§ Una commedia leccese del primo Settecento

Il restauro della "Rassa a bute"




Mario Marti



Quando si dice la fortuna! Questa commedia leccese, che era rimasta celata in un manoscritto (al n. 3) della nostra Biblioteca Provinciale per più di due secoli, in pochissimo tempo, in circa cinque anni (1984-1989), ha avuto l'onore di ben tre edizioni: l'una dovuta alle fatiche di laurea di Tommasina Longo (la relativa tesi è reperibile presso l'archivio di Facoltà, sess. autunn. 1982-3); l'altra agli interessi storico-teatrali locali di Gino Santoro (Capone Editore, 1989); la terza al sottoscritto (Congedo Editore, 1989), con reduplicazione del solo testo, traduzione e brevi note illustrative, nel terzo fascicolo del "Giornale Storico della Letteratura Italiana", vol. CLXVI, 1989, pp. 392-432. E tutti questi lavori, a loro volta, sono stati preceduti da una prima edizione a stampa, nata dalla giovanile entusiastica curiosità di Oronzo Parlangèli e apparsa sulla "Zagaglia", a puntate, nel 1959-1960. Non inganni l'altezza della data, di questa data, nei riguardi dello studioso, che a quell'epoca aveva già raggiunto risultati eccellenti nella sua disciplina, dei Parlangèli cioè; in effetti la sua trascrizione risaliva a circa dieci anni prima, quand'egli raccolse e pubblicò nell'Ottocento poetico dialettale salentino di Ribelle Roberti (Galatina, primavera del 1954, data apposta alla fine della Prefazione) i vari componimenti in esso appunto contenuti (pp. 227 sgg.). Rivela la stessa acerbità filologica di resa e di trascrizione, e la stessa maniera d'interessi culturali. Si può dire insomma, con oggettiva e schietta verità, che Parlangèli ebbe il grande merito di aver recuperato per primo sia La Rassa a bute sia alcuni degli altri testi contenuti nell'Ottocento robertiano; ma - dedicatosi poi appassionatamente ad altri argomenti che certamente gli erano più cari, e anche, sotto certi aspetti, più produttivi - non ebbe occasione per restaurare ciò che egli per primo aveva recuperato e messo a disposizione degli studiosi e del pubblico.
Io, che non sono un dialettologo, ma uno storico e un critico della letteratura italiana, mi son trovato a studiare e interpretare storicamente testi dialettali solo in quanto essi sono salentini; e questo settore della mia attività scientifica rientra nel mio programma, generale e di vecchia data, di coinvolgere il Salento, regione antropologicamente e culturalmente ben identificabile e certamente autentica, nella trama complessa dei rapporti fra regione e nazione, rapporti dialettici in una visuale policentrica della cultura (e della letteratura). Ho intitolato un mio libro Dalla regione per la nazione (Napoli, 1987). E quando mi accorsi, per esempio, che la versificazione di Niccu Furcedda era sistematicamente modulata con la tecnica dei gliommeri, il che contribuiva direttamente anche alla più corretta restituzione del testo, ritenni opportuno segnalare quest'elemento sulle pagine del "Giornale Storico" di Torino (CLXIII, 1986, pp. 587-592), piuttosto che su qualche foglio o rivista locale. E perciò sullo stesso "Giornale Storico" ho chiesto e ottenuto che venisse stampato il testo con la traduzione (e poche pagine illustrative) della Rassa a bute; e mi sono sobbarcato alla impostazione e conduzione di una "Biblioteca Salentina di Cultura", insieme con alcuni amici e colleghi, generosamente sostenuta da un'apposita "Fondazione" istituita dal e presso il Credito Popolare Salentino. Così son tornati a circolare nella letteratura e nella cultura italiana (nazionale) il De Pacienza di Nardò, il manduriano Donno, il gallipolino Castiglione, il parabitese Lenio, il mesagnese Materdona, il surbese Ampolo, per non parlare dei più noti Vanini (è pronto il volume con le sue opere, a cura di Papuli e Raimondi), Palmieri, Moschettini ecc..
Con questa "Fondazione" il Credito Popolare Salentino si è creato un merito non da poco, che rimarrà nel tempo; così come rimarrò questa magnifica rivista "Sudpuglia", voluta e sostenuta dalla omonima Banca salentina. Saggia attività degli istituti bancari, sulla quale ebbi già modo di richiamare l'ammirata attenzione ("Terra d'Otranto", III, 1, 1986). Ora, per la mia "Biblioteca" sono in preparazione due volumi di letteratura dialettale, il primo dei quali per le mie cure; ed è per questo che si spiega, da una parte, il mio sempre crescente interesse alla letteratura dialettale salentina (e a opere come La Rassa a bute), e dall'altra il taglio specifico delle mie indagini in questo campo, taglio non puramente linguistico, ma filologico e storico-letterario o storico-culturale. Un mio studio sul Viaggiu de Leuche comparirà a Padova in una prossima miscellanea per Folena. E dunque della "emarginazione" non ci si lamenta quasi per gusto, e neanche, infine, ce la si piange addosso; ma la si combatte con le armi più congrue: quelle del respiro, della visuale, della solidità e novità dell'indagine. della ricerca.
E giacché sono scivolato, quasi senza volerlo e saperlo, a parlare di questi argomenti così importanti, io mi permetterei di suggerire a tutti coloro che si ritroveranno a lavorare in questo campo così allettante, di trattenere un po' il respiro, o la penna, o la parola, prima di formulare ancora una volta il luogo comune del ritardo, o dell'arretratezza, o della atavica sordità e del silenzio, della cultura e della letteratura italiana come si manifestavano qui nel Salento tra la fine del Quattrocento (e prima ancora) e la fine del Settecento, o almeno la metà. la Rassa a bute non è "il relitto" sopravvissuto al naufragio, o il segno indecifrabile e misterioso di un "tempo perduto", come va, con una certa suggestione, osservando Gino Santoro (si veda l'introduzione alla sua cit. edizione, che si intitola appunto: Viaggio intorno a un relitto teatrale); ma è una componente significativa del teatro dialettale salentino, nel quadro della coeva produzione, anche dialettale, che non è né impalpabile di quantità, né insignificante di qualità; tutto da ristudiare sulla linea della analoga produzione in lingua, che è ben tracciata e tracciabile nella panoramica nazionale: da Secondo Tarentino a Bonaventura Morone; da Cataldantonio Mannarino a Daniele Geofilo Piccigallo; da Ottavio Argentino a Scipione Sambiasi, e ad altri ancora. In varietà di generi e di interessi. Solo che questi testi bisogna recuperarli, ed eventualmente restaurarli; e insomma bisogna studiarli bene. Un campo finora trascurato; e lo indichiamo a chi intenda occuparsi di storia del teatro qui nel Salento.
Ma torniamo alla nostra Rassa a bute, per esemplificare e illustrare alcuni casi di restauro particolarmente significativi, rispetto alle condizioni del manoscritto; e non potremo sottrarci, in questo lavoro, alla necessità del confronto con l'edizione della Longo (che citeremo con la sigla Ln) e con quella di Santoro (che citeremo con la sigla Sn). L'analisi del Prologo, che sulla scena è detto dal Cancelliere, pare assai adatta alla bisogna, e investe anche la spina dorsale della pièce, com'è nelle sue finalità di "genere", onde ne prefigura l'argomento e la sostanza. E cominciamo col riprodurre. con scrupolosa fedeltà, il codice; che dice così:


Vui ci stati
Cqua ssettati
Se vuliti
Deenati
5 Ccesse face à sta cummeddia
Ognunu pensa
Ch'autru furnisce de comu ccumenza.
Simele na cosa vederiti
De quiddu ci succese a la Rècia
10 A tiempu ci parlaanu li voi,
Sette Sapienti mutu nnumenati
Ficera cûncrusione
Lu mundu ci era alla statu de mone;
E fuersi fuersi mutu cchiù guastatu
15 De manu loru cu begna cunsatu.
Tandu se prupunera
Deersi muedi de unu e de [l'autru]
E nci fora tra iddi
De dissi, e dicu quantu sti capiddi
20 L'urtemu cu cunsensu neversale.
Saria buenu gn'unu disse
La scutedda se grandisse
De ci vinde le scìsciule.
A sta cumbedia su pe persunaggi
25 Lu Sindecu de Lecce e li Rassieri
Pe stu tiempu ci curre cusì strittu
E pe mancanza ci have de vettuvaghia
Stu tenemientu
Cu sse pruvia se chiama recemientu.
30 Deersi se prupunenu partiti
Sse ccatta Ranu comu senteriti
Ma nuddu se cuncrude
L'urtemu poi
La rassa de lu ranu rumpe à Bute
35 E nzuramientu
A' lu Titta se vide à nsarvamientu

Aria

I
Maravighia nò sse fazza
Se la Rassa rumpe a bute
Have fatte triste ssute
40 Autra gente de sta razza

II
Se la Rassa rumpe àsieru
Gn'unu fazza ponte e passa
Ca se sape ca ad autra tassa
Torna citu buenu mieru.

Avverto subito: 1) la numerazione dei versi non compare, ovviamente, nel manoscritto, e qui èposta per comodità di riscontro; 2) Ai vv. 9, 18, 19, 22, la grafia -dd- presenta un taglietto nell'alto di ciascuna asticciuola, a indicare il suono cacuminale; 3) Al v. 17 l'autru è scritto da mano posteriore immediatamente sotto un buchetto dovuto a tarlo. E' chiaro che un testo siffatto non può essere stampato e divulgato così come si presenta, salvo che non si vogliano raggiungere conclusioni di stretto carattere linguistico (grafia, punteggiatura, dialetto leccese, sintassi dialettale, ecc., in pieno Settecento) con un'edizione diplomatica per documento. E non è certo il nostro caso. Nel quale invece le prevalenti finalità storico-culturali (e letterarie) impongono anche ai fini della divulgazione corretta un'edizione prudentemente ammodernata, ma che rispetti scrupolosamente, in modi moderni, i suoni, le forme, i moduli linguistici antichi, in un'esegesi quanto più possibile fedele e corretta. Ora: che cosa vogliono esattamente significare i vv. 1-7? La chiave per aprirli sta nel costrutto Se vutiti / Deenati, accostamento coordinato tra due indicativi, tipico del dialetto salentino (si voglia o non si voglia sentire l'ellissi della congiunzione cu; e cioè: Se vuliti (cu) deenati), e che significa: "se volete indovinare" (e non dunque "se volete, indovinate", come intendono Ln e Sn). Il costrutto perciò introduce un'ipotesi di secondo grado, la protasi del quale sta in Se vuliti deenati ("Se volete, indovinare"), e l'apodosi sta in Ognunu pensa; dove pensa non è indicativo presente (come intendono ancora Ln e Sn), bensì congiuntivo presente: "Ognuno pensi".
Nel manoscritto non viene indicato, in questo caso, come in infiniti altri, il raddoppiamento di fonetica sintattica, che pure già figura ai vv. 2, 5, 7 ecc.. Quindi: "Ognunu ppensa", "ciascuno pensi" (anche qui la proponibile ellissi del cu; e cfr. i vv. 15, 29, 31, 42). In conclusione: "Se volete indovinare ciò che si fa in questa commedia, ciascuno pensi che essa finisce diversamente da come comincia". Ne conseguono la lettura e la punteggiatura quali compaiono nella mia cit. edizione. E questo restauro è estremamente importante per la conferma del significato da me attribuito al misterioso titolo di "La Rassa a bute, e cioè "La Grascia a voltagiri" o "La Grascia a svolte" (più secco e sovrapponibile al dialettale); poiché, se l'azione "finisce diversamente da come comincia", c'è già in queste parole il preannuncio delle bute, delle vute, delle ute ("svolte") della commedia. Tanto più che proprio nei versi immediatamente successivi, si pone un parallelo fra i sapienti dell'antica Grecia e i personaggi della commedia. Di quelli si dice che si riunirono per "aggiustare" il mondo troppo guasto, ma che raggiunsero l'unanimità di pareri solo nel proporre che s'ingrandisse la scodella di chi vende le giùggiole (che si aggiungesse potere, insomma, a chi già lo deteneva e lo gestiva); e di questi si rappresentano, nella prima parte, l'incontro e la discussione per far fronte alle tristi condizioni di carestia (aggiustare il mondo), ma poi invece le mene per rafforzare il presente potere e predisporne bene e con sicurezza il futuro, mediante accaparramento di voti, sulla base di chiare promesse, e mediante il matrimonio di un giovane ambizioso con la fresca vedova di un potente appena defunto (s'ingrandisce la scodella di chi vende le giùggiole). La Rassa a bute: le svolte della Grascia. Uno sguardo ai testi dialettali salentini settecenteschi o primo-ottocenteschi offre ampia conferma di tal significato di bute: "butatosi a mie" (Viaggiu de Leuche, I, 14, 5); "e butandu lu fìcatu e le n'trame" (D'Amelio, 10, 15); "la capu ( ... ) capisutta me sta bota" (D'Amelio, Lu Nniccu, 15), con l'apertura della tonica; e via dicendo. Bute ("Rassa a bute") par proprio un deverbale da butare (utare, vutare).
Proseguiamo il restauro del Prologo. Nel manoscritto alla fine del v. 10 c'è una virgola, cioè, in sostanza, una sensibile pausa nella lettura e dunque nella recitazione; onde il v. 10 va collegato col v. 9 ("di quello che successe in Grecia al tempo in cui parlavano i buoi", come fa Ln, ma non Sn), e non invece col v. 11. Perciò alla fine del v. 10 un punto fermo.
I vv. 16-20 hanno procurato pareri discordi. Ln traduce: "Allora si proposero / diversi modi, di uno e dell'altro, / e ci furono tra essi / -vi dissi e dico- (molti), quanti questi capelli: / l'ultimo con consenso universale", e punteggia di conseguenza. Invece Sn: "Allora vennero proposti / Modi diversi da parte di uno e da parte dell'altro / E in mezzo a quelli ci fu uno - / Ve lo dissi e ve lo ripeto per quanti sono questi capelli - / L'ultimo, con consenso universale, / "Sarebbe bene - a ognuno disse ecc.". E mentre non si può non riconoscere a Ln la volontà di penetrare e di rendere il testo, si rimane piuttosto disorientati di fronte alla traduzione proposta da Sn, fedelmente qui riprodotta. La difficoltà di un credibile restauro giace nella locuzione tra iddi (col taglietto della cacuminale). Ora, il pronome non può essere logicamente riferito se non a deersi muedi: le varie proposte furono tante che, "tra esse", cioè tutte insieme considerate, superavano i capelli che uno ha in testa (se non è calvo). Così si chiarisce e si semplifica tutto.
Un altro piccolo intoppo da superare per un congruo restauro sta ai vv. 26-29. I primi due versi (26-27) sono sufficientemente rispettabili: "Per questo tempo che corre così magro (ristretto, Ln) e per la mancanza di vettovaglia"; ma non gli altri due: "questa riunione, / perché si prenda provvedimento si chiama consiglio di amministrazione" (così Ln); "Questo 'incontro' / convocato per provvedere, si chiama 'reggimento'" (così Sn).
Sfugge il significato di tenemientu, che qui non può significare "riunione" e neanche "incontro", ma "modo di tenere la gente", e dunque "condizione"; e il recemientu, reggimento, è il Consiglio: "si convoca il Consiglio". Il dubbio invece permane su I l'alternativa: "a queste condizioni / perché si provveda", oppure: "queste condizioni / perché (vi) si provveda". Nel primo caso 'stu, non stu.
Una precisa considerazione spetta poi ai vv. 33-36. E intanto, al v. 33, L'urtemu poi non può essere pronome. perché gli mancherebbe qualsiasi riferimento grammaticale (da escludere partiti, per quanto viene detto subito dopo); e dunque dev'essere inteso come avverbio: "All'ultimo", "infine" (e così anche Sn; invece Ln "l'ultimo"). Proprio questo avverbio segna il passaggio fra estreme discussioni e futura condotta della Rassa che rumpe a buie (e cioè tra i vv. 30-32 e i vv. 34-36). E l'anonimo commediografo, leccese o non leccese che sia, fa intendere agli spettatori in che cosa consista quel rumpe a bute; propriamente in quello 'nzuramientu che tonifica il potere di Titta, in quella cioè che è la principale e determinante "svolta" della pièce. Quindi: rumpe a bute, "degenera in voltagiri" (e cfr. al v. 38 la letterale ripetizione, e al v. 41 ancora rumpe col significato preciso di "degenera", "si quasta", come quando il latte va in siero). Un ritocco restauratore di tipo semantico.
Gli ultimi otto versi con i quali si conclude il Prologo (37-44) sono ordinati su due "Arie" (e tante altre poi ne seguiranno, di "Arie"), con quartinette di ottonari a perfette rime incrociate. Il rilievo, la cui importanza allo scopo della definizione della struttura storica del "genere" era finora totalmente sfuggita, contribuisce alla collocazione della Rassa fra le opere teatrali destinate anche al tanto e alla musica; e ne fa un monumento storicamente vivo dell'opera buffa "napoletana" qui nel Salento; anzi, quasi certamente a Lecce.
Tralascio di segnalare e motivare tecnicamente qualche ritocco metrico (il probabile ipermetro del v. 6; i sicuri ipermetri del vv. 27 e 43; la dialefe ai vv. 9, 17, 18, e altre piccole cose); tralascio di sottolineare l'ammodernamento grafico (ognuno, oppure 'gnuno, o 'gnunu, non gn'unu come scrive l'amanuense; ma, diomio!, chi può dire che solo in questo, o principalmente in questo consistano il succo e le fatiche del restauro filologico?); e vengo a produrre e commentare qualche altro caso che documenti sostanza e metodi di un consapevole restauro.
Prendiamo I, 81-82. I Grascieri stanno discutendo dove e come acquistare una partita di grano, e rifiutano un'offerta perché risulta troppo costosa. Dice il manoscritto: "A coteca cu iddu [taglietto della cacuminale] nde vedimu / No nde ni dai, e nui no nde vulimu". Traduce Ln: "Ci vediamo al suo fianco: / non ce ne da e noi non ne vogliamo". Ma coteca significa solo "cotenna", non "fianco". E Sn, a sua volta: "La pelle con quello ci vendiamo! / Non ce ne dai e noi non ne vogliamo". Un salvataggio in corner, perché A coteca (foneticamente rispondente con A ccòteca) non può significare "La pelle" (come grafia 'A còteca nel senso di "La cotica" non è autoctona salentina, e naturalmente neanche A nel significato di "La"), specialmente nel contesto dialettale generale della Rassa; eppoi con assoluta arbitrarietà Sn allunga la parola vedimu in ve[n]dimu, unico intervento - se abbiamo visto bene - sul manoscritto, e non segnalato con nota particolare. "Vedersi a coteca con qualcuno" forse meglio va inteso come "prendere atto di stare nei suoi riguardi come cotenna a carne"; ed è fuor di dubbio che il dài del verso successivo ("no nde ni dài") è terza persona ("non ce ne dà", come intende giustamente Ln) e non seconda (come intende invece Sn; e cfr. subito dopo v. 90; ma siffatto caso morfologico è tutt'altro che raro nel testo, ed è anzi uno del segni per cui l'autore potrebbe non essere propriamente leccese).
Ancora nel I Atto, alla II Scena, entra Perulli, e incontrando Andrea, cui è morto il cognato, si scusa con lui di non aver partecipato al "visito" (vv. 110 sgg.). Ecco i versi come compaiono nel manoscritto:

Per. Sio Ndrea te preu cu m'haggi pe scusatu
Se no su statu allu visetu
Mo ci te morse lu tou sio canatu.
Ma Christu [m]e cuncea
E a tie la sanetate
E a quidda signura
Na bona ventura

Ndrea Minecu beddu miu, cussi, e cussibi
[Ieu] restu pe nu schau ncatenatu
Ma sapiti signuri
Cce m'è benutu a mente ecc.

Gli è venuto in mente di ipotizzare il matrimonio fra il suo amico Titta, giovane e potente pur d'ambizione, e la cognata ormai catteata, divenuta vedova. Avverto, prima di tutto, che le parole quidda e beddu hanno il taglietto per indicare il suono cacuminale; e che al v. 4 e al v. 9 l'integrazione, assai facile e indiscutibile, è dovuta al lavoretto di un tarlo. Anche altri ritocchi sono di normale amministrazione, come "Sio'" per Sio, "aggi" per haggi, "Cristu" per Christu ecc., e tutta la relativa punteggiatura. Ma proprio riflettendo sulla punteggiatura salta insopprimibile agli occhi della mente la incongruità logica (e sintattica) dei due Ma, sottolineati al v. 4 e al v. 10 del pezzo riprodotto. Non hanno nulla di asseverativo, assolutamente nulla di avversativo, nessuna spinta all'apertura di una distinzione. Eppoi, il verso detto da Andrea (Minecu ... ) che cosa vorrà mai dire con quel finale cussi, e cussibi? Ora, tutte le parole che i due personaggi (Perulli e Andrea) si scambiano, sono, o debbono sembrare. meste e addolorate, perché si riferiscono alla fresca morte del cognato di Andrea; il quale, per altro, si mostra afflitto (Ieu restu pe nu schau 'ncatenatu ... ) e meditabondo sulla mortale sorte dell'uomo: Mìnecu, beddu miu, cussì è!"; e aggiunge "cussì bi", che può essere interpretato: "Così vivi!" (seconda persona con valore sentenzioso generale). Oppure: "Così è, così!", considerato che, per esempio, nella luneide più d'una volta compare cussibi col chiarissimo significato di "così". Nella mia edizione ho preferito la prima soluzione: "Menico mio caro, / così è, così vivi" (ricavando un settenario dialefico tronco) perché è difficilior, senza escludere del tutto però la seconda; anzi. E queste considerazioni m'hanno indotto, persuasivamente, a intendere i due Ma, poco fa indicati, non come congiunzioni, ma come interiezioni: "Mah!... Cristu me cuncea ... "; "Mah!... Sapiti, signuri ecc."; e si introduce precisamente a questo punto la principale, determinante "svolta" (buta, vuta, uta) dell'azione rappresentata nella commedia: la proposta di matrimonio.
Dunque:

Per. Sio' Ndrea, te preu cu m'aggi e scusatu,
se no su statu
allu vìsetu
mo' ci te morse lu tou sio' canatu.
Mah!... Cristu [m]e cuncea,
e a tie, la sanetate;
e a quidda signura
na bona ventura.

'Ndrea Mìnecu, beddu miu...
Cussì è, cussì bi'!
leu restu pe nu scau 'ncatenatu...
Mah!... Sapiti, Signuri ecc.

Né sarà sfuggito al lettore che in tal modo, cioè ricavando il terzo verso (allu vìsetu) nei confronti del manoscritto che allunga il secondo (se no su statu allu visetu), è stata messa in luce la rima scusatu-statu, che unisce i primi due. Ma un altro caso straordinariamente interessante per il restauratore si presenta alla Scena Il del Il Atto, vv. 39 sgg. Andrea è furioso per la resistenza opposta da Don Carlo (fuori scena) alla sua proposta di matrimonio; il Sindaco e Titta cercano di frenarlo. Quale rimedio scegliere? Ecco, a questo punto, il manoscritto:

Titta Quale remediu, è quiddu ci facimu

Ndr. Cu rumpimu
Lu passa qua me face lu struppiatu
N'è cosa cu lu pozzu degerire.

Il primo di questi versi è leggibilissimo con un punto interrogativo finale: "Quale rimedio èquello che facciamo?"; insomma: "Qual rimedio dobbiamo prendere?". Andrea risponde con parole non del tutto comprensibili; certo èche parla di rompere qualche cosa. E che vuoi dire: Lu passa qua ecc.? Il verso, pur mostrandosi così misterioso nel suo significato, non può però essere ritoccato arbitrariamente, perché è un perfetto endecasillabo. E allora? E allora basta inserire dopo Lu alcuni puntini di sospensione, per rilevare un'allusione tanto evidente, quanto salace, a che cosa dovrebbe essere rotto, dall'infuriatissimo Andrea. Ne consegue una facile, doverosa integrazione al verso precedente; e tutto si chiarisce:

Cu [li] rumpimu
lu... "Passa qua". me face lu struppiatu ecc.

E lu "struppiatu", naturalmente, è Don Carlo. Bisogna onestamente ammettere che Ln si rende ben conto della situazione filologica, tant'è vero che inserisce al loro posto i puntini della comica reticenza; ma tralascia di integrare, com'è invece necessario, il verso precedente. Al contrario, il passo resta chiuso a Sn, il quale attribuisce, oltre tutto, a rumpimu il senso di "rinunciare, fallire"; e traduce: "Mandare tutto all'aria, / Il passa qua, mi fa lo storpio / e questo io non lo posso digerire ecc ... " (così, proprio fedelmente, anche la punteggiatura). Sarà una traduzione atta alla "recitazione teatrale"; a me pare. francamente, che non stia in piedi sintatticamente e che non renda affatto il testo. E non sono rari, nella resa effettuata da Sn, i casi come questi, coloriti di esiti singolari. Come in I, 1 (vv. 35-36), dove l'Anonimo (per bocca del Maestro di Piazza) scrive: "De farse non è cosa, ci aggiu dittu ... ", cioè "Non è cosa da farse, non è cosa da scherzo, se io ho detto ... ", ed Sn, invece: "Non è cosa da farsi, come ho detto ... ". Oppure in I, 2 (135-6), quando Lebetta dice, della vedova, che le sue chiesuredde (col taglio della cacuminale) su tutte tarantiedde (idem), cioè "sono tutte tarantelle", vivaci ed esplosive come chi balla la tarantella, ed Sn, invece: "Si trovano tutti nel tarantino" (e così anche Ln, perché né l'una né l'altro intervengono sull'incredibile lezione del manoscritto, dove c'era da recuperare una rima). E subito dopo, al verso seguente, Carluccio dice: "Éde lu meghiu ca pighia na fata", cioè: "Ma il meglio è che si piglia una fata"., sposando la vedova, s'intende; ma Sn: "Il migliore merita di sposare una fata". O come ancora in III, 1 (vv. 11-12), quando il giovane Titta si pavoneggia, e mostrando le sue belle maniche ricamate, dice: "E vieti Diu, no spicca / sta maneca ci portu raccamata?", cioè: "E Dio non voglia [il contrario, naturalmente], non fa spicco / questa manica che porto ricamata?"; laddove Sin traduce: "E il Padre eterno non ha vietato mai / Questa manica che indosso ricamata". O come quando in II, 7 (v. 201), entra in scena il Maestro di Piazza gretandu, dice il manoscritto, cioè "gridando": "Pane, pane!"; il gretandu, dunque, funge da didascalia sull'atteggiamento dell'attore; ma Sn non se ne avvede, e traduce: "Pane, pane - stanno gridando -", equivocando sulla chiosa e riducendo un modo infinito in modo finito, per aggirare la derivante difficoltà sintattica. E così numerose altre volte, per non parlare dei refusi e delle sviste, dei salti di righi o dell'omissione del nome del personaggi, che sono cose che capitano anche nelle migliori famiglie. Neanche la mia edizione ne è immune.
Certo, chi legga la Rassa a bute "restaurata" da Sn si meraviglierà che il nome dei personaggi è dato in dialetto anche nella traduzione in lingua; come se Pennardinu, Giabbicensi, Mìnecu ecc., siano nomi esistenti nella lingua italiana. Gli è che anche il titolo, finora tanto misterioso, della Rassa a bute si rilegge tal quale. nella edizione di Sn, nella parte della traduzione italiana, al modo stesso dei nomi, come se si trattasse di lingua italiana e di una frase chiarissima. Eppure nessuno, quanto Sn era stato vicino alla sua decifrazione; e infatti: "Ieu de le ute no nde seppi nienti" (III, 4, 54) e tradotto con: "Dei cambiamenti non so proprio niente"; e "La Rassa ute" (III, 4, 169; che io invece leggo: "La Rass'a ute") con "La Grascia si rivolta". Ma l'intuizione, purtroppo, è rimasta lettera morta.
Or mi par d'aver esemplificato, sia pure in minima parte, gli agguati di un vero restauro filologico allo scopo di offrire un testo affidabile. Sono agguati dei quali nessuno, è chiaro, ha l'obbligo di aver contezza; ma chi non ce Ma. sconsideratamente opera, se agisce; e temerariamente giudica, se crede di poter così valutare il lavoro altrui.


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