§ Opinioni

Se l'economia politica si tinge di verde




Mario Talamona



E' passato un secolo da quando Alfred Marshall, uno dei maggiori e più influenti economisti moderni, coniavo anche la definizione dell'economia politica come "scienza dei prezzi". Stava anzi per cadere l'aggettivo "politica" e si sarebbe sempre più cercato di evidenziare nel nome stesso della disciplina l'aspirazione "scientifica" all'oggettività, alla neutralità, all'asetticità rispetto ai giudizi di valore (Per non parlare dell'elemento ideologico).
Si sarebbe sempre più parlato di "economica" o di economia tout court, e ancora verso la fine dei nostri anni '50, cioè dopo Keynes, Dennis Robertson soggiaceva in pieno alla tradizione anglosassone di stampo marshalliano - corrispondente, in ciò, a quella continentale radicato nell'opera di Walras e Pareto - definendosi "un anacronismo": in quanto professore di economia politica.
Così continuano del resto a intitolarsi (per ora al riparo da belluini conati ministerial-burocratici di riforme di certi piani di studio universitari) le nostre cattedre di economia in senso proprio, come scienza sociale. Senza pericolo di confonderla, da un lato, con le molte tecniche aziendalistiche e, dall'altro, con l'antica economia politica, intesa come un corpo più o meno coerente di massime per gli uomini di governo; anzi, di Stato, com'era ancor lecito dire, con una punta di Ipocrisia vittoriana, ai vecchi tempi.
Naturalmente, la definizione di Marshall èapparsa poi restrittiva e nient'affatto neutrale. "Prezzi" voleva dire prezzi di mercato, e mercato voleva dire non soltanto economia privata (fondamentalmente capitalistica), ma ancor più, nel contesto teorico e soprattutto storico, istituzionale e ideologico - proprio ciò con cui si voleva negare d'aver a che fare - mercato perfettamente concorrenziale e atomistico. Quel che insomma George Bernard Shaw, nella sua trivellante polemica, definiva l'"Araba Fenice", con quel che segue. E', d'altronde, ciò che gli sviluppi nell'analisi delle forme di mercato Imperfettamente concorrenziali e oligopolistiche, da una parte, e il ritorno all'ottica macroeconomica degli aggregati con la "rivoluzione" keynesiana, dall'altra, avrebbero messo definitivamente in crisi.
Compresa però la fondamentale problematico dell'allocazione delle risorse, delle scarsità relative, dell'efficienza produttiva e distributiva, degli sprechi e delle basilari condizioni sia dello sviluppo potenziale dell'economia sia dei suoi effetti positivi e negativi sul "benessere materiale" (o sul "malessere") degli individui nelle società contemporanee. Perciò, necessariamente, in termini di prezzi relativi di fattori e prodotti, di beni e servizi, individuali e collettivi, privati e pubblici. L'economia come "scienza dei prezzi" riaffiorava quindi, paradossalmente in apparenza, da altri punti di vista, sempre più urgenti e sostanziali. Non più tanto sul piano dell'analisi "positiva" dei fenomeni economici, quanto su quello degli approcci "normativi" o propositivi di politico economica, al di là dei grandi aggregati della contabilità nazionale.
Per ogni problema di struttura, ad esempio, e non soltanto di congiuntura. Ma soprattutto nella più preoccupante constatazione che la visione macroeconomica degli aggregati è del tutto insufficiente per scopi pratici di politica economica e sociale: se non si tien conto che tutto dipende, alla fine, dai processi di decisione e dalle decisioni concrete (sotto date condizioni) di unità di decisione, appunto, come soggetti più o meno complessi, A cominciare, non di rado, dallo Stato che non decide, o dal settore pubblico che opera in condizioni in parte descritte sia dalla teoria economica della democrazia alla Downe sia dalla teoria economica della burocrazia e più in generale da quella della Public Choice di Buchanan e compagni. La strada è stata, per la verità, piuttosto lunga e costosa. La funzione cruciale dei prezzi relativi (non di quelli assoluti e nominali della macroeconomia keynesiana e monetaristica) è apparso chiara, per esempio, nella teoria della programmazione e dei tentativi di applicazione dei calcolo economico razionale alla pianificazione centralizzato, anche attraverso le tecniche della programmazione lineare o no, e della "ricerca operativa". Si pensi alla tematica del "prezziombra", cioè dei prezzi contabili o pianificati, pallido ma rigoroso riflesso teorico di spunti affiorati nel famoso dibattito degli anni '20 e '30 sulla cosiddetta teoria economica del socialismo, fra Lange-Lerner e vari Maises, von Hayek, nell'ancor inconsapevole prospettiva del fallimento epocale della pianificazione centralistica al quale assistiamo oggi, fra Mosca, Varsavia e Pechino, nel modo più drammatico e radicale.
Eppure, proprio oggi e non soltanto nell'Est, ma anche e soprattutto in Occidente, persino in Europa e in Italia, assistiamo a un poderoso, irrefutabile ritorno dell'economia politica come "scienza (anche) dei prezzi", sotto l'impatto di una ritardata ma irreversibile coscienza delle dimensioni ecologiche dei problemi economici e sociali. L'economia dell'ambiente è essenzialmente un'economia della scarsità e, come tale, invoca prepotentemente una nuova sensibilità per il ruolo dei prezzi: che non sempre, a dire il vero, si manifesta con adeguata competenza. Ma l'idea avanzata in Germania da un leader del Partito Verde, Joschka Fischer, in un libro recente (Der Umbau der Industriegesellschaft, "La ricostruzione della società industriale"), di "rinverdire" il capitalismo rendendolo responsabile per il futuro della Terra e adottando gli strumenti del mercato in aggiunto a quelli dello Stato, va decisamente in questa direzione. Come ci vanno sia la Thatcher sia la socialdemocrazia svedese e quella tedesca, nei loro nuovi programmi.
Che ci vada anche l'Italia è forse presto per dirlo. Se non altro perché la "tassa ecologica" proposta dal ministro per l'Ambiente è ancora così nebuloso da consentire a ognuno di dire la sua, a ruota libera. E da lasciar sospettare che serva da escamotage per tutt'altri scopi, di pura (e illusorio) riduzione del disavanzo.
Tecnicamente e politicamente impeccabile ci è parso comunque, al riguardo, un commento di Chicco Testa: sulla contraddizione di fondo tra un obiettivo ambientale e la speranza (non dissimulata) di un introito fiscale.

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