I paradossi




M.C.M., F.A., D.S.



Paradosso numero uno: l'ambiente. Il Sud ha bisogno di dighe, di acquedotti, di grandi reti di comunicazione; sono necessarie infrastrutture che funzionino; bisogna farle bene e presto. Ma perché ciò avvenga, non si può prescindere dagli appalti pubblici e si scivola inevitabilmente in un terreno melmoso nel quale franano impalcature, gru e macchinari. Si scivola, per capirci, nei cantieri eterni della "collusione" tra politica, malavita e affari, dove si bruciano i quattrini della collettività e si costruiscono palazzi che non diventano mai abitabili.
Paradosso numero due: la programmazione. Per promuovere lo sviluppo di un'area debole è più utile uno Stato che fissi le regole e programmi la spesa o uno Stato che rinunci a fare il padrone di casa e che affidi agli inquilini del condominio la libera regolamentazione degli interessi? Senza scomodare le anime benemerite di Ezio Vanoni e di Ugo La Malfa, che hanno speso la vita per insegnare la lezione della programmazione, non c'è dubbio che una politica di piano può consentire più agevolmente opzioni di spesa a favore delle aree deboli. Ma una simile scelta finisce, inevitabilmente, per dare peso a una Pubblica Amministrazione che versa in uno stato comatoso e fa scattare, nel ceto politico, la tentazione di usare il proprio potere discrezionale per fare affari.
I paradossi, ovviamente, non risolvono i problemi. Ma spesso aiutano a comprenderli. In questo caso, risultano una specie di vademecum per destreggiarsi nei meandri contorti del Sud in una stagione di grandi trasformazioni internazionali qual è quella che inaugura l'ultimo decennio del secondo millennio.
I paradossi aiutano a capire, ad esempio, perché all'inizio degli anni Novanta, che si sono aperti sotto il segno delle campagne d'Oriente e della globalizzazione dei mercati, l'economia del Paese non solo continua ad essere caratterizzata da un forte dualismo, ma rivela elementi di accentuazione dello squilibrio interno. Aiutano a capire perché nel Sud non esiste ancora una classe imprenditoriale dirigente con lo stesso peso specifico, con la stessa caratura di scambi, con la stessa valenza politica delle grandi famiglie del capitalismo italiano; perché l'azienda media del Centro-Nord fattura 1.000 miliardi l'anno, mentre i maggiori gruppi privati meridionali non superano la soglia del 100 miliardi; perché è concreto il rischio che nel Sud aumentino sempre più i profitti delle ditte individuali degli assessori piuttosto che quelli delle imprese; o, peggio ancora, perché i Grandi Privati meridionali si mimetizzano, non vogliono comparire in pubblico, nascondono i .propri utili societari quasi fossero refurtiva, studiano programmi di espansione in Veneto o in Inghilterra, ma non nella cintura industriale di Palermo, di Napoli, di Reggio Calabria, e ora persino di Bari o di Lecce.
Per cercare di capire che cosa riservano gli anni Novanta all'azienda Sud, abbiamo ascoltato economisti, politologi, esperti. I dati emersi da confronti serrati, anche accesi, con posizioni divergenti e persino opposte, hanno indicato alcuni punti-chiave che consentono di individuare sette questioni fondamentali (due vincoli e cinque opzioni strategiche) dalle quali difficilmente potrà prescindere qualsiasi ipotesi di sviluppo della regione debole del Paese.
Il dato oggettivo prevalente è quello di una persistente fiducia (per convinzione o per disperazione) nelle forze del mercato, nel ruolo del ceti produttori e dei soggetti sociali, piuttosto che nell'Amministrazione Pubblica e nei partiti. E' un elemento, quest'ultimo, a quanto sembra di capire, che taglia trasversalmente il Sud di oggi e di domani, ma che non mette mai in discussione il Sistema-Paese e le sue istituzioni, quanto piuttosto ne reclama un reale funzionamento, finalmente immune dalle degenerazioni del partitismo e dalle distorsioni privatistiche, secondo regole certe e lineari.
Vediamo più da vicino vincoli e opzioni. Verificheremo così se il Sud abbia più bisogno di un banchiere alla Mattioli o di un nuovo Beneduce; ma anche se sarà l'industria (e quale industria), o se saranno i servizi ad assicurare un reddito. Così come ci renderemo conto, più agevolmente, se esistano realmente le condizioni reali per un nuovo patto sociale che ponga il Sud al centro della politica economica nazionale.
1) Scenario internazionale. Le grandi modificazioni in atto sullo scacchiere mondiale rischiano di ridurre la "capacità di attrazione" di investimenti industriali da parte del Mezzogiorno. La perestrojka ha spalancato all'industria forte del Paese le porte degli immensi mercati di consumo dell'Est e questo finirà con il ridurre sensibilmente l'effetto-calamita del Sud per il grande capitale internazionale. Né sarà facile reggere l'urto della concorrenza di Paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo, nei quali le politiche di incentivazione sembrano assicurare iter di erogazione più accelerati. Tuttavia, il vincolo "esterno" che preoccupa di più alcuni, non inquieta più di tanto altri, i quali sono convinti, al contrario, che un ciclo di espansione mondiale e di nuovi investimenti finirà con l'avvantaggiare lo stesso Sud, anche se molto dipenderà dalla sua capacità di stare sul mercato.
2) Commistione affari-politica-malavita. Si è tutti d'accordo: il virus esiste, contagia il sistema, rappresenta il vero vincolo interno alla crescita dell'apparato produttivo meridionale e va rimosso a qualunque prezzo. Anche a costo di realizzare qualche opera in meno o di rinunciare a una parte dei fondi pubblici. Ma il problema è complesso, passa all'interno delle forze politiche, coinvolge le loro scelte e le stesse riforme istituzionali: è un problema di rivoluzione politico-culturale che riguarda l'intero Paese.
3) Industrializzazione. Se sarà la stella degli anni Novanta, il Sud esisterà ancora nel cielo europeo e del capitalismo avanzato; altrimenti diventerà la regione più settentrionale del Continente africano. Tutti d'accordo che non può essere l'industria il solo motore dello sviluppo; i servizi, per intenderci, vengono subito dopo o simultaneamente, non prima. Restano le divergenze sulla tipologia dimensionale dell'industria che può assicurare più elevati ritmi di crescita: la piccola e media impresa locale, secondo alcuni; o la grande industria privata del Centro-Nord, secondo altri. I contrasti, tuttavia, sembrano riflettere una vis polemica più di contenuto dottrinale che sostanziale. Presumibilmente per l'industria vera, piccola o grande che sia, nelle regioni meridionali c'è sempre spazio. Anzi, i due tipi di impresa in un sistema moderno non possono non essere complementari.
4) Costo del lavoro e immigrazione. Sono due variabili fondamentali per vincere la partita dell'industrializzazione. La flessibilità degli orari e una riduzione del costi senza intaccare i salari sono scelte strategiche che un sindacato responsabile deve assecondare. Così come non va sottovalutato l'effetto "spiazzamento" che un'immigrazione in entità notevoli può avere sul l'offerta-lavoro del Mezzogiorno e, conseguentemente, sull'allocazione nella stessa area di nuove imprese industriali o di succursali produttive dei sistema forte del Paese.
5) Formazione. Per fare l'industria ci vogliono i capitali, ma anche gli uomini. Ben vengano, dunque, i fondi pubblici per formare le "teste d'uovo" del Mezzogiorno. Ma perché non indirizzare i nuovi flussi finanziari nelle Università, invece di frazionarli in tante business schools o in centri vari e dispersivi di formazione? Perché non spendere parte del denaro pubblico per ammodernare la scuola e per fare in modo che dagli istituti tecnici e professionali escano finalmente elementi già pronti ad entrare in azienda?
6) Incentivi, patto sociale, infrastrutture. Messi insieme, rappresentano l'unica frontiera possibile del nuovo intervento straordinario per gli anni Novanta. A patto, però, che i primi si traducano in sgravi fiscali per le imprese che già esistono ed in contributi ad "erogazione automatica", a fattura, per le nuove imprese. Salvo predisporre adeguati, rigorosi controlli, altrettanto automatici, in una fase immediatamente successiva. L'esigenza di fondo è quella che ci sia meno Pubblica Amministrazione e più soggetti sociali, meno Stato e più mercato anche nel campo minato delle infrastrutture. In questa prospettiva, appare evidente il valore strategico di un patto sociale tra produttori e Istituzioni.
7) Banche e mercato finanziario. Se la scelta centrale è quella di portare il Mezzogiorno fuori, il più possibile, dall'area pubblica, risulta impensabile poter contare su un mercato di raccolta e di allocazione delle risorse finanziarie che sia il più efficiente e moderno possibile. Intermediari e mercato che sappiano affiancare le imprese meridionali, che le facciano crescere anche conducendole per mano in Piazza Affari e che abbiano una struttura internazionale tale da favorirne la penetrazione sui mercati di produzione e di sbocco all'estero. Perché tutto ciò avvenga, affermano alcuni economisti, "non è neutrale il domicilio e l'anagrafe" del banchiere: Bin soprattutto; ma anche banche locali, con forte vocazione allo sviluppo del territorio.

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