§ Privatizzazione: un progetto con molte ambizioni

L'infedele torna al tempio




Claudio Alemanno



Più privato, meno Stato. Un dogma di moda nell'economia italiana che segna un'inversione di tendenza rispetto all'ultimo trentennio vissuto nel segno mitico e indiscusso dello statalismo diffuso. Un dogma che merita riflessione su più fronti: dalla qualificazione delle nuove partecipazioni alle strategie di mercato, agli assetti organizzativi e di management. Facendo una opportuna distinzione tra le imprese impegnate nella produzione di beni, nei servizi e nel credito per la diversa problematico che le coinvolge nei rapporti col mercato e le istituzioni.
Punto di partenza per ogni mutamento nella partecipazione azionaria e nell'alta direzione dell'impresa resta la dimensione del mercato in cui s'intende operare e la garanzia per un'accresciuta produttività aziendale. Proprio sotto quest'ultimo profilo le ipotesi di privatizzazione avanzate per l'Enel, le municipalizzate, le Ferrovie dello Stato, le banche e le aziende di Stato sollevano serie perplessità. Non sarà facile programmare e poi attuare un riassetto organizzativo tale da assicurare un incremento della produttività totale dei fattori.
Le esperienze compiute negli ultimi dieci anni in Gran Bretagna possono costituire un utile termine di confronto. Bishop e Kay, due studiosi di management del Centre for Business Strategy della London Business School hanno svolto di recente un'indagine illuminante.
Non c'è nessuna prova che al trasferimento dei grandi monopoli in mani private abbia fatto seguito un apprezzabile recupero di efficienza. In Gran Bretagna le società privatizzate hanno sostituito enti pubblici che operavano in forma monopolistica (British Telecom, British Gas, Associated British Port) ed imprese d'importanza strategica (British Steel), per citare le operazioni più significative nei settori dei servizi e della produzione. Secondo l'analisi della London Business School riferita al periodo 1979-1988 la British Telecom ha conseguito un aumento medio della produttività totale pari a solo il 2,5% su base annua mentre l'impresa pubblica British Coal, nonostante gli scioperi effettuati dai minatori, ha registrato un aumento annuo del 4,6%. Anche le altre comparazioni sono su questa linea. Le esperienze di privatizzazione realizzate sembrano registrare in generale recuperi di produttività di tipo fisiologico, comunque non accreditabili alla realizzazione di proiezioni dettate da obiettivi gestionali predeterminati.
Sotto il profilo dell'ampliamento della base azionaria non vi è dubbio che l'obiettivo è stato conseguito portando da 3 a 9 milioni il numero di possessori di azioni. Ma anche in questo caso emergono dubbi d'importanza non secondaria. Ad esempio se sia corretto incentivare l'acquisto di azioni offrendo al risparmiatore prezzi d'ingresso largamente sottostimati rispetto alle quotazioni di mercato. Ciò ha agevolato le operazioni di mera speculazione che peraltro la Borsa in alcuni casi ha già ridimensionato riservando ad una parte degli investitori una perdita secca rispetto al prezzo d'emissione.
I veri beneficiari del passaggio dal pubblico al privato sono stati i dirigenti delle società privatizzate. I salari dell'alta direzione sono aumentati del 78% nell'anno successivo alla trasformazione e del 250% in termini reali dal 1979 ad oggi. Tutto ciò non implica una battuta d'arresto delle privatizzazioni in Gran Bretagna (ne sono già previste altre nei settori dell'elettricità e dell'acqua), ma suggerisce una seria revisione del quadro normativo in cui si collocano per garantire l'efficienza e la qualità dei servizi offerti al pubblico ed un controllo più puntuale sulle concentrazioni che si vengono a determinare e sulle possibili turbative causate al gioco della concorrenza. In Italia il tema meriterebbe una valutazione approfondita con riferimento ad uno schema di mercato più competitivo, non solo concentrato, ed una cultura manageriale più orientata a far coincidere l'obiettivo dell'efficienza con l'aumento della concorrenza.
Proiettare nel futuro un nuovo assetto proprietario ed organizzativo al di fuori di questa logica significa introdurre nel mercato fattori di movimento convulso che alterandone la morfologia possono danneggiare l'assetto strategico delle stesse imprese trasferite. E' pur vero che negli ultimi tempi gli aspetti meramente finanziari tendono ad assumere nelle funzioni aziendali assoluta rilevanza e che in questo contesto il trasferimento frenetico di pacchetti azionari deciso a monte diventa quasi uno strumento operativo per realizzare obiettivi e strategie di mercato. Ma la direzione di marcia resta pur sempre determinata poco dalla variabile finanziaria e molto dalle ragioni organizzative e tecnologiche. Queste ultime danno motivazione e contenuto alla logica della moderno impresa multipolare e quindi determinano scorpori, fusioni, concentrazioni, accordi e joint ventures che segnano le tappe evolutive del mercato.
Il potenziamento della prestazione primaria in prodotti o servizi e l'accrescimento di imprenditorialità dovrebbero costituire le uniche chiavi di lettura nell'approccio ai mutamenti ed in questo senso la dislocazione della proprietà nelle diverse aree d'influenza del capitale dovrebbe restare indifferente nel determinare il panorama delle future aggregazioni.
La motivazione "politica" di fondo appare ragionevole: perseguire una decisa azione di risanamento della finanza publica entro il 1992.
Poiché esso non acquista sufficiente vigore con le manovre tradizionali condotte all'interno della legge finanziaria, permanendo un generale contesto di rigidità nei fattori di spesa, si dovrebbe fare ricorso ad una operazione straordinaria, la cessione appunto di una quota consistente del patrimonio dello Stato.
Ma altrettanto razionali, trasparenti e motivate da valutazioni "tecniche" di consolidamento dell'imprenditorialità sul mercato unico del 1993 dovrebbero risultare le singole operazioni poste in essere, onde evitare che in omaggio alla liberalizzazione dei mercati invocata per rendere plausibili le trasformazioni venga praticata una politica riduttiva di pura vendita di attività. Il semplice trasferimento della proprietà azionaria può non essere produttivo di sviluppo sia perché nei nuovi assetti aziendali non è improbabile che si determino accresciuti costi di gestione, sia per il perdurare inevitabile dei noti dualismi che costituiscono altrettanti fattori di rigidità e quindi penalizzano un'armonica prospettiva di crescita: inflazione, tassi d'interesse, deficit dello Stato, politiche di bilancio sono fattori di rischio collegati al mercato ed alla sua evoluzione che vanno tenuti sotto controllo per disegnare scenari di stabilità operativa. Se non valutati adeguatamente potrebbero sollecitare nel giro di pochi anni sul versante delle imprese, ivi incluse le privatizzate, altre istanze di defiscalizzazione che finirebbero per introdurre nel bilancio dello Stato aspetti nuovi di rigidità fisiologica riproponendo lo stesso fenomeno che ora si pretende di eliminare.
Dunque le privatizzazioni possono svolgere un ruolo attivo nell'ambito del sistema, a condizione che siano motivate da precise proiezioni di crescita e che abbiano il supporto di un quadro normativo di riferimento definito.
L'istituenda disciplina "antitrust", il regolamento sulle concentrazioni comunitarie in via di definizione a Bruxelles ed il progetto di trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni (Ddl n. 3724) contengono temi di riforma strutturale così rilevanti da rendere prioritario il momento normativo rispetto a quello attuativo. L'istituto privatistico più accreditato per il varo delle trasformazioni sembra comunque essere quello della società per azioni, e laddove il capitale pubblico continua ad avere una consistente partecipazione il collegamento tra organi di Governo ed impresa dovrebbe essere assicurato dal consueto rapporto dialettico che s'instaura tra il socio di controllo e gli amministratori. Ai normali organi statutari della S.p.A. (Presidente, Consiglio di Amministrazione, Collegio dei revisori dei conti) si verrebbe inoltre ad aggiungere l'ulteriore controllo della Corte del Conti con le modalità previste dalla Legge 259/1958 (obbligo di presenza di un magistrato nel Consiglio di Amministrazione quando la società utilizza sovvenzioni pubbliche).
Questo è in sostanza la schema di progettto previsto per il trasferimento delle banche pubbliche che può trovare utile impiego anche in altre ipotesi di privatizzazione.
Con specifico riferimento al settore creditizio vai la pena ricordare le sollecitazioni più volte espresse dalla Banca d'Italia per una riforma che utilizzasse la società per azioni come espressione giuridica più idonea per l'esercizio dell'impresa bancaria nel cui contesto la privatizzazione della proprietà dovrebbe risultare incoraggiata.
Allo stato attuale, la proprietà pubblica degli istituti di credito, con una quota partecipativa pari a circa il 65% dei mezzi amministrati, risulta avere un'ampiezza che non ha riscontro in altri Paesi europei ed extraeuropei. Naturalmente s'impongono cautele doverose a difesa dell'autonomia della banca, che vanno adottate con legge e con le procedure di revisione cui dovranno essere sottoposti gli strumenti statutari. Il tema investe i rapporti di partecipazione incrociata tra le banche e le imprese non finanziarie e l'adeguamento delle competenze della vigilanza affidata all'istituto di emissione.
Le singole ipotesi di trasformazione vanno comunque esaminate in ragione di progetti strategici ancorati alle reali possibilità di sviluppo del mercato poiché la semplificazione istituzionale non può sortire effetti positivi in un contesto economico dominato da preponderanti fattori di rigidità. Occorre lavorare con la logica dell'ingegnere, non con quella del ragioniere per i conti a breve.

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