§ Passato remoto / passato prossimo

Il pane delle streghe




Fulvio Rovai, Gianna Ricciotti



Dopo un inverno molto freddo, nell'estate del 1340 molti abitanti della regione inglese del Leicestershire vennero colpiti da una stranissima malattia: scossi da convulsioni e dolori di ogni tipo, ad un certo punto i malcapitati incominciavano ad abbaiare come cani. Nell'estate 1355, sempre in Inghilterra, una sorta di follia collettiva si impadronì di intere popolazioni: credendo di vedere i demoni, la gente correva a nascondersi nei boschi, poi tornava a casa, poi fuggiva di nuovo nei campi.
Nel 1374 una parte delle popolazioni della Valle del Reno venne colpita da convulsioni e allucinazioni. Molta gente ballava senza riuscire a smettere; altri saltavano in mezzo alla strada, immaginando di essere sul punto di affogare in un mare di sangue. Dopo un inverno durissimo, nell'estate del 1482 centinaia di abitanti della Germania del Nord-Ovest si suicidarono lanciandosi a testa bassa contro un muro.
Tutti questi episodi, registrati dagli storici ma archiviati come aneddotica minore anche per l'impossibilità di trovare spiegazioni razionali, hanno due denominatori comuni: in tutte queste regioni l'alimento-base era costituito, al tempo, da pane di segale; gli episodi di follia si sono verificati nel corso di estati molto umide, precedute da inverni freddissimi.
Partendo da questi scarni elementi, una docente di storia dell'Università del Maryland ha costruito una teoria intrigante, ma inverificabile (è basata su correlazioni, non su prove) che reinterpreta alcuni episodi-chiave della storia dal Medioevo ad oggi presentandoli come casi di avvelenamento alimentare di intere popolazioni, intossicate da muffe e funghi che, in certe condizioni climatiche, si sviluppano nelle spighe di alcuni cereali, soprattutto nel grano di segale. Se la teoria fosse accettata, troverebbero una spiegazione fenomeni misteriosi come la "Morte Nera", l'epidemia che tra il 1348 e il 1350 uccise un terzo della popolazione europea, o la "Grande Paura" che scosse le campagne francesi nell'estate del 1789 ed ebbe un suo peso nella Rivoluzione appena scoppiata.
In Poisons of the Past ("Veleni del passato"), un curioso saggio tra storia e biologia, Mary Kilbourne Matossian sostiene che fenomeni come quello delle streghe che sono rimasti avvolti nel mistero fino ai nostri giorni possono trovare una spiegazione proprio analizzando l'alimentazione, l'andamento del raccolti, la natura dei microfunghi che attaccano le spighe indebolite dal maltempo. Si tratta di muffe contenenti microtossine che limitano la fertilità dell'uomo, di sostanze che operano come immunosoppressori (riducono cioè la capacità dell'organismo di resistere alle malattie), fino ad arrivare al "fungo ergot", un potente allucinogeno (l'LSD, una delle droghe più comuni, si estrae proprio da questa sostanza).
Assorbite a volte in dosi massicce da popolazioni che arrivano a mangiare fino a un chilo di pane al giorno, queste sostanze - sostiene la Matossian - hanno trasformato contadini in indemoniati e tranquille massaie in streghe scatenate. Gli uni e le altre sarebbero insomma finiti sul rogo per un tragico equivoco alimentare.
Non è la prima volta che uno storico tenta di leggere episodi altrimenti inspiegabili in termini di biologia del l'alimentazione. E l'azione di questi microfunghi è ben nota, tanto che esiste un termine apposito, "ergotismo", per definire i loro effetti suil'organismo. Queste tossine sono tra le cause di malattie legate a deficienze immunitarie sulle quali la medicina ha stentato a guadagnare un dominio completo; tanto che alcuni mali si sono trascinati fino ai nostri giorni con nomi di un'altra epoca come "fuoco di Sant'Antonio" e "ballo di San Vito".
Uno storico americano aveva già sostenuto in passato che l'ergotismo ha giocato un ruolo decisivo nei processi contro le streghe di Salem, quelle che sconvolsero il Massachussetts coloniale alla fine del XVII secolo. Contestando le teorie malthusiane sull'evoluzione ciclica delle popolazioni, un altro grande interprete della storia, Fernand Braduel, aveva a sua volta affermato che l'esplosione demografica che ha portato dal 1750 al 1850 al raddoppio della popolazione mondiale va analizzata attraverso l'andamento dei raccolti e l'evoluzione del modelli alimentari.
Per l'autrice dei Veleni del passato è tempo che gli storici smettano di considerare le grandi epidemie di peste bubbonica come l'unico fattore biologico che ha avuto un'influenza determinante nella storia di questo secondo millennio. E spiega che, ad esempio, il raddoppio della popolazione del XIX secolo èanche frutto dell'avvento, in Occidente, di una dieta a base di patate, che ha spazzato via col pane di segale un fattore di depressione della fertilità. La Matossian non è ovviamente in grado di esibire prove a sostegno di queste teorie, ma nelle sue ricerche accuratissime - svolte soprattutto a Londra, a Parigi e in Unione Sovietica - ha accumulato una gran mole di indizi.
Nel caso della "Grande Paura" - tre settimane di inspiegabile follia a cavallo di luglio e agosto 1789, quando migliaia di contadini fuggirono urlando e piangendo nei boschi armati di forconi e di accette - lo storico americano ha trovato un documento ("Histoire et Mémoires de la Société Royale de Médicine") nel quale un medico del tempo (un tal Geoffrey) si dichiara sorpreso perché alla fine la gente è rinsavita senza alcuna cura: ha solo cominciato a mangiare "un pane migliore", scrive Geoffrey. L'autrice cita poi un altro studio di uno storico francese: una ricostruzione dalla quale emerge che il raccolto di segale del luglio 1879 venne colpito dall'ergot con una virulenza e una intensità senza precedenti.
Quanto alle streghe e agli indemoniati, la Matossian pubblica una serie di mappe per dimostrare che i fatti che hanno portato a processi e a condanne si sono svolti prevalentemente nella Germania Sud-Occidentale (Selva Nera e dintorni), nella Francia del Sud-Est (Savoia) e nella Scozia orientale: luoghi in cui l'alimentazione era all'epoca prevalentemente basata sul pane di segale e il clima (freddissimo d'inverno, umidissimo d'estate) indeboliva le spighe, creando le condizioni ideali per lo sviluppo dei funghi tossici.
L'Irlanda, regione con un clima altrettanto difficile, ma con un'alimentazione prevalentemente basata sui prodotti caseari, venne appena sfiorata dal fenomeno delle streghe. Stesso discorso per la "solare" Spagna, con l'unica eccezione delle regioni a ridosso degli umidi Pirenei. L'ultima epidemia si ebbe nella Russia pre-rivoluzionaria (1910): nella umida zona di Odessa il contagio raggiunse il 26,7% della popolazione, mentre nell'umidissimo Astrakhan la malattia colpì addirittura più del 90% degli abitanti. E qui siamo al nostro secolo.
Ai cui inizi (ma nei piccoli centri anche nel secondo dopoguerra) i chirurghi operavano i pazienti collocandoli sopra lettini provvisori e sistemando sulle loro bocche tamponi di garza su cui le suore o gli infermieri avevano versato il cloroformio in quantità imprecisate, calcolate ad occhio e croce, in base alla pratica. Accadeva così, con una certa frequenza, che anestesie tanto approssimative portassero alla morte. Per ridurre i tempi dell'anestesia e per circoscriverne i rischi, i chirurghi più abili operavano a velocità vertiginosa un paziente dopo l'altro.
Alla maniera dei chirurghi, anche i medici erano spesso incapaci di salvare i malati e alleviarne i dolori. Agli inizi del '900, i grandi clinici raggiungevano le abitazioni dei degenti in lussuose carrozze, accompagnati da servitori che riscuotevano salatissimi onorari ed esigevano cospicue mance: visitato il malato, lanciavano le diagnosi come tanti "do di petto", esatti al novantanove per cento grazie all'esperienza, all'intuito e al celebre "occhio clinico". Ma le cure?
Di solito, ci si decideva a chiamare il grande medico quando il malato era in condizioni disperate, o in punto di morte. E, dato e non concesso che la diagnosi fosse esatta, non esistevano né i sulfamidici, né gli antibiotici, né i rimanenti rimedi di cui ora disponiamo (un farmacista dei primi del secolo impazzirebbe entrando in una farmacia dei nostri giorni). Per di più, è da ritenere che anche quei grandi sanitari risentissero di gravi lacune. Allorché, nel 1918, si diffuse la grande epidemia "spagnola" (600.000 morti solo in Italia), nessuno al mondo fu tecnicamente in grado di spiegarne le cause, di isolarne il virus, di indicarne una cura. Ancora negli anni '30 il termine clinico "infarto" era praticamente sconosciuto e nessuno associava le malattie cardio-vascolari ai grassi alimentari, all'ipertensione.
In Italia negli anni compresi fra i due conflitti mondiali, le malattie maggiormente temute erano la malaria, la sifilide e la tubercolosi. Nel 1924 più di due milioni di italiani soffrivano di febbre malarica o ne erano esposti al contagio. Nel 1936 i contagiati da sifilide ammontavano a sette-ottocentomila, con una mortalità annua di cinquemila unità. Negli anni '30 anche gli ammalati di tbc costituivano un esercito.
Tra le due grandi guerre, tuttavia, la medicina si trasformò e perfezionò. Si diffusero i laboratori di analisi e gli impianti radiologici capaci di rendere visibile l'invisibile. A Roma, nel 1943, i laboratori privati di analisi erano già una ventina (oggi sono oltre 300).
Ma soprattutto, fra le due guerre, crebbe il numero dei cittadini in grado di ricorrere ai medici. Se agli inizi degli anni '30 gli italiani iscritti alle mutue erano poco più di 800 mila, dieci anni più tardi erano 13 milioni. E di pari passo con questa trasformazione -della realtà avveniva una straordinaria trasformazione delle coscienze, perché l'umanità non intendeva più rassegnarsi alle malattie e alla morte con la passività, pressoché totale, dimostrata per secoli.
Anche oggi, comunque, manchevolezza e inefficienza sono all'ordine del giorno, in un settore, come quello della salute pubblica, che è diventato nel nostro Paese una vera e propria macchina mangiasoldi. Ma si tratta di manchevolezze e inefficienze sempre inferiori a quelle delle epoche remote e del nostro recente passato: le conquiste della medicina, della chirurgia, della farmacologia, quanto meno, meritano di essere salutate con animo lieto. Nel 1882, la vita media di un italiano era di appena 33 anni.
Nel 1939 raggiungeva i 55 anni. Oggi si superano agevolmente i 70 anni. Già nel 1939, insomma, si era fatto qualche passo avanti, malgrado le polmoniti curate a suon di semi di lino. E poi, Fleming era ormai dietro l'angolo.

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