metodo che una pura e semplice traduzione avrebbe comportato, sia stato indotto a optare per un'opera nuova. che da quella inglese traeva ispirazione soltanto per la sua impostazione generale: una piccola, ma significativa "scheggia" napoletana fra le reali motivazioni che indussero Diderot a tramutare un'ipotesi di traduzione in un'opera nuova e rivoluzionaria. Affascina, seduce l'idea che l'intuizione della grande Enciclopedia sia stata stimolata dalla caparbia volontà di un dimenticato scritto del Regno di Napoli, che seppe realizzare un'impresa che ricorda quella di Diderot, anche se in termini più limitati per concezione e per conseguenze culturali. A Giuseppe Maria Secondo di Lucera, verso il quale la memoria storica non è stata prodiga di ricordi, va comunque attribuito il privilegio di avere avviato, in un contesto italiano, quel processo che - arricchitosi d'altri contenuti e reso profondo e duraturo da altri interventi - renderà moderno anche da noi l'approccio al sapere. la pubblicazione napoletana della "CicIopedia" diede il via nel nostro Paese a una precisa tradizione culturale legata all'"Encyclopédie", che avrebbe trovato nuova linfa e conferma quando a Lucca fu pubblicata la prima riedizione della grande opera francese, appena qualche anno dopo l'iniziale apparizione presso le librerie di Parigi. Si dovette alla felice intuizione di Ottaviano Diodati, nobile lucchese. l'avere introdotto ufficialmente in Italia, quasi contemporaneamente all'apparizione in Francia, l'"Encyclopédie" di Diderot e di D'Alembert, stampata presso Vincenzo Giuntini tra il 1758 e il 1776 (i diciassette volumi di testo e gli undici di tavole dell'opera francese erano comparsi tra il 1751 e il 1772). Anche nei confronti di Diodati e di Giuntini la memoria storica non è stata particolarmente benevola, essendo l'uno e l'altro oggi quasi del tutto dimenticati, sebbene avessero consolidato nel settore delle enciclopedie una tradizione italiana, che in seguito è giunta ai nostri giorni.
Solo da poco è emerso con forza un approccio storico e giuridico-economico allo studio del sistema meridionale, che ha rettificato, sia pure con molto sordine, il giudizio sulla condizione del Sud. In passato, costantemente, si era affermata una pregiudiziale economica e sociale nei confronti del Mezzogiorno; tanto che si era guardato ai "processi di sviluppo meridionale" in un'ottica esclusivamente economicistica, dimenticando quanto importante fosse la coesione tra storia, scienze sociali ed economia per una corretta comprensione della realtà delle regioni meridionali. la stessa "questione meridionale" è tuttora concettualizzata come un problema di industrializzazione. Continua, cioè, il pregiudizio culturale. Il primo, vero freno Che, dopo l'unificazione, ha investito il Sud, "terra di conquista", è stato quello di volerlo adeguare necessariamente, e ciecamente, al Nord. Di qui, la corsa affannosa verso l'uguaglianza con le aree urbane nord-italiane e nord-europee, nel nome di un Mezzogiorno diverso da se stesso, industrializzato secondo i canoni tipici del capitalismo europeo.
E' vero che all'indomani dell'Unità le regioni settentrionali presentavano differenze notevoli con quelle meridionali. Nel Sud, miseria, ignoranza, disoccupazione, arretratezza economica, erano fortemente presenti; ma è altrettanto vero che questi aspetti socio-economici costituivano la caratteristica dominante in moltissime aree, urbane e non, del Nord.
Tradizionalmente, le regioni meridionali hanno dovuto affrontare comparazioni solo con i centri settentrionali di massimo sviluppo capitalistico: Milano, Torino, Genova; come se l'"altra Italia" si racchiudesse solo in questo celeberrimo "triangolo". Ovvio che, nel tempo, e da tale confronto assillante, il Sud sia apparso sempre come la regione meno "sviluppata". E lo appaia oggi più che mai, in tempi in cui le fasce regionali confinanti con il vecchio "triangolo" hanno fruito dell'espansione capitalistica partita proprio da quel "triangolo" ormai soffocato dal suo stesso sviluppo intensivo: e questo hanno spacciato, in toto, per "sviluppo endogeno" o "autonomo". Il che non è. La contiguità geografica con i tessuti industriali e con i mercati di sbocco sono stati determinanti.
All'inizio non era così. Nel Sud, una forte imprenditorialità era presente ben prima dell'Unità. L'industria era fiorente. Riguardava la lavorazione del lino e della canapa, le fonderie, gli stabilimenti meccanici, i cantieri navali, il legno, la trasformazione dei prodotti della terra (il vino e l'olio viaggiavano per il mondo, raggiungendo anche le Americhe, la Svezia, la Russia, l'Iberia, il Nord-Europa, l'Inghilterra). Primeggiavano le province di Napoli, Salerno, Bari, Palermo, e poi Otranto, Gallipoli, Trani, Barletta, Gaeta, Reggio Calabria, Messina. Al momento dell'unificazione, l'industria meridionale non solo non era inferiore a quella settentrionale (alimentata dall'economia di guerra; e, a Sud, da quella di pace), ma addirittura superiore. Nel 1871, gli addetti all'industria sul totale della forza-lavoro erano pari al Nord al 22%, al Centro al 18,5%, al Sud al 24,1%. Dieci anni dopo, al Nord erano pari al 25,4%, al Centro al 23,6% e a Sud addirittura al 30,7%. Col 1901, l'inversione di tendenza: al Nord 26,6%, al Centro 23,6%, al Sud 23,1%.
Furono fattori politici e precise manovre economiche a stroncare l'industria nel Sud, con una politica libero-scambista che, con alcuni protezionismi abilmente pilotati, e con decisive "guerre commerciali", misero in ginocchio l'ex Regno delle Due Sicilie.
E' vero che la "questione meridionale" si può far risalire alla calata dei Normanni e al ferreo feudalismo che si instaurò nel tempo. Ma è altrettanto vero che tutti i correttivi introdotti dal pensiero economico, scientifico, giuridico, dal Settecento in poi vennero annullati dalla "conquista del Sud".
Per Ferdinando II quel 3 ottobre 1839 fu forse il giorno più felice della sua carriera di re. E non tanto per l'evento storico che si compiva, cioè l'inaugurazione della prima strada ferrata italiana, quanto per lo spettacolo inconsueto che si presentava lungo l'itinerario Napoli-Portici; anzi, Napoli-Granatello.
Alle 11 in punto, un colpo di cannone annunciò la partenza del convoglio. Meno di un quarto d'ora dopo, la locomotiva arrivò, tirandosi dietro ben nove vetture, in una delle quali prese posto il re (evento segnalato con un secondo colpo di cannone).
Fu una splendida festa anche per i napoletani che erano accorsi a migliaia in via dei fossi (tra Porta del Carmine e Porta Nolana), ove erano le prime strutture della stazione di Napoli. Forse anche per loro fu una gran festa. E' sufficiente a dimostrarlo il fatto che quando, alle ore 16, la ferrovia venne aperta al pubblico, ne successero davvero di tutti i colori. Nel loro entusiasmo, addirittura, impedivano al treno di muoversi, e a nulla valsero le preghiere e poi le minacce dei militari incaricati di mantenere l'ordine pubblico. Ad un certo punto, il macchinista fu costretto a fermare il convoglio al ponte dell'Arenaccia e a far scendere i passeggeri. Ma la festa continuò a lungo: per diversi giorni.
Con l'inaugurazione della Napoli-Portici, primo tratto di quella destinata a congiungere Napoli con Nocera e, tramite una diramazione, con Castellammare di Stabia, e che sempre in epoca borbonica sarebbe stata prolungata fino a Vietri, Napoli conquistò rispetto al resto d'Italia un altro dei suoi primati, inserendosi audacemente nella rivoluzione industriale in atto in Europa, e precedendo, a 14 anni dalla costruzione della prima ferrovia del mondo, la Stockton-Darlington, Germania, Francia, Irlanda, Belgio, Austria, Russia e Olanda. Proprio in coincidenza con l'affermarsi, in Europa, del nuovo mezzo di trasporto, il governo di Ferdinando II incaricò il direttore di ponti e strade, Afan De Rivera, di valutare l'opportunità di introdurre la strada ferrata nel Regno. Nelle Due Sicilie, peraltro, erano scarse persino le vie di comunicazione, e le poche esistenti toccavano solo le grandi città, lasciando isolati 1 .600 centri su 1. 800.
Il De Rivera, tuttavia, sostenne che ragioni di orografia si opponevano alla messa in opera di ferrovie e diede parere sfavorevole. Fu respinta, nel gennaio 1836, anche la domanda inoltrata dal napoletano Antonio Ducoté, tendente ad ottenere la concessione per la costruzione di una strada ferrata Napoli-Bari.
Un paio di settimane dopo, il francese Armando Bayard scrisse al sovrano, offrendosi di costruire con capitale francese una strada ferrata nel Regno delle Due Sicilie. Perché proprio qui? Perché la manodopera era più a buon mercato. L'accordo fu raggiunto nell'ottobre del '36; i lavori ebbero inizio nell'aprile del '38. Un anno e mezzo dopo, giovedì 3 ottobre del '39, l'inaugurazione. Il 6 settembre del '40 fu prolungato il tratto fino a Torre del Greco; in meno di quindici mesi fu raggiunta Castellammare; il 18 maggio del '44 fu toccata Nocera: l'impegno era stato mantenuto. Ma Ferdinando II volle andare oltre. Costruì le officine di Pietrarsa, che prolungarono la linea fino a Vietri. Era il 31 luglio 1860. Poco meno di quaranta giorni dopo, di quel treno si sarebbe servito Garibaldi in marcia, con i suoi mille, su Napoli. Era smontato da cavallo a Vietri, il 7 settembre. Ha scritto Lucio Villari: "Una importante industria, questa, che consentiva la progettazione e la costruzione di modelli di locomotive che avrebbero reso le ferrovie dello Stato napoletano indipendenti dal mercato estero. Ma, come si sa, dopo l'unità d'Italia, Pietrarsa fu declassata al ruolo di officina di riparazioni". Quante cose sottendono quel 3 ottobre e questo declassamento!

Un Regno mediterraneo
Nel corso della sua piurimillenaria storia, Napoli ha elargito, ma ha anche ricevuto cultura, esperienze ed arte, al contatto con i popoli con i quali ebbe rapporti. Conservando, tuttavia, sempre, la sua indipendenza, anche se talora solo amministrativa, fin dai tempi dei Fenici e dei Greci, e per il secolare periodo che la vide federata, e mai suddita, di Roma, anche dopo la creazione del suo "Municipium" di caligoliana memoria.
Con la caduta dell'impero romano, e quindi con il crollo di tutto il sistema, anche se ormai decadente e corrotto, Napoli, vivendo di quanto restava dell'antica organizzazione amministrativa e ad essa ispirandosi, si riordinò anche politicamente. Se poi riuscì a sopravvivere, ciò si deve anche al fatto che le ondate tempestose delle terrificanti discese barbariche in Italia, corrose dallo stesso furore con il quale si abbattevano, distruggendo e devastando tante città e campagne del Nord, giunsero quasi esauste nel Sud e fatalmente si infransero davanti a Napoli. Prima ancora di salvezza per la città fu quella di darsi all'imperatore Romano d'Oriente, proclamando la sua sovranità; il che consentì di tener lontani prima i Goti e poi i Longobardi, non tanto per la forza delle armi bizantine, giunte dopo molto tempo, quanto per la fama di quel che al mondo restava della romanità. Ritiratesi le truppe di Bisanzio, trovò la forza di staccarsi dall'Impero e di erigersi in libero Ducato. Fu appunto in seno a questo primo Stato libero e indipendente napoletano che si ebbe il primo atto a difesa dei diritti dell'uomo, con quel "Pactum Sergi", giurato dal duca Sergio VII al Consiglio dei Nobili, che poteva considerarsi come una vera e propria Consulta alla quale era riconosciuta una vasta autorità a difesa dei diritti non solo dei nobili, ma anche dei piccoli proprietari, dei mercanti e dei "defisi", cioè della plebe e dei servi che erano sotto la protezione dei potenti ("potentiores").
Giunto sotto le mura partenopee dopo trentadue anni di guerre di conquista e sottomissioni, annientando la baldanza dei feudatari, la ferocia dei musulmani e l'astuzia dei Greci, Ruggero II il Normanno ebbe chiaro il disegno della sottomissione di una città che sarebbe stata la chiave di volta dell'intero Sud della penisola. Non potendosi opporre al progetto, Sergio VII consegnò le chiavi della città e giurò fedeltà al Re. Così, Ruggero suggellò l'unione tra Napoli e Sicilia: era il 1140. Fatta eccezione per l'età angioina e per quella napoleonica, l'unità territoriale e politica sarebbe durata, sotto dinastie diverse, ma "dello stesso sangue", fino al 1861. l'inizio del nuovo Regno del Sud, poi delle Due Sicilie, fu splendido. E tale rimase sotto la monarchia sveva, succeduta legittimamente alla normanna per diritto di sangue (anche se non senza spargimento di sangue).
E proprio al tempo degli Svevi troviamo le prime presenze spagnole: catalane soprattutto, e non solo per motivi commerciali, visto che sul campo di battaglia di Tagliacozzo, "là dove il vecchio Alard vinse senz'armi", contingenti iberici furono presenti nelle opposte schiere. La comunità catalana, poi, ottenne un quartiere e una strada, nonché una propria "Loggia" (dei mercanti), e una concessione portuale (il "porto dei Catalani") che diede vita al primo vero e proprio porto franco nel Mediterraneo. L'integrazione della comunità spagnola nel Regno proseguì in seguito con la concessione di alcuni uffici dello Stato, con gli scambi di esperienze nelle economie agricola e marittima, con la comune esigenza di difendersi dai Saraceni, prima, e dai francesi nell'800. L'incontro tra Napoli e Spagna avvenne quando Alfonso d'Aragona entrò in città non da conquistatore, ma da liberatore; ed ebbe i crismi della legittimità, Alfonso essendo unico discendente della casa normanno-sveva; legittimità accresciuta dall'adozione di Giovanna Il Durazzo-Angiò, che cooptando la casa d'Aragona garantì la successione al trono. Nacque così la prima dinastia "naturale" napoletana, che con le riforme giuridiche, economiche e sociali inaugurò il "Rinascimento napoletano".
Alla scomparsa della dinastia Aragonese-Napoletana, con l'avvento di quella Aragonese-Spagnola, Alfonso e i suoi discendenti quasi entrarono nel mito, se è vero che nel tardo Cinquecento un poeta popolare, il Verardiniello. lealmente cantò: "Sai quanno fuste, Napoli, corona? Quanno regnava casa d'Aragona". Con l'arrivo di don Carlos si aprì la parentesi austriaca; ma si attuò anche, con due secoli d'anticipo sul resto del mondo, il primo progetto di previdenza sociale, con l'emblematico "Albergo dei Poveri": opera grandiosa, voluta da un monarca assoluto in seno ad una società aristocratica e feudale, nel cui ambito però ebbero autorevolezza e prestigio il Parlamento e i Sedili, compreso quello del Popolo.
Pressoché immutate le condizioni del Regno sotto Ferdinando IV al quale si deve la creazione della prima industria-modello apparsa in Europa, con partecipazione agli utili e assistenza sanitaria: la Colonia di San Leucio, che ancora oggi esporta sete e damaschi in tutto il mondo; del Catasto Onciario per la certezza dei diritti di proprietà; della legislazione che limitava le funzioni amministrative del baronaggio.
Quando giunse l'eco della "Marsigliese" e "Ca ira", le campane delle 420 chiese di Napoli chiamarono a raccolta i lazzaroni: come in Vandea, a Madrid, a Lione, nella Bretagna. I cannoni caricati a mitraglia aprirono i varchi alla Rivoluzione e alla Repubblica Partenopea. Entrato in città, il generale Championnet telegrafò al Direttorio di Parigi: "Un monarca di meno, una repubblica di più". I Borboni sarebbero tornati sul trono dopo Waterloo e con la Restaurazione. Fino al giorno di Teano.

Le grandi isole: Balarm e Apulia
Le descrizioni della Sicilia nella letteratura araba si sprecano. L'Amari, profugo a Parigi mentre i protagonisti del Rinascimento (tra i quali lo stesso Amari) erano in esilio, spulciando i codici arabi della Biblioteca Nazionale, raccolse queste descrizioni e le riunì in due volumi di 600 pagine l'uno, ai quali diede il titolo di "Biblioteca arabo-sicula". In questi stralci della letteratura araba le lodi per Palermo sono persino eccessive: "Prima nel novero è Balarm, la bella e immensa città; il massimo e splendido soggiorno, la più vasta ed eccelsa metropoli del mondo; quella che, a narrarne i vanti, non si finirebbe quasi mai ... "; ma assieme alle lodi spunta qualche critica, soprattutto sugli abitanti: "Messomi a guardare dalla Moschea ov'ero, per quanto si stendea la vista del tratto che percorre una saetta, io notai una decina di Moschee, che talvolta l'una stava di faccia all'altra, e correavi di mezzo solo la strada. Avendo chiesto il motivo di questo numero strabocchevole, mi fu detto che qui la gente è sì gonfia di superbia che ognun vuole la Moschea sua propria nella quale non entri che la sua famiglia e la sua clientela.
Accade qui che due fratelli abitano case contigue, anzi addossate ad un muro comune, pur si faccia ciascun di loro la sua Moschea per adagiarvisi egli solo... Insomma, ognuno vuoi che si dica: Questa è la Moschea del tale e di nessun altro ... ".
Tutto ebbe inizio quando il grande Furat gridò dalle sponde dell'Africa ai guerrieri musulmani pronti a combattere: "Combattano dunque sulla via di Allah coloro che volentieri cambiano la vita terrena con l'Altra", facendo seguire il versetto: "Ché a colui che combatte sulla via di Allah, ucciso o vincitore, daremo mercede immensa"; e gli Arabi partirono alla conquista della Sicilia.
I musulmani, conquistata l'isola, risposero con uno zelo generale non solo religioso che, al contatto con l'infedele, sembrava esprimersi in maniera sempre più manifesta anche sul piano dell'edilizia. Se è vero che, tra quelle che sono state definite "Gesta Dei per Arabes" vanno elencate non solo le conquiste militari a tutti note, ma anche le non sempre sufficientemente conosciute conseguenze legate alla trasmissione della cultura, ben si inseriscono la Spagna e la Sicilia come gemme della civiltà araba.
Missione di fede e avidità di beni terreni, al-jihad wa al-granim ("la guerra santa e il bottino"), furono la duplice motrice dell'avventura araba, ma ad essa si aggiunse ben altro.
Questo avvenne ai due lati del "crescente" musulmano. Come l'Islam orientale, addentratosi sempre più in Asia, risentì del contatto col mondo turco in movimento, con l'india, l'Insulindia e la Cina, così l'Islam occidentale diede e ricevette dall'Europa rimasta cristiana (e per piccola, ma attivissima parte, giudaica) beni materiali: legnami, tessuti, metalli, prodotti artigianali, e beni culturali: poesia, musica, canto, arti figurative, scienze e filosofia antica, sulla cui consistenza ed efficacia oggi tanto si discute. Se molto avvenne in Asia, moltissimo si verificò in Spagna, chiamata "isola" (perché gazira significa in arabo sia "isola" sia "penisola"), in quel meraviglioso miscuglio che permise lo scambio di civiltà con civiltà, oltre che di merci con merci, con una spinta da un lato verso nord, in Provenza, e dall'altro verso sud, nell'"altra isola", che fu la Sicilia.
L'avvenimento più strano è espresso in un anonimo canto siciliano: "Spinti da una prodigiosa corrente/ trecento iceberg si mossero dai fiordi scandinavi/ entrarono nel Mediterraneo/ e si fermarono davanti alle coste della Sicilia/ Per cento anni/ il riverbero del sole sulle loro cime/ abbagliò gli isolani".
E' in questo periodo che oggi gli studiosi collocano la costruzione della Zisa e della Cuba e non, come in passato, nel periodo del governo musulmano. Il periodo dei Normanni fu un altro momento di vivo scambio, di ribollire di pensiero ed azione. Si pensi alle analogie tra l'invasione della Sicilia e quella di Guglielmo il Conquistatore in Inghilterra. Si notano le similitudini dei "parchi reali" e quelle della forma delle grandi costruzioni. Il sistema dei parchi creato in Sicilia dagli Altavilla si ricollega qui alla tradizione culturale nella quale si fondevano le ambizioni e il modo di vita dei Normanni (per i quali la caccia era, in pace e in guerra, l'occupazione preferita). La politica amministrativa, che doveva dare origine al feudalesimo, ma anche l'influenza della civiltà e della scienza dei musulmani: accade così di scoprire che i Normanni erano architetti nati e che, nella loro attività architettonica, trasferivano lo stesso senso dell'organizzazione e dell'ordine che li guidava nella loro attività politica e nelle loro conquiste. Il senso dell'unità del disegno rifletteva la loro esigenza di unità di governo. La White Tower di Londra e il castello di Rochester sono i documenti più insigni di una civiltà che fuse i caratteri normanni con quelli della tradizione locale. E in questo contesto, il "crescente" architettonico trova l'altro referente in Puglia, lungo l'itinerario delle cattedrali che dall'estremo nord, da Troia, scende nelle fasce interne e poi si fa "marittimo" lungo la costa. Se si tien conto di questo, nello sviluppo della storia della Puglia, risalta ancor più un'unità mediterranea tra Iberia, Sicilia e la regione più orientale della penisola. Anche sotto il profilo della presenza musulmana, sebbene questa sia stata poco e male esplorata nelle vicende che videro coinvolte Taranto e Bari. E più tardi ancora Otranto, la cui storia non trovò cantori che la facessero, com'era, grande: come accadde invece per la storia, in realtà minima, di Roncisvalle.

Uomini contro

Storia di un popolo e di due resistenze

L'estrema, disperata difesa del Regno delle Due Sicilie si concluse con la resa di Gaeta, il 25 febbraio 1861. I piemontesi concessero alle truppe borboniche l'onore delle armi e poi Francesco Il e la sua coraggiosa Maria Sofia presero la triste via verso Roma e l'esilio. Su una fortezza, però, quella di Civitella, ancora per qualche tempo sventolò una sbrindellata bandiera borbonica, intorno alla quale si strinsero pochi eroi che avevano deciso di non arrendersi. I piemontesi, dopo Castelfidardo, Ancona e San Leo, completarono l'occupazione, ma quel lembo di terra napoletana continuava ad essere accanitamente difeso.
La storia è ricca di esempi di assedi duri e persino crudeli, ma in questo caso avvenne qualcosa di peggio, in quanto gli attaccanti vollero considerare quei 400 uomini comandati da un sergente alla stregua di briganti. Il loro comandante, il maggiore Giovine, si era infatti consegnato nelle mani dei piemontesi, ma la guarnigione aveva deciso di non voler venire a patti: solo 4 militi su 400 optarono per l'abbandono del forte e la resa, mentre nella semidistrutta chiesa di Santa Barbara il francescano Leonardo Zilli celebrava la messa pregando perché avesse fine onorevolmente la carneficina.
L'attacco, sempre più intenso, raggiunse aspetti apocalittici quando un'effigie della Vergine del Carmelo posta sull'estremo baluardo rotolò fino a giungere fra i pezzi dell'artiglieria piemontese.
Alla batteria Maria Cristina gli artiglieri misero a punto una grossa colubrina, il cui tiro poteva raggiungere il mare. La resistenza ebbe il suo epilogo soltanto il 20 marzo, per il tradimento di un graduato che aprì la Porta Napoli, permettendo ai piemontesi di far prigionieri alcuni napoletani, fra cui lo Zilli, che furono fucilati alla schiena.
Si verificarono episodi di eroismo spinti al fanatismo, come quello di un certo Zopito di Bonaventura che uscì dalla sua postazione e andò incontro alla morte con la coccarda rossa borbonica sul petto, per non essere fucilato alla schiena come i suoi compagni. Poco alla volta, gli assediati uscirono dalla fortezza non per arrendersi, ma per offrirsi in olocausto e morire combattendo. Così ebbe fine lo scontro fra napoletani e piemontesi: pur parlando la stessa lingua,
non riuscirono a capirsi, all'ombra delle tragedie che oscurano molti passi della storia.
Non è certo per ristabilire improbabili verità distorte o nascoste o per portare alla luce particolari inediti fondati su nuovi documenti e ricerche, e neppure per proporre letture soggettive e un po' "rare", che ci sembra opportuno e giusto ricordare le Quattro Giornate, improvvise e violente, di quarantasette anni fa: 28 settembre 1943.
Nei fatti, a partire dagli ultimi giorni di settembre, una città e un popolo prostrati da una guerra senza fine da circa 150 bombardamenti, da una situazione ancor più insoffribile dopo l'8 settembre; brutalizzati dai tedeschi, messi a loro volta alle strette dai drammatici eventi che incalzavano e dalle truppe alleate ormai alle porte. Chi concretamente insorse e impugnò le poche armi, facendo appello al molto coraggio necessario, confluì in un "fronte" spontaneo ed eterogeneo assai variegato socialmente ed "esterno" o marginale, per lo più, rispetto alle forze politiche organizzate. Si trattò di studenti e intellettuali, di spiriti antifascisti, di militari, di sbandati, di semplici civili sfuggiti ai rastrellamenti e alla leva coatta, di operai, di popolani e di popolane, di giovanissimi audaci fino all'incoscienza.
Alla base, impulsi e stimoli radicati più nelle ragioni semplici e impellenti della vita materiale, da ricostruire e da difendere a denti stretti, che non nella meditata consapevolezza del disegno politico organico di rigenerazione. In ragione di ciò, di quello che si è voluto definire come "antifascismo sociale", proprio della realtà napoletana e meridionale, emerse anche la prevalenza di azioni di guerriglia urbana, di insorgenza civile e popolare, di ripulsa e di ribellione alle violenze, alle prevaricazioni, alle sottrazioni forzate di cose, di sentimenti, di persone, di ideali.
E in tutto questo spiccò l'innegabile esemplarità di quella straordinaria esperienza, nel suo manifestarsi come la risoluzione estrema della riappropriazione di un destino sfuggito tante, troppe volte dalle mani, una corale autodeterminazione che fece di Napoli in quel momento un "laboratorio" decisivo, in quanto prima metropoli europea a liberarsi dal nazifascismo, anticipando lo stesso arrivo degli anglo-americani, prefigurando lo sbocco ineludibile della lotta di liberazione nazionale.
In questo senso, le Quattro Giornate non furono poca cosa allora, e non sono poca cosa ancora oggi. Perché possono rappresentare molto per una memoria collettiva offuscata e scarsamente sollecitata come l'odierna. Ancor più, il loro ricordo vivificato può giovare sul terreno della nostra identità civile e politica, che tutti dobbiamo ricominciare a costruire.

Terrone = cafone

Cafone, sostantivo. Nel Sud significa contadino, ed è voce osca latinizzata, "cabocabonis", Cafone, anche aggettivo, è persona grossolana e ignorante, priva di gusto, di rispetto e di tatto. La parola ha superato i confini meridionali dopo l'Unità. In precedenza, l'uso era limitato alla città di Napoli e a pochi altri centri urbani del Sud; e cominciò ad avere il suo valore aspramente offensivo durante il regno aragonese, allorché Napoli, capitale di un Regno e centro di cultura influentissimo, prese ad espandersi, avviandosi a divenire la più popolosa città d'Europa. In quel tempo, lo sviluppo dell'edilizia richiamò una quantità di contadini ansiosi di trovare un'occupazione. L'immigrazione era del resto favorita dai re e dai viceré con appropriati provvedimenti: a Napoli, per esempio, vigeva il prezzo politico del pane e vi erano sconosciute le ricorrenti carestie che tormentavano le campagne, Purtroppo, l'attività edilizia aveva carattere ciclico e spesso languiva, così gli immigrati rimanevano senza mezzi di sussistenza e si trasformavano in plebe inquieta e aggressiva; i furti e le grassazioni si moltiplicavano, uscire anche in pieno giorno dalla città senza un'adeguata scorta di guardie era una pazzia; infieriva il brigantaggio e imperversava la delinquenza di città, una specie di camorra ante litteram. Piccola nobiltà e borghesia reagivano a questa situazione assumendo, nei confronti degli "ultimi venuti" e dei contadini che, nonostante tutto, continuavano a cercare protezione in città, un atteggiamento di durissima ostilità: chiunque venisse da fuori e non fosse un "napoletano verace" era considerato un cafone; persona, per l'appunto, grossolana e ignorante, priva di gusto e di rispetto.
E' inutile dire che anche i plebei di vecchia immigrazione condividevano quel sentimenti nei confronti dei "cafoni" che, intendiamoci, specie in periodi più vicini a noi, non sempre erano contadini veri e propri; spesso si trattava di nobiltà decaduta e di borghesia agraria che veniva ad arricchire le professioni liberali, I' avvocatura, la medicina. Ma anche quelli "toglievano il pane" a chi già c'era. La stessa avversione (che somigliava molto all'odierno "razzismo antimeridionale") la esprimeva l'intera città nei confronti dei funzionari e dei militari che giunsero a Napoli dopo l'Unità. Come si vede, i tempi cambiano; a cambiare assai più lentamente sono i sentimenti della gente.

Se lo Stato è mecenate

L'Archivio Storico del Banco di Napoli e l'Archivio della Reale Arciconfraternita del SS. Sacramento dei Nobili Spagnoli contengono decreti reali, corrispondenze, carteggi, legislazioni speciali, tutti preziosi inediti dei maggiori uomini di cultura e sovrani del Regno di Napoli; in particolare, di Vico, Cuoco, Giannone, Tanucci, Galiani, Filangieri, Cotugno, scienziati, letterati, giuristi, storici, poeti e artisti: Cimarosa, Paisiello, Scarlatti, Francesco Solimena, Gaspare Traversi, Gaspare Vanvitelli, Ferdinando Sanfelice... Vi si delinea, fra l'altro, la politica del Regno nelle incentivazioni delle arti, nelle opere pubbliche (Ospizio dei Poveri, Ospedale della Pietà, di San Giacomo, dell'Annunziata, dei Poveri; e le Casse di maritaggio per fornire di dote le fanciulle indigenti, e gli asili nido), nella politica di assistenza ed educazione dell'infanzia.
Riportiamo due "polizze" che fanno parte di queste raccolte.
Banco del Santissimo Salvatore. Polizza di 100 ducati emessa in Napoli il 9 dicembre 1755. la prima cattedra di "Economia Politica" in Italia. Retribuzione di Antonio Genovese "per la lettura della Nuova Cattedra di meccanica, e di Commercio", istituita nell'Università di Napoli da Bartolomeo Intieri nel 1754.
"Banco del Santissimo Salvatore pagate al signor don Antonio Genovese D. cento correnti dite sono per il 3° maturato a 31 ottobre prossimo caduto a complimento di D. 300 atteso D. 200 l'ha ricevuti in altro tempo, e tutti detti D. 300 sono per la lettura della Nuova Cattedra di meccanica, e di Commercio, da me fondata ne Regi Studi, e dotata di D. trecento annui, come da istrumento al quale si rimette. E con tal pagamento resta detto signor Genovese intieramente soddisfatto fino a tal tempo. E così pagherete.
Napoli 9 dicembre 1755.
Sono D. 100 correnti.
Riserbandomi tutte tutte e qualsivoglino ragioni. Qualsivoglino ragioni.
Bartolomeo Intieri.
Al signor don Salvatore Genovese per altri tanti Antonio Genovese. A me medesimo Salvatore Genovese.
Fo fede, come le suddette firme sono di proprie rispettive mani delli sudetti signori don Antonio, e don Salvatore Genovese figlio, e padre rispettivamente. Notaro Pietro Maria Sansone di Napoli et signavi solito sigillo.
Banco del Popolo. Polizza di 50 ducati, emessa nel maggio 1793, dai Governatori della Real Santa Casa degli Incurabili, a favore del dottor fisico Domenico Cotugno, per l'intera lezione di chirurgia medica data ai giovani dell'ospedale della Santa Casa, ed in suo nome dal sostituto Bruno Amantea, dottor chirusico.
Domenico Cotugno.

Tutti i numeri di un gran Borbone

Parliamo di re Carlo. Regnò a Napoli facendosi chiamare semplicemente "Carlo" o "don Carlos" o "Carlo Borbone". Michelangelo Schipa, che per primo studiò in maniera approfondita la vita di questo sovrano, dice che tale scelta non fu apprezzata a Parigi, dove si sosteneva che, nel rispetto rigoroso delle regole dinastico-genealogiche, il re delle Due Sicilie avrebbe dovuto chiamarsi "Carlo di Francia", e analogamente quello di Spagna "Filippo di Francia".
Carlo diventò "III" solo allorché andò a regnare in Spagna. Ciò non toglie che un numero d'ordine lo aveva - per forza di cose - anche quando stava a Napoli. Ma qual era quel numero? Agli inizi, qualcuno lo chiamò "primo", per mettere in rilievo il fatto che il nuovo Regno voleva essere senza legami col passato. Ciò è documentato in almeno due occasioni: in un Registro di Nobili del Regno, e nelle istruzioni impartite nel 1735 dal governo francese al proprio ambasciatore. Pietro Colletta riferisce che invece il 12 maggio 1738, quando finalmente Clemente XII si decise a concedere la sospirata investitura al giovane sovrano, lo chiamò "Carlo VII", perché "settimo re di Napoli con quel nome". E infatti i suoi predecessori erano stati, nell'ordine: Carlo d'Angiò, Carlo II detto lo Zoppo, Carlo III di Durazzo, Carlo V imperatore (ma Carlo IV come re di Napoli), Carlo II re di Spagna (ma Carlo V come re di Napoli), Carlo VI imperatore (che prima di divenire tale fu Carlo III di Spagna e che, trascurando la numerazione progressiva, volle regnare anche a Napoli come Carlo III).
Però, poco dopo l'investitura, Pietro Giannone (neIl' "Autobiografia") si chiese se non sarebbe stato giusto inserire nella serie anche Carlo VIII di Francia, considerandolo come IV per Napoli. Il che avrebbe avuto la conseguenza di trasformare Carlo da "VII" in "VIII". E appunto, guarda caso, Marcello Venuti, nella sua "Descrizione delle prime scoperte dell'Antica Città di Ercolano", del 1748, chiama il sovrano Carlo VIII Re di Napoli. Difficile credere a un errore, specie su un argomento così delicato, da parte di un grande erudito come il Venuti, vissuto oltre tutto sei anni nell'entourage della corte napoletana, dov'era stato anche Sovrintendente alla Biblioteca Reale e al Museo Farnesiano. Né si può pensare a un refuso tipografico, dato che l'"VIII" risulta ripetuto pure nella seconda edizione dell'opera, nel 1794. Venuti, dunque, era d'accordo con Giannone. la verità è che, mentre tutti volevano ad ogni costo assegnargli un numero, il re teneva duro, anzi s'impazientiva di tale insistenza. Schipa racconta cosa fece traboccare il vaso. la goccia fu, nel 1740, una requisitoria riguardante l'usufrutto d'un beneficio ecclesiastico, che il tribunale della Sacra Rota aveva inviato a Napoli e il cui testo definiva il re "Carlo VI". L'uso d'i questo nuovo numero, che nessuno aveva mai autorizzato, fu giudicato quasi offensivo, e la corte napoletana non poté trattenersi dal manifestare la propria indignazione. L'incartamento fu subito rispedito a Roma, respinto al mittente con l'annotazione - una volta per tutte - che il re non soltanto non s'era ancora "degnato di dichiarare la propria numerazione", ma che non intendeva nemmeno stabilire la data in cui l'avrebbe fatto.
Colletta sostiene che Carlo rifiutò ogni numerazione per "politica o vaghezza", cioè per calcolo o per puro sfizio, e non abbiamo difficoltà a credergli. Tuttavia, non riusciamo a fugare il sospetto che Carlo continuò a respingere qualsiasi proposta di numerazione semplicemente perché quel pasticcio di nomi e di numeri aveva finito per confondere le idee anche a lui.

Quel primo ponte sospeso

La costruzione di questo ponte borbonico, iniziato nel 1828 e terminato nel 1832, su progetto dell'architetto napoletano Luigi Giura,
rappresentò per i suoi tempi una novità architettonica, in quanto fu il primo ponte sospeso in Italia e uno dei primissimi in Europa. Esso rimase operoso fino al 14 ottobre 1943, quando venne distrutto dai reparti dell'esercito tedesco in ritirata verso Roma subito dopo l'armistizio. Con questo viadotto, Ferdinando II, oltre a risolvere il problema di collegare stabilmente le due sponde del Garigliano e a facilitare le comunicazioni con lo Stato della chiesa, dotò il Regno di un'opera all'avanguardia, e persino esteticamente valida.
Il Giura, che aveva già progettato ponti in ferro, previde questo sospeso a catene. Egli fu inviato dal sovrano all'estero, per studiare sul luogo il ponte di Belford, nel Galles, e quello di Seguin, sul Rodano. La realizzazione costò 75.000 ducati e, come riportarono alcuni cronisti dell'epoca, il 10 maggio 1832 fu collaudata dallo stesso sovrano. il quale, ponendosi al centro della campata, ordinò che vi passassero due squadroni di lancieri e sedici traini di artiglieria.
La notizia di quest'impresa suscitò l'emulazione dei sovrani del Piemonte e della Toscana, che fecero progettare ponti analoghi, che comunque non vennero realizzati. L'intera costruzione metallica fu prodotto nel Regno, con 70.000 chilogrammi di ferro per barre e catene fuse nella ferriera del principe Carlo Filangieri di Satriano.
Come abbiamo ricordato, l'opera fu distrutta nel '43; ma ancora oggi si possono vedere, al fianco del nuovo ponte sul Garigliano, i quattro piloni e le catene agganciate a sfingi di pietra. Nel gennaio '86 è stato completato un progetto per la sua ricostruzione: il ponte è un monumento nazionale.

Un binario lungo 151 anni

La locomotiva a vapore era stata inventata nel 1803 dal meccanico inglese Richard Threvithick. Il prototipo fu successivamente perfezionato da George e Robert Stephenson, padre e figlio, che ne migliorarono i manovellismi e introdussero le ruote flangiate, cioè dotate di bordo, che ne evitavano il deragliamento. Fu proprio la "Locomotion" degli Stephenson, considerata la prima vaporiera moderna, a inaugurare la linea fra Stockton e Darlington, percorsa a 18 Km/h da un convoglio di ben 34 carri merci. Un successivo perfezionamento, sempre degli Stephenson. fu la "Rocket", il "Razzo", visto che raggiungeva senza esplodere la velocità di 38 Km/h e poteva trainare 19 quintali.
Discendenti della "Rocket" furono le locomotive con cui si inaugurò in Italia l'era delle ferrovie, che ebbe un inizio folgorante: nei primi tre mesi d'esercizio, la Napoli-Portici fu percorsa da 131 mila viaggiatori: quasi 1.500 al giorno. Alcuni medi dopo, Ferdinando I d'Austria, appena incoronato re del Lombardo-Veneto, inaugurò (agosto 1840) la "Imperial regia privilegiata strada ferrata" fra Milano e la Villa Reale di Monza. 17 chilometri percorsi in 45 minuti, compresa la fermata intermedia a Sesto San Giovanni. Lo stesso sovrano, nel '46, realizzò il ponte ferroviario fra Venezia e Mestre.
Nel frattempo, altre ferrovie sorgevano nell'Italia divisa: nel 1841 la Padova-Mestre; nel '44 la Firenze-Livorno; nel '54 la Torino-Genova, con la galleria di 3,3 Km. Nel '53 l'Italia colse un primato: nella linea appenninica tra Genova e Busalla, precisamente al Passo dei Giovi, fu raggiunta una pendenza del 35 per mille, ritenuta all'epoca insuperabile. La salita fu percorsa alla bella velocità di 12 Km./h da due locomotive Stephenson accoppiate, per un totale di 400 cavalli, tanto da essere soprannominate "Mastodonti dei Giovi". Lo stesso tipo di vaporiera, in versione modificata, fu poi utilizzata per l'inaugurazione nel 1871 della più grande galleria ferroviaria dell'epoca, quella del Frejus, che collegava Italia e Francia col tunnel di 13,636 Km.
Quattro anni dopo l'unificazione italiana, nell'aprile 1865, fu realizzata anche l'unificazione ferroviaria; si poté andare direttamente dal Piemonte alla Puglia. Si impiegava, però, poco più poco meno, tra attese, cambi, coincidenze, una decina di giorni.

Dalla Napoli-Portici al Pendolino

1839 Inaugurazione della Napoli-Portici.
1853 Prima linea con un tracciato commerciale e con la prima galleria (3,3 km) costruita per una ferrovia. Velocità media pari a 12 km/k.
1861 Alla proclamazione del Regno d'Italia sono in esercizio 2.521 km di strade ferrate.
1863 Il treno in Sicilia, sulla Palermo-Bagheria.
1905 L'esercizio delle ferrovie passa allo Stato.
1906 Dopo otto anni di lavoro, aperto al traffico fra Italia e Svizzera il primo tunnel della Galleria del Sempione, per decenni la più lunga del mondo: 19,824 km.).
1919 Col vapore si va da Roma a Milano in 15 ore e 10 minuti.
1927 Entra in funzione la prima automotrice di produzione italiana.
1931 In servizio la più potente e imponente locomotiva a vapore italiana, la "691". E' anche la più veloce. Con essa entrano in esercizio i "rapidi".
1932 Fra Roma e Littoria (oggi, Latina), in funzione la prima automotrice a combustione interna, la "littorina".
1937 Esordio degli elettrotreni, gli ETR: dall'Arlecchino (Etr 250) all'ultimo, il Settebello (Etr 300), che segnano un'epoca fino ai nostri giorni.
1939 E' il 20 luglio: un Etr della Breda, il 200, stabilisce il primato mondiale di velocità, alla media di 165 km/h tra Firenze e Milano. Tra Parma e Piacenza raggiunge i 203 km/h.
1946 Rete ferroviaria annientata dalla guerra. Danni per circa mille miliardi dell'epoca.
1988 In maggio, entrano in servizio i Pendolino sulla Roma-Milano. Il percorso di 633 km, senza fermate, in tre ore e 58 minuti. Con circa 6.200 convogli, le FF.SS. hanno trasportato 410 milioni di passeggeri.

L'Autore

Ephraim Chambers

Non senza qualche agitazione io dò nelle mani del Lettore quest'Opera. Ella è cotanto sproporzionata alle forze di una sola persona, che appena potrebbe bastarvi un'Accademia; e quel che maggiormente accresce i miei timori, è il breve spazio di tempo, che ho dovuto impiegare nell'esecuzione di una cosa, che avrebbe dovuto almeno tenere occupata l'intera vita umana. Il Vocabolario dell'Accademia della Crusca è stato più di quarant'anni a compilarsi; e 'l Dizionario dell'Accademia Francese molto
più lungo tempo: e pure l'Opera presente, riconosciuta più ampia di tutte quest'altre nel di lei soggetto e disegno, è di gran lunga inferiore ad esse, riguardo agli anni e alle mani che vi si sono impiegate ( ... ). Non vi è stato luogo della Repubblica letteraria,
ove io non v'abbí trafficato in questa occasione. Ho dovuto frequentemente aver ricorso agli originali sopra tutte le arti,- e per non
far menzione di quelle poche cose, somministrate dalle mie proprie osservazioni; il lettore troverò qui degli estratti e delle notizie, cavate da un gran numero di libri di ogni genere: ( ... ) accompagnate da una quantità di esperienze, che in ogni parte, e specialmente nella scienza naturale, si sono fatte in questi ultimi anni.
Se mai vi fosse di ciò richiesta di esempi, crederei che poche sono quelle pagine di quest'Opera, che non ne possono amministrare in abbondanza.

Il traduttore

Giuseppe Maria Secondo

L'Opera che offerisco al Pubblico è una delle più mirabili produzioni dell'umano intendimento. Ella non ha bisogno di nuove e replicate prove per attestarsene l'eccellenza, essendo tanto ben conosciuta nella Repubblica delle Lettere, che il desiderio grande de' Letterati di provvedersene tutti, fece sì, che in pochi anni n'uscissero da Londra pressoché trentamila esemplari. Efraim Chambers non lascia tuttavia di rendere grande la maraviglia, come mai l' uniche sue forze, abbiano potuto esser bastanti a compilare un Dizionario Universale dell' Arti e delle Scienze ( ... ). Ma non meno maraviglia però ha recato, il vederla finora confinata nel suo solo original linguaggio Inglese, senza che i Letterati di Francia, di Olanda e di altre Nazioni, che ben ne hanno riconosciuto il merito, e considerata l'utilità e la necessità, ne avessero intrapresa una traduzione in Francese, per renderla più comune all'altre Nazioni, più prossime all'Italia. Egli è vero che il trasportare dal linguaggio Inglese un'Opera così grande, sarebbe loro costata un'immensa fatica, ma non per questa, non vi sarebbero essi riusciti con tutto quelI'onore, che sempre mai han riportati, nel dar fuora altre grandi e mirabili pruove del loro felice talento. Una tal/ maraviglia, accompagnata di un vivo desiderio di far provare a' miei Concittadini le mirabili produzioni dell'ingegno umano, mi mossero di meditarne una versione Italiana.

Perché?

Domenico Rea

Spesso penso all'errore che ha commesso Napoli nel rimanere indietro in Europa. Trecento anni or sono noi non avevamo niente da invidiare a nessuno e, in Italia, per popolazione, forma urbana, valori d'arte, rapporti con l'estero, eravamo tra i primi. Poi accadde qualcosa. Ci fermammo. Aggiungemmo solo dei particolari. Sventrammo ed estendemmo, ma il nocciolo, il centro della vita rimase quello di sempre: di qua la plebe, di là gli aristocratici, il piano nobile e il basso. Londra e Parigi, che avevano gli stessi problemi, andarono avanti. Fecero la rivoluzione borghese e industriale, instaurarono la democrazia. Posero davanti a tutto il diritto delle genti che un abitante dei vicoli di Spaccanapoli, G.B. Vico, aveva da tempo affermato. Sporca e puteolente era Napoli, ma più sporche e puzzolenti erano Londra e Parigi. Le testimonianze sono innumerevoli... E intanto Ginevra calvinista è diventata un giardino; Londra ha solo tracce nobili del passato; Parigi rimane ancora una tappo dello spirito e Napoli è rimasta non solo se stessa, ma si è lasciata crescere all'interno e all'esterno una sorta di terzo mondo pieno di gentaglia che possiede soltanto l'istinto.
Gente che, appena appena la si tocca, mostra una tendenza incline alle peggiori infrazioni. Mangia una pesca e butta il nocciolo per terra; chiude il negozio e riempie il marciapiede di scatole e cartacce; vende prosciutti e provoloni e tocca tutto con le mani; va in Mercedes con un coltello o serramanico in tasca; vive con spocchia e sfarzo il Novecento consumistico, ma i comportamenti sono ancora quelli del Seicento. Ha un'informazione del civismo di altre terre, ma rimane rinchiusa nel suo orto come una città antica. Riduce i quartieri nuovi a luridi agglomerati di cose; i prati a zizzania; le cabine telefoniche a sentine.
Un caparbio spirito di autodistruzione sembra spingerla ogni giorno di più verso un cupio dissolvi.

Ancora, perché?

Lucio Villari

E' pur vero che il regime politico e sociale del Regno delle Due Sicilie era lontano da quel modello liberal-parlamentare inglese e francese che sembrava necessario e intrinseco allo sviluppo del capitalismo industriale.
Tuttavia, se quanto è avvenuto a Napoli dal 1839 in poi è stato solo una oggettiva, occasionale coesistenza tra arretratezza politica e forme avanzate di sviluppo economico, senza alcun nesso con i reali rapporti sociali e di produzione del Paese, mi domando se in quegli anni il regime borbonico non sia stato più moderno delle strutture sociali e delle istituzioni politiche che esso rappresentava. Sarebbe così smentita l'equazione storicamente troppo stringente tra crescita capitalistica e sviluppo politico della libertà, attribuita alla rivoluzione industriale. Il caso della Napoli borbonico non sembra rientrare nel modello ottocentesco dello sviluppo capitalistico contestuale alla liberalizzazione della società civile. E inoltre il caso della ferrovia Bayard fa pensare al ruolo propulsivo che ebbe il capitale straniero nel Regno napoletano. Ma, al contrario di quanto avveniva in altri Paesi europei, la penetrazione finanziaria e tecnologica straniera non positivamente interferì nel sistema politico borbonico, nel senso di stimolarne, appunto, esperimenti e atti politici di tipo liberal-borghese.
Perché questo? Forse l'imprenditore borghese napoletano era privo di idee e di iniziativa? Eppure la cultura scientifica e la ricerca tecnologica furono un successo dell'età borbonica, un successo che si trasmetterà tranquillamente alla Napoli post-unitaria, grazie anche alla diffusione nell'Università, nelle accademie e tra la gente colta, del darwinismo, del positivismo e del marxismo. E allora?
Gli interrogativi si moltiplicano, e alcuni restano senza risposta. Ma il 3 ottobre 1839, con la prima ferrovia italiana, qualcosa irrimediabilmente cambiava nella storia d'Italia.


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