Un discorso "altro"




Arturo Airoldi



Non sembra azzardato, né risponde all'ottimismo retorico dei bilanci di fine anno, affermare che l'89 si è chiuso, per il Sud, col respiro nuovo di una diversa apertura politica.
Nessuna illusione. Nessuna benda agli occhi di fronte a una situazione estremamente grave e pesante. Le cifre del divario con l'"altra Italia" da anni restano indice stabile di uno sviluppo incompiuto e in alcune zone addirittura non ancora iniziato. La morsa della criminalità organizzata soffoca iniziative, condiziona quotidianamente il libero corso della vita civile, frena e inquina la possibilità di governo delle autonomie locali.
L'appuntamento del '93 si presenta gravido d'interrogativi: allargare il mercato al perimetro europeo potrebbe significare l'emarginazione definitiva di un Sud che non sia capace di uno sviluppo autopropulsivo. Secondo le analisi di alcuni studiosi, il recupero dell'Europa centro-orientale alla, libertà politica e la conseguente apertura di nuovi mercati potrebbe innescare un ulteriore processo di "periferizzazione" dell'Italia meridionale. I processi di immigrazione incontrollati potrebbero, infine, aggravare le dimensioni già patologiche dell'occupazione.
Nessuna illusione, ripetiamo. Ma d'altro canto sarebbe errato non cogliere il clima nuovo che si è creato, tra la fine dell'89 e i primi' mesi del '90, intorno alla vecchia questione meridionale. Si è rotto il grande silenzio che per un decennio l'aveva relegata nel limbo del problemi fastidiosi, dunque da accantonare, anche perché "irrisolvibili" (con tutte le sbavature razzistiche, le speculazioni' interessate, le folate di falso buonsenso che avevano trovato generosa ospitalità nel grandi organi d'informazione). Sembra anche finita l'interminabile stagione dei convegni meridionalistici, diventati ormai una sorta di obbligato de profundis cantato da voci stanche e con toni rassegnati: una liturgia da celebrare più per nettarsi la coscienza che per incidere, in qualche modo, sul corso delle cose.
Sulle ceneri di questo meridionalismo di risulta, fine a se stesso, va delineandosi un approccio concreto, pragmatico, al problemi del Sud. Forze politiche, imprenditoriali, sindacali, hanno quanto meno accennato a una nuova strategia dell'attenzione: le dichiarazioni d'intenti sul disegno di un superfondo che, gestendo i grandi progetti di interesse nazionale, garantisca implicitamente al Sud un impiego congruo e finalizzato di risorse costituisce un elemento nuovo di politica meridionalistica. Se non altro, al di là dell'intervento straordinario che insieme con cose buone ha prodotto irreparabili devastazioni culturali, ora si cerca il possibile insieme con il concreto: si abbattono i logori tabù che la retorica del decentramento aveva creato a scapito della logica dell'efficienza. Sono segnati. Riusciranno a trasformarsi in una svolta? L'interrogativo è d'obbligo. Ma un di segno finalmente basato sulla "politica delle cose", che unisca forze della produzione e del lavoro, ha in ogni caso il merito di porre ciascuno di fronte alle proprie responsabilità.
E' proprio quello che, da almeno un decennio, è mancato a un Sud sommerso dalla fluviale verbosità delle buone intenzioni. Che hanno lastricato solo le vie degli inferni meridionali.

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