La teoria dell'attività
bancaria internazionale sembra essere ancora in una fase iniziale
di sviluppo e le sue principali promozioni sono spesso un adattamento
di quelle elaborate nell'ambito della teoria degli investimenti diretti
all'estero (1). Come avviene in quest'ultimo contesto teorico, le
domande per le quali si cerca una risposta sono sostanzialmente due:
che cosa spinge un'azienda ad espandersi all'estero e su quali vantaggi
competitivi essa può contare rispetto alle aziende del Paese
ospitante.
La risposta tradizionale alla prima domanda ipotizza che le banche
aprano uffici e sportelli all'estero per continuare a servire le grandi
imprese che hanno deciso di estendere la loro attività al di
fuori del proprio Paese (effetto gravitazionale).
Questa tesi (follow the leader) èpresumibilmente valida per
spiegare la prima fase di insediamenti di filiali bancarie all'estero.
Durante tale periodo, che storicamente si è concluso con la
prima guerra mondiale, banche di Paesi ad elevato sviluppo (Gran Bretagna
e, in minor misura, Francia e Germania) estesero la propria rete operativa
a Paesi in molti casi meno evoluti sotto il profilo bancario (le colonie
inglesi, ad esempio).
La spiegazione tradizionale appare invece debole se adottata per interpretare
quanto è accaduto nel secondo dopoguerra, quando l'espansione
all'estero delle banche americane, europee e giapponesi ha prevalentemente
interessato Paesi ad elevato livello di sviluppo.
Un aggiornamento della spiegazione tradizionale può considerarsi
la tesi che sostiene che le banche seguono le imprese nella loro espansione
all'estero non perché i Paesi ospitanti non siano in grado
di proporre un'adeguata offerta di servizi bancari, ma perché
temono di veder messo in discussione il legame di affari con loro
stabilito in patria.
La relazione tra sviluppo delle reti bancarie all'estero e andamento
degli investimenti diretti all'estero di carattere produttivo, messo
in evidenza dalle stime econometriche (2), indica che la spiegazione
tradizionale (le banche seguono le imprese) coglie sicuramente un
aspetto della realtà.
Più che ad una singola motivazione, lo sviluppo all'estero
delle reti bancarie deve essere però ricondotto ad una molteplicità
di circostanze. In alcuni casi, ad esempio, una potente azione di
stimolo è stata svolta dal desiderio di ovviare ad alcune restrizioni
della normativa interna. Sembra essere questo, fra gli altri, il caso
delle banche commerciali americane che da tempo si confrontano in
patria con severe limitazioni sia per ciò che riguarda l'espansione
territoriale delle loro reti di sportelli (Mc Fadden Act) sia per
l'estensione delle loro attività nel campo dell'investment
banking (Glass-Steagall Act).
Un ruolo importante ha anche giocato l'assetto della parità
di cambio. Periodi di relativa forza delle rispettive monete nazionali
hanno probabilmente favorito le politiche d'investimento all'estero
delle banche americane (prima) e delle aziende di credito europee
e giapponesi (in seguito).
E' da sottolineare che la relazione tra andamento del tasso di cambio
e apertura di nuove filiali all'estero è di non univoca definizione.
Da un lato, infatti, in un periodo di debolezza della valuta del Paese
ospitante il costo di questo tipo d'investimento risulta ridotto;
dall'altro lato, la prospettiva di un periodo di apprezzamento di
questa valuta può incoraggiare iniziative dall'estero perché,
se verificata, determina un effetto di rivalutazione delle risorse
investite. Il segno della relazione tra tasso di cambio e investimento
estero è ovviamente opposto nei due casi.
Questi e altri fattori contribuiscono certamente a rispondere alla
prima domanda. Non offrono invece consistenti elementi per rispondere
al secondo interrogativo. In altre parole, le ipotesi prima citate
possono rappresentare la condizione necessaria, ma non sono la condizione
sufficiente per spiegare l'espansione all'estero di una banca. Banche
che operano in Paesi caratterizzati da ridotti spreads tra tassi attivi
e passivi hanno sicuramente un forte incentivo ad estendere la loro
attività a mercati caratterizzati da spreads più ampi
e questo anche perché possono la applicare tecniche di intermediazione
più efficienti già sperimentate sul mercato interno.
Le banche di Paesi caratterizzati da un basso costo del capitale hanno
poi un evidente vantaggio rispetto ai concorrenti (il rendimento minimo
che esse devono conseguire per il capitale investito è inferiore).
Sarebbe questa, ad esempio, una delle principali determinanti dell'espansione
all'estero delle aziende di credito nipponiche (3).
Secondo alcuni autori (4), comunque, l'esistenza di alcuni eventuali
vantaggi competitivi delle aziende di credito estere andrebbe ricercata
scomponendo l'attività bancaria nelle sue principali componenti
(retail banking. wholesale banking. offshore banking. ecc.).
Per definire che cosa debba intendersi a livello aziendale per attività
internazionale, i punti di riferimento possibili sono tre:
- la valuta di denominazione delle operazioni;
- la localizzazione della struttura operativa che le gestisce;
- la residenza del cliente.
Nel primo caso, l'attività bancaria viene definita internazionale
se la valuta di denominazione è diversa da quella in circolazione
nel Paese in cui la banca ha la sua sede principale. Nel secondo caso
si definisce attività bancaria internazionale l'insieme delle
operazioni gestite dalle strutture operative localizzate all'estero.
Nel terzo caso, attività internazionale è quella che
coinvolge i clienti non residenti.
Tutte le definizioni proposte colgono un aspetto del fenomeno, ma
presentano anche limiti più o meno gravi.
La prima, ad esempio, enfatizza troppo un particolare che, considerato
a sé, non è in realtà in grado di chiarire con
ragionevole precisione se l'attività bancaria è effettivamente
internazionale o meno. L'attività in valuta può, infatti,
essere il riflesso più di una operatività internazionale
della clientela che non della banca. Inoltre, adottare la valuta di
denominazione come punto di riferimento porterebbe, fra l'altro, a
classificare come attività interna gran parte delle operazioni
di prestito condotte dalle banche americane a favore dei Paesi in
via di sviluppo.
L'accettazione tra gli operatori a livello internazionale di ciascuna
valuta è poi circostanza che complica considerevolmente la
lettura di questo tipo di informazione. Il peso delle attività
in valuta estera di una banca localizzata in un Paese (ad esempio,
gli Usa) che emette valuta accettata sia all'interno sia all'estero
sarà generalmente minore rispetto a quanto non avviene per
una banca localizzata in un Paese che emette valuta a più modesta
circolazione internazionale.
La validità della seconda definizione dipende dalla prassi
amministrativa adottata dai diversi istituti. Soprattutto dopo l'insorgere
della crisi debitoria internazionale, molte aziende di credito (come
quelle inglesi) hanno infatti accentrato presso la sede centrale una
parte rilevante delle operazioni di prestito all'estero.
Per quanto riguarda la terza definizione, uno del suoi limiti è
quello di considerare come attività internazionale anche operazioni
della clientela non residente riferibili ad attività da questa
svolte nel Paese in cui ha sede la banca.
Tutto considerato, il grado di espressività delle tre definizioni
può ritenersi inverso al loro ordine di presentazione. I dati
su cui concentriamo l'attenzione di questa nostra indagine rispondono
quindi, tutti, alla terza o alla seconda definizione.

Nostro obiettivo, ora, è proporre tutti gli elementi utili
e disponibili per definire l'ampiezza dell'attività internazionale
dei principali gruppi bancari. Malgrado sia considerevolmente cresciuto
lo spazio dedicato dalle relazioni di bilancio a questa attività,
la disponibilità dei dati è ancora troppo modesta. L'analisi
non ha quindi potuto raggiungere l'approfondimento desiderato. Le
indicazioni raccolte si collocano su tre livelli:
- quello del totale dell'attivo;
- quello del rapporto con la clientela ordinaria (raccolta e impieghi);
- quello del personale.
L'arco di tempo considerato è il triennio 1986-1988.
Pur ribadendo che la disaggregazione per valuta offre indicazioni
di difficile interpretazione, si è ritenuto comunque opportuno
proporla per completezza d'informazione. La tabella 2 indica che a
livello di attivo totale il rapporto tra quota in valuta nazionale
e quota in valuta estera è per le principali banche commerciali
francesi stabile e quasi paritario. Nel caso degli istituti di credito
inglesi, la componente in valuta nazionale è invece divenuta
decisamente prevalente negli ultimi anni, a seguito soprattutto della
scelta di privilegiare lo sviluppo delle attività sul mercato
interno (tra l'86 e l'88 la quota dell'attivo della Lloyds Bank denominata
in sterline è aumentata del 14%).
La tabella 3 presenta la distribuzione dell'attivo totale tra interno
ed estero. Sono dodici gli istituti per i quali tale informazione
è risultata disponibile. Per tre di essi (NatWest, Barclays,
Amro) la distribuzione dell'attivo è proposta utilizzando come
criterio di riferimento sia la residenza del cliente sia quello della
localizzazione della struttura operativa interessata all'operazione.
Nei tre casi indicati la dimensione dell'attività internazionale
ottenuta applicando il primo criterio è maggiore di quella
risultante con il secondo. Nei tre casi, quindi, le operazioni di
finanziamento di clienti non residenti gestite dalla sede centrale
del gruppo bancario sono più importanti di quelle completate
dalle strutture operative all'estero a favore di clienti residenti.
La scelta tra i due criteri comporta differenze non marginali nella
definizione della quota delle attività internazionali: riferendosi
all'88%, sono pari al 6,2% per la Amro (Amsterdam-Rotterdam Bank),
al 7,5% per la Barclays, al 17,2% per la NatWest (National Westminster).

Riflettendo sui dati proposti dalla terza tabella si rileva che per
i gruppi bancari presenti la quota estera dell'attivo è compresa
tra un minimo del 30% e un massimo di circa il 50%. Nell'ultimo triennio
la distribuzione tra interno ed estero è rimasta generalmente
stabile, con le sole eccezioni delle banche inglesi ed americane.
I maggiori istituti di questi due Paesi (in minor misura quelli americani)
hanno avviato infatti un visibile processo di ridimensionamento della
loro presenza estera. Nel caso di NatWest e Barclays la quota delle
attività internazionali tra l'86 e l'88 diminuisce di circa
sette punti percentuali; per la Lloyds Bank la flessione è
addirittura del 14%.
La tabella 4 illustra la distribuzione dell'attivo per aree geografiche.
Da essa sembrerebbe potersi desumere che l'approssimarsi della scadenza
del '92 è percepita con diversa sensibilità.
Ad istituti di credito che accrescono il peso della loro rete estera
in Europa si contrappongono altri che tendono invece a privilegiare
il mercato interno e altri mercati di riferimento. Tra i primi si
possono annoverare certamente la Deutsche Bank e il Crédit
Lyonnais (per quest'ultimo, nel triennio considerato, il peso del
mercato europeo è cresciuto dal 22 al 25%). Tra i secondi,
un posto di rilievo è sicuramente occupato dalla NatWest, che
con le più recenti acquisizioni si è inserita tra i
primi 35 gruppi bancari operanti negli Usa; stessa scelta èstata
compiuta anche dalla Algemene Bank Nederland. Questi due istituti,
che dispongono già di una consistente rete europea, sembrano
attualmente poco interessati ad impegnarsi ulteriormente nello sviluppo
della rete di sportelli nel Vecchio Continente.
La quarta tabella mette anche in evidenza che tra i protagonisti di
primo piano del mercato europeo bisogna includere anche grandi banche
americane. La Citicorp, in particolare, dispone in Europa di una rete
(oltre 800 sportelli e 18.000 addetti in 21 Paesi) capace di gestire
un attivo di circa U.S. 42 mld. e di produrre (1988) profitti lordi
dopo gli accantonamenti per circa U.S. 200 mld.


Ugualmente di rilievo è l'attività della J.P. Morgan
che opera in Europa dal secolo scorso ed è ora presente in
10 Paesi del nostro continente; l'autorevole inserimento in segmenti
di mercato ad elevata specializzazione ha consentito (1988) a questo
istituto di raccogliere in Europa profitti lordi dopo gli accantonamenti
per U.S. 585 m. da un volume d'attività di circa U.S. 25 mld.
I dati fin qui rappresentati fanno tutti riferimento al totale dell'attivo.
Per un'idea più precisa della reale vocazione internazionale
di un istituto di credito impegnato nel commerciai banking è
ora necessario considerare un aggregato meno composito e più
espressivo del rapporto stabilito col mercato. A questo fine, si è
concentrata l'attenzione sulla distribuzione tra interno ed estero
sia dei finanziamenti concessi a clientela ordinaria sia della raccolta
effettuata presso quest'ultima.
Dalla tabella 5 emerge che se si considerano i prestiti alla clientela
ordinaria la proporzione tra interno ed estero è assai diversa
da quella rilevata per il totale dell'attivo. Mentre là (tab.
3) il peso dell'attività internazionale poteva anche raggiungere
il 50%, qui non si supera quota 35%, con la sola rilevante eccezione
della Morgan (57,8% nell'88, e 56,2% nella media dell'ultimo triennio).
La tabella che segue (tab. 6) propone la distribuzione dei finanziamenti
a clientela ordinaria per area geografica. L'informazione è
risultata disponibile solo per quattro degli istituti considerati.
Il contributo più importante che fornisce è nel sottolineare
il diverso posizionamento strategico delle banche francesi e di quelle
inglesi. Combinando i dati delle tab. 6 e 4, infatti, si può
affermare che mentre per le prime il mercato europeo è di gran
lunga più importante di quello nord-americano, per le seconde
è praticamente vero l'inverso. Tra le grandi clearing banks
inglesi, comunque, non è più riscontrabile su questo
punto l'unitarietà di orientamenti del passato.

Mentre Barclays,
Lloyds Bank, Midland Bank, Standard Chartered hanno proceduto negli
ultimi tre anni a un drastico ridimensionamento della presenza negli
Stati Uniti, la NatWest si sta muovendo nel senso opposto. Questa
divergenza di orientamenti si è approfondita ulteriormente
nell'89: la NatWest ha completato un'altra importante acquisizione;
la Lloyds Bank e la Barclays a seguito di alcune cessioni (5) hanno
ridotto ulteriormente la loro attività. Nel complesso, per
la NatWest meno del 4% dei finanziamenti a clientela ordinaria risulta
erogato da filiali europee localizzate fuori dal Regno Unito.
I dati della tab. 7 considerano il rapporto con la clientela ordinaria
dal lato della raccolta. I dati disponibili coprono soltanto sei istituti.
Combinando le informazioni contenute nelle tabelle 5 e 7, emerge che
all'estero il rapporto tra impieghi e raccolta con la clientela ordinaria
è equilibrato per Banque National de Paris, Morgan e Citicorp,
e in minor misura per Crédit Lyonnaise. Per Amro e Bancoroma
il rapporto risulta invece superiore rispettivamente a 2 e a 4.

La tab. 8 propone la distribuzione del personale tra madrepatria ed
estero, un'indicazione certamente utile, considerato che nell'ambito
del commerciai banking il fattore-uomo è l'input più
importante.
L'arco dei valori rilevabile è più ampio di quanto non
verificato nelle precedenti tabelle. Per i gruppi bancari proposti,
la percentuale dei dipendenti all'estero va da un minimo del 6,2%
(Dresdner Bank) a un massimo del 43,8% (Citicorp). Il numero dei dipendenti
all'estero di quest'ultimo istituto (39.000 unità) è
maggiore del numero totale dei dipendenti di ben cinque gruppi bancari
considerati nella tabella (Dresdner Bank, ABN, Amro, Morgan, BNL).

Nel definire la posizione della Deutsche Bank è importante
tener conto di alcune circostanze. Sul piano quantitativo, questo
gruppo bancario ha quasi colmato il ritardo con i suoi principali
concorrenti. Grazie soprattutto ad alcune importanti acquisizioni,
la quota dell'attivo e del personale riferibile ad attività
internazionali è considerevolmente aumentata negli anni più
recenti, raggiungendo il 38% dei primo caso e il 15,1% nel secondo.
Sul piano qualitativo la crescita è (ovviamente) molto più
lenta. Un esempio importante: meno del 10% del top managers e solo
due dei dodici membri del Consiglio di Amministrazione hanno lavorato
all'estero per almeno un anno.
L'attività estera delle banche è sempre più spesso
oggetto di un profondo esame critico. Da un lato, come avvenuto già
in passato per altri comparti dell'attività bancaria, gli istituti
di credito devono adeguarsi alle scelte e ai comportamenti della clientela:
allo sviluppo dell'attività internazionale di quest'ultima
non possono non seguire iniziative analoghe da parte delle banche.
Dall'altro lato, è però altrettanto chiaro che, sotto
il profilo della redditività, l'attività estera (generalmente)
non fornisce risultati soddisfacenti o comunque vicini a quelli ottenuti
sul mercato interno (6). La conclusione operativa cui si perviene
è nel primo caso quella di estendere (o quanto meno consolidare)
la presenza all'estero; nel secondo caso, quella di avviare un programma
di disinvestimenti.
Quale di questi orientamenti prevalga, varia da istituto a istituto.
Nel caso delle maggiori banche commerciali francesi l'attività
internazionale, che rappresenta spesso il 50% del totale del bilancio,
continua a crescere ad un ritmo analogo a quello delle attività
interne. Le grandi banche inglesi invece hanno deciso di privilegiare
il mercato interno e in molti casi (Lloyds Bank, Barclays, Midland
Bank, Standard Chartered. ecc.), anche per obiettivi patrimoniali,
hanno proceduto alla vendita di importanti segmenti della loro rete
estera.
L'introduzione dei più severi requisiti di capitalizzazione
previsti dall'accordo di Basilea firmato nel luglio '88 impone alle
banche di valutare, ancor più attentamente del passato, il
contributo di reddito e l'impegno di risorse che caratterizza ogni
aspetto della loro attività, e ciò anche (naturalmente)
nel caso delle attività svolte all'estero. Rendimenti sul capitale
investito inferiori allo standard fissato a livello di gruppo possono
essere accettati, ma solo in presenza di forti motivazioni ed essendo
comunque l'eccezione e non la regola.
La Barclays, ad esempio, si è detta disponibile ad accettare
per la rete giapponese un rendimento lordo sul capitale investito
inferiore allo standard prefissato a livello di gruppo (15%) perché
vede in quel mercato importanti occasioni di sviluppo; ad una conclusione
di segno diversa è giunta invece per la rete negli Stati Uniti,
che con interventi successivi è stata considerevolmente ridimensionata.
Selezioni analoghe sono state condotte (o sono in corso di completamento)
anche da parte di altre banche. All'interno dei management bancario
ha comunque guadagnato terreno la convinzione che lo sviluppo dell'attività
estera deve avvenire in maniera diversa rispetto al passato, avendo
cioè ben presente quale obiettivo si vuole perseguire. Schematicamente,
in ogni singolo mercato estero le opzioni disponibili sono comprese
tra queste due ipotesi:
- fornire alla clientela nazionale un punto di riferimento;
- tentare di divenire anche in quel contesto un efficiente concorrente
su una gamma di prodotti più o meno ampia.
Per le grandi banche, il primo obiettivo è di fatto irrinunciabile
perché, fra l'altro, è condizione per il mantenimento
delle posizioni acquisite sul mercato interno. Considerando che molte
attività a contenuto estero si possono condurre anche dagli
uffici nazionali (7), l'obiettivo di assistere la clientela nazionale
può però giustificare solo poche sedi estere. Tra queste,
non possono mancare le grandi piazze finanziarie internazionali (New
York e Londra soprattutto; Tokio in prospettiva), che di fatto fungono
da stanza di compensazione nel circuito finanziario internazionale.


Il mantenimento di una certa quota di attività internazionali
è poi indispensabile per conseguire, attraverso una diversificazione
geografica dell'attività, la necessaria stabilizzazione del
flusso del reddito.
Il vero quesito da risolvere è se sia possibile aggiungere
a questi obiettivi (sotto molti aspetti minimi, per un grande gruppo
bancario) quello di diventare efficiente (e remunerato) protagonista
di un mercato diverso da quello dei Paese in cui si ha la sede principale.
Le esperienze maturate dal sistema bancario internazionale non consentono
di individuare tipologie di attività che una banca all'estero
può scegliere di esercitare avendo ragionevoli possibilità
di successo.
Su un punto, peraltro di rilevante importanza, si sta però
formando un certo consenso: il retail banking è per le banche
estere causa di molti problemi e solo raramente di successi. Un autorevole
banchiere come Marc Vienot presidente della Société
Générale, è molto drastico in proposito: "Lo
sviluppo all'estero delle banche può avvenire solo nell'ambito
di mercati ben identificati e il retail banking non è certamente
uno di questi".
Perché questo tipo di attività possa essere esercitato
con successo è necessario che si disponga di un'ampia base
di clientela, di un'efficiente rete di distribuzione, di un'articolata
gamma di prodotti. Questi tre requisiti sono necessari anche ad una
banca locale; ma per una banca estera la loro acquisizione è
certamente più lenta e più difficile, e quindi anche
più costosa. A parità di condizioni, il cliente medio
è ancora portato a preferire la banca locale a quella estera,
a meno che quest'ultima, potendo vantare una presenza di lunga data,
non gli sia diventata familiare. Nella maggior parte dei casi egli
si fa guidare soprattutto da considerazioni (accessibilità
degli sportelli, facilità di approccio col personale, rapporto
intelligente con gli interlocutori, ecc.) nelle quali la banca estera
è spesso svantaggiata.
Sottrarsi a questo confronto cercando di acquisire posizioni di dominio
in segmenti di mercato che richiedono un particolare know-how tecnico
e organizzativo è teoricamente possibile. Come ricordato, però,
anche di recente dal presidente dell'ABI, "la prospettiva dell'insediamento
a nicchia è senza dubbio una simpatica e allettante versione
letterale. ma di ardua realizzazione. L'interstizio nel mercato è
di norma colto da chi già vi opera e non da chi vi si avventura
dall'esterno".
Questa e altre considerazioni sembrano portare tutte alla conclusione
che, per ottenere risultati soddisfacenti nello sviluppo all'estero
dell'attività di retail banking, una banca deve impegnare un
notevole ammontare di risorse umane e finanziarie lungo un esteso
arco di tempo, scelta cui solo pochi istituti sembra abbiano realmente
aderito. Pur supportata da circostanze convergenti e da dichiarazioni
autorevoli, questa è comunque solo un'ipotesi di lavoro che.
quando la disponibilità dei dati lo consentirà, sarà
utile e proficuo approfondire.
NOTE
1) Cfr. Robert Z. Aliber, International Banking. A Survey, in Journal
of Money Credit and Banking, november 1984 (intervento pronunciato
dall'Autore al convegno su "La pianificazione strategica dell'attività
di credito internazionale" tenutosi a Ramo l'11 e 12 maggio 1984).
2) Si veda, ad esempio, Charles W. Hultman - L. Randolph McGee: Factors
affecting the foreign banking presence in the United States, in Journal
of Banking and Finance, july 1989.
3) Secondo l'economista aziendale Peter Drucker, il costo del capitale
di un'azienda giapponese è da un terzo ad un quarto di quello
delle imprese europee o americane. Cfr. The Economist, 21 ottobre
1989, pagg. 21-26.
4) Cfr.: ad es.: Herbert Grubel, A Theory of Multinational Banking,
BNL Quarterly Review, december 1977.
5) La Lloyds Bank ha ceduto alla Daiwa Bank quindici dei suoi sportelli
americani; la Barclays Bank ha invece venduto a Primerica la sua sussidiaria
americana impegnata nel credito del consumo.
6) Il quotidiano economico American Banker stima che almeno metà
delle 350 banche straniere attualmente presenti a Londra operino in
perdita.
7) Cfr. Claudio Dematté, Una strategia per l'internazionalizzazione
dell'attività bancaria, in L'impresa banca, giugno 1988.