§ Tamburi lontani

Tre secoli di guerra in Aspromonte




Ada Provenzano, Gianna Macchia



Molti sono rimasti sorpresi: ad Africo Nuovo, una cinquantina di ragazzi hanno lanciato sassi contro gli agenti di polizia che stavano fermando un pregiudicato; sull'Aspromonte, un pastore è fuggito nel bosco, quando ha visto Cesare Casella insieme con i suoi. sequestratori, e non si è nemmeno sognato di dare l'allarme; nel cimitero di San Luca, paese natale di Corrado Alvaro, durante il funerale di tre del quattro banditi uccisi dai carabinieri, una madre in gramaglie ha chiamato "assassini" i Gis che avevano sventato un sequestro a Luino. Così, come da un momento all'altro, l'Italia ha scoperto che non si tratta soltanto di omertà, cioè di paura, ma di complicità, e persino di simpatia.
La sorpresa è indice solo di smemoratezza. La storia, infatti, è antica. Il fenomeno ci rinvia alla prima "guerra" che le truppe italiane dovettero combattere dopo la costituzione del Regno. Venne combattuta in queste stesse province per ben cinque anni, dal 1861 al 1866, e fu, nelle parole di Alfredo Oriani, una guerra "di sterminio così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia". Il giudizio di Oriani è in un libro, La lotta politica in Italia, pubblicato nel 1892. Da quei giorni la lunga battaglia contro il brigantaggio ha cessato di essere un capitolo nascosto della nostra storia nazionale, ma resta pur sempre una pagina controversa e ambigua, e per molti versi tenuta in un cono d'ombra. Ripercorriamola in sintesi.
In alcune aree del Sud, brigantaggio e sequestri di persona sono un vecchio male, che diventa tanto più acuto quanto più le condizioni politiche e sociali delle regioni meridionali diventano precarie o tumultuose.
Nei Seicento, i monaci domenicani di Soriano Calabro registravano nei loro archivi le storie dei "miracolati" che erano riusciti a fuggire dalle prigioni dell'Aspromonte. Due secoli dopo, il sindaco di Cortale, un centro abitato della provincia di Catanzaro, raccontò a Ernesto Nathan, sindaco di Roma in età giolittiana, che la posta settimanale, durante gli anni dell'amministrazione borbonica, veniva svaligiata una volta su due. Per recarsi a Catanzaro, i suoi genitori partivano a mezzanotte con una scorta di armigeri e cambiavano più volte il percorso "per depistare possibili assalitori". Per andare a Napoli facevano testamento. E quelli del paese che avevano oltrepassato il Faro di Messina acquistavano "tale fama [ ... ] da convertire la loro saliva in specifico per la guarigione delle ezeme".
I Borbone non riuscirono mai a sconfiggere i briganti, ma all'occorrenza se ne servirono per rendere difficile la vita ai loro nemici. Mentre in Spagna, in Russia e in Germania le truppe napoleoniche furono impegnate da guerriglie nazionali, nell'Italia meridionale i francesi dovettero guardarsi le spalle e i fianchi dai briganti che il cardinal Ruffo aveva reclutato per difendere il trono e l'altare.
Il generale Manhès li combatté facendo evacuare i villaggi più popolosi, ordinando la sospensione dei lavori agricoli e minacciando di morte chiunque venisse scoperto in atto di trasportare viveri attraverso la campagna. Nella sua Storia d'Italia dal 1789 al 1814, Carlo Botta racconta l'episodio di una madre che venne impiccata perché "portava il solito vitto ad un suo figliolo che stava lavorando nei campi".
In un libro del 1862 sul brigantaggio "dai tempi di Fra' Diavolo sino ai giorni nostri", Marc Monnier, che fu scrittore di cose italiane e rettore dell'Università di Ginevra, racconta che Manhès sconfisse i briganti dell'Aspromonte colpendo Serra, uno dei borghi più grossi della regione, con le pena dell'interdetto: chiuse le porte delle chiese, cacciò i preti e annunciò alla popolazione che da quel momento i bambini sarebbero nati senza battesimo e i vecchi sarebbero morti senza sacramenti. "Gli abitanti di Serra - scrive Monnier - si levarono in massa [ ... ] e diedero la caccia ai briganti [ ... ] fino a che l'ultimo di quel malfattori non fu morto di fame [ ... ]".
Manhès combatteva per Gioacchino Murat, ma quando Ferdinando II ebbe occasione di incontrarlo, dopo la restaurazione, lo accolse con grande cortesia. "Dobbiamo a Manhès -diceva abitualmente - la presente tranquillità delle Calabrie". Pensò certamente ai metodi sbrigativi ed efficaci di Manhès quando dovette far fronte ad una sollevazione brigantesca nel Cilento, in provincia di Salerno. Guidati da un cappuccino, i briganti, in quest'occasione, volevano "la libertà e la costituzione di Francia". Per ridurli alla ragione, il marchese Dei Carretto rase al suolo un intero paese, Bosco, colpevole d'averli aiutati.
Malgrado questi precedenti, l'amministrazione piemontese e italiana fu presa in contropiede. Mentre il generale Cialdini assediava Gaeta, un brigante, il celebre Crocco, s'impadronì di Venosa e di Melfi "in nome dei Borbone". Pochi mesi dopo, gli irregolari borbonici controllavano trentun comuni della provincia di Avellino. Nel frattempo, altre bande scorrazzavano in Calabria, in Basilicata (con sconfinamenti in Puglia), negli Abruzzi e nei comuni della Terra di Lavoro, alle porte di Napoli, taglieggiando proprietari e contadini, terrorizzando in particolare i proprietari terrieri. All'inizio le bande erano composte da briganti, soldati del disciolto esercito borbonico, sbandati, contadini dal cuore gonfio, affamati pronti a tutte le razzie, ragazzi che si erano dati alla macchia per sottrarsi al servizio di leva. Ma col passare del tempo arrivò, in particolare dalla Francia e dalla Spagna, un piccolo gruppo di ufficiali stranieri. Alcuni erano convinti che fra i boschi dell'Aspromonte e dell'Abruzzo si combattesse una guerra giusta e santa contro i soprusi della monarchia sabauda. Altri erano solo e semplicemente avventurieri o mercenari.
La figura più stimolante, e per tanti aspetti più patetica, è quella di don José Borjés, legittimista catalano. Con un gruppo di compagni d'arme giunse in Calabria nell'estate del 1861, fregiandosi del titolo di generale. Era un cavaliere della reazione, o, se si preferisce, un Garibaldi alla rovescia, ansioso di battersi e ingenuamente assetato di gloria. E si batté sino ai primi del dicembre '61, quando venne catturato dai bersaglieri di Lamarmora a Tagliacozzo, non lontano dal confine con gli Stati della Chiesa. Al tenente che lo prese in consegna confidò amaramente: "Andavo a dire al re Francesco II che non vi hanno che miserabili e scellerati per difenderlo; che Crocco è un sacripante e Langlois un bruto". Langlois era un legittimista francese. Quando giunse il momento dell'esecuzione, Borjés abbracciò i dieci compagni spagnoli con i quali aveva combattuto e morì cantando una litania.
Borjés aveva ragione. I soldati catturati dai briganti venivano torturati e mutilati. I cronisti dell'epoca e lo stesso Oriani, che non si astenne dal criticare il comportamento delle truppe nazionali (che a loro volta uccisero indiscriminatamente, saccheggiarono, incendiarono, rasero al suolo), descrissero orrende stragi e spaventosi episodi di cannibalismo. Pare che sui mercati si vendesse carne di soldati e che le autorità municipali di alcuni villaggi organizzassero banchetti di benvenuto per avvelenare i bersaglieri.
La guerra, in queste condizioni, si trasformò ben presto in lotta senza quartiere e i comandanti delle truppe italiane risposero alla ferocia dei briganti con i comportamenti del generale Mahnès, aggiornandoli, cioè aggravandoli. Scrive ancora Oriani: "Vennero saccheggiati paesi, arse a dozzine le borgate senza pietà né agli infermi, né ai fanciulli, né ai vecchi, si fucilò a caso per qualunque sospetto; non si vollero prigionieri ma cadaveri".
Nel giugno 1861 vi erano, nel Sud, agli ordini* del generale Durando, ventimila soldati italiani. Nel 1863, dopo che le operazioni contro i briganti erano state dirette successivamente da Cialdini e da Pinelli, il Grande Comando di La Marmora poteva contare su 105.209 uomini, vale a dire su oltre due quinti dell'intero esercito italiano. Non abbiamo potuto appurare il numero esatto delle vittime dell'una parte e dell'altra; ma sappiamo che nel secondo semestre del 1861, agli inizi della guerra, i briganti (o sospetti tali) fucilati furono 733, quelli uccisi in combattimento 1.093, quelli arrestati o costituitisi 4.036. Un piccolo popolo.
Ma erano per davvero tutti briganti? Oltre che affamati, giovani che erano contro la leva obbligatoria, sbandati. non erano piuttosto guerriglieri del re, o secondo la tesi corrente della storiografia marxiana degli ultimi quarant'anni, "ribelli sociali"? Tutto questo insieme, e il contrario di tutto questo nello stesso tempo.
Da Roma, Francesco II li finanziò a lungo e permise che essi ricevessero, in segno di riconoscimento, anelli di ghisa nei quali era impressa la sua immagine. Ma evitò di identificarsi del tutto con la loro immagine. La storia non si fa con i "se". E tuttavia è un'ipotesi ragionevole: se avesse avuto il coraggio di attraversare la frontiera per prendere la direzione della protesta, il movimento con ogni probabilità avrebbe acquistato carattere diagnostico e politico. Ma preferì restare alla finestra, in attesa dello sviluppo degli eventi. Forse, se un gruppo di socialisti e di anarchici avesse sostituito la bandiera bianca dei Borbone con quella rossa dei lavoratori e degli inoccupati, il brigantaggio sarebbe diventato rivoluzione sociale. Ma il nostro Paese non aveva avuto la Rivoluzione francese, né le guerre di religione tedesche. Allora tutto, compreso il brigantaggio, rimase soltanto energia allo stato puro, una jacquerie di banditi, disertori, contadini che rapivano i benestanti, derubavano i borghesi, violavano le donne, torturavano i prigionieri, taglieggiavano i viaggiatori e i proprietari. Godettero certamente di molte simpatie fra le genti dei luoghi e contarono fra di loro. in alcuni casi, combattenti di coraggio. Ma il fatto che popolazioni incolte fossero legate ai briganti da sentimenti di lealtà tribale e che nelle file del brigantaggio ci fossero alcuni generosi idealisti non cambia i termini del problema. Lo Stato, in quelle condizioni, non aveva altra scelta: doveva reagire e contrattaccare. E lo fece.
Resta da vedere se proprio le reazioni dello Stato unitario non siano state, come molti storici ora sostengono, eccessivamente dure e oltre lo stesso limite della spietatezza. Ma è indispensabile tener conto di questo: commetteremmo un errore di anacronismo se non ricordassimo in quali condizioni morali e politiche le truppe nazionali dovettero combattere. Erano convinti di aver portato al Sud i beni preziosi della libertà dell'istruzione, del sentimento nazionale e del progresso. Ideali nobili, non pane e lavoro concreti. E la loro reazione fu tanto più aspra e indignata quanto più si accorsero che quei beni erano disprezzati.
Le popolazioni del Sud erano concretamente chiamate a scegliere fra due regimi, quello assolutistico del Borbone (non privo, comunque, di recenti aperture alla scienza e alla tecnica) e quello liberale del Savoia (non privo, comunque, di insensibilità politica e sociale). Che essi si schierassero col primo contro il secondo parve ai rappresentanti del governo nazionale un'inammissibile espressione di barbarie e ci, ignoranza. Ma non è tutto. La guerra contro il brigantaggio si combatteva nell'Aspromonte, negli Abruzzi, in Lucania, in alcune aree delle Puglie, in Terra di Lavoro, ma coinvolgeva interessi che travalicavano le stesse province meridionali. Se i "piemontesi" fossero stati sconfitti, non avrebbero vinto i briganti. I vincitori sarebbero stati Francesco II, Pio IX, Napoleone III, i governi di Madrid e di Pietroburgo. In altre parole, il prezzo della guerra sarebbe stata l'unità nazionale, cioè il risorgimento. Forse per questo il prezzo della vittoria ci ha tramandato il tanfo odioso dell'annessione.

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