Quarant'anni di
intervento straordinario nel Mezzogiorno: è questa una delle
ricorrenze nelle quali più si è attratti da quel provvido
esercizio che è la formulazione di rendiconti e la identificazione
di nuovi propositi per l'azione futura. E quando già nell'iniziare
questo lavoro apprendiamo che nel quarantennio il divario Centro-Nord/Mezzogiorno
è rimasto sostanzialmente invariato e, come vedremo, tende
ad aumentare, dobbiamo renderci conto che rilevanti innovazioni vanno
subito introdotte nella politica del passato.
Riconsiderare a fondo termini attuali e prospettive della questione
meridionale ci è imposto anche dal mutamento che, con il 1993,
avrà luogo negli ordinamenti della Comunità europea;
come sappiamo, questa sarà regolata, a partire da quell'anno,
da un sistema di rapporti molto diverso da quello attuale.
Per renderci conto in breve della natura del problema che questo evento
solleva penso che dobbiamo considerare l'ordinamento della Comunità
come un sistema di vincoli che vigono tra i Paesi membri, vincoli
dai quali vengono esentati, in tutto o in parte, i Paesi cui si riconosce
abbiano al loro interno aree sottosviluppate; l'ordinamento della
Comunità prevede inoltre la concessione di sostegni alla politica
che ciascuno di quei Paesi crederò di svolgere nei riguardi
delle proprie aree sottosviluppate. Quei Paesi dovranno quindi render
noti alla Comunità gli obiettivi che ciascuno di essi persegue
e le politiche che si propone di seguire; si potranno così
definire con gli organi della Comunità deroghe ai vincoli contenuti
nel futuro ordinamento e sostegni alle politiche che saranno svolte.
Sia perché la politica meridionalista va profondamente mutata,
sia perché le misure salienti di quella politica vanno rese
conformi all'ordinamento della futura Comunità, si impone oggi
la necessità di riconsiderare tutto l'insieme di interventi
in corso a favore del Mezzogiorno. Nei quarant'anni (1950-1989) di
intervento straordinario il divario di prodotto pro-capite Nord/Sud
è passato dal 44 al 41%; esso è rimasto in sostanza
invariato essendo diminuito solo del 7% in un periodo che è
piuttosto lungo. Aggiungasi che il divario ha avuto nel quarantennio
un andamento che lo rende ancor più preoccupante; in quel periodo
infatti va distinta una prima fase (il venticinquennio 1950- 1974)
nel corso della quale il divario scende dal 44 al 38%, e una seconda
fase, che giunge fino all'89, durante la quale il divario è
risalito dal 38 al 41%. Affermato che nel quarantennio il divario
è rimasto praticamente invariato, va aggiunto che, negli ultimi
anni, si è manifestata una tendenza all'aumento, un fatto che
lascia molto incerti sul futuro.
Va ricordato che nel Sud risiede il 36,6% della popolazione italiana
e vi ha luogo la totalità del suo incremento; possiamo quindi,
dall'insieme di questi dati, con fondamento ritenere in primo luogo
che la questione meridionale va oggi giudicata come il problema più
grave del nostro Paese, e in secondo luogo che nulla è in corso,
di decisivo, per dare ad essa soluzione.
Perché il divario diminuisca occorre ovviamente che il rapporto
tra investimenti e popolazione sia nel Sud superiore a quello del
Centro-Nord. Questo risultato non è stato mai conseguito nel
quarantennio; il livello pro-capite degli investimenti nel Sud, posto
100 il livello di quelli del Centro-Nord, è stato ad esso sempre
inferiore: da un minimo del 52% nel 1951 a un massimo del 93% nel
1972, per scendere al 79% nel 1986; non si è dunque mai avuta
una formazione di capitale di entità conforme all'obiettivo
perseguito. E' poi da aggiungere che i dati dei nuovi conti economici
regionali resi noti dall'Istat forniscono un quadro ancora più
grave dell'insufficienza degli investimenti meridionali.
Per evitare che una tale situazione perduri, occorre anzitutto determinare
il periodo entro il quale quell'obiettivo si vuol conseguire. Non
sembri assurdo, ma di una politica intorno alla quale tanto si discute
non sono precisati né obiettivi né tempi.

Ora, l'obiettivo
non deve essere l'eliminazione del divario Nord/Sud, che, in sostanza,
è il risultato di elaborazioni aritmetiche, ma la creazione
dei posti di lavoro la cui mancanza è all'origine di tutti
i mali; il progresso verso quell'obiettivo sarò quindi misurato
dalla riduzione dell'attuale disoccupazione.
Si è rilevato prima che la questione meridionale è la
massima tra le nostre questioni; dovrebbe allora essere massima. nella
nostra generale politica economica, la forza dell'intervento nella
sua fase iniziale. Indicata intorno a sei-otto anni (periodo di ammortamento
di un impianto) la durata di questa fase, si potrebbe adottare tale
periodo come durata di un programma; resa meno grave la questione
si vedrò, in base all'esperienza fatta, che cosa fare per il
periodo successivo. Al successo di una simile impostazione potrò
molto giovare la partecipazione delle forze sindacali alla definizione
delle future politiche. La forza sindacale opera per la tutela di
tutta la forza di lavoro del Paese, non di quella sola che è
occupata, in sostanza, si tratta di determinare, dato un certo aumento
del prodotto nazionale, come esso vada ripartito tra investimenti
e consumi perché abbia luogo quella accumulazione del capitale
produttivo di cui il Mezzogiorno ha bisogno.
Tra le molte condizioni che devono verificarsi perché l'intervento
nel Sud dia risultati migliori vi è comunque quella che il
saggio di aumento del prodotto del nostro Paese sia mediamente più
elevato di quello degli scorsi anni; l'azione per il Sud è
ovviamente più facile se il prodotto nazionale aumenta ad un
saggio intorno al 5% (come avvenne più di una volta prima del
1975), che non se tale saggio cade intorno al 2,5-3%, come è
stato nel corso degli ultimi anni. Ritorneremo, e quando, ai saggi
di aumento di un tempo?
Variazioni di divario si possono avere anche in conseguenza di variazioni
della popolazione delle due aree. La diminuzione della natalità,
in corso da tempo in ambedue le aree, è già giunta a
determinare una riduzione di popolazione nel Centro-Nord; alla stessa
situazione non si è ancora pervenuti nel Sud. E ciò
è motivo di aumento del divario, dato che la diminuzione ha
luogo nel Centro-Nord, area a più alto prodotto pro-capite
e un aumento si verifica, sia pure ancora per poco, nel Sud, area
a più basso prodotto pro-capite.
Vi è poi oggi, in prospettiva, una situazione nuova nella quale
i movimenti migratori assumerebbero importanza maggiore. Questo fenomeno
non è però suscettibile di previsioni.
Si può tuttavia rilevare che nella situazione odierna e fin
quando lo sviluppo economico del Sud resterà insufficiente
rispetto alla forza di lavoro che non trova occupazione, l'emigrazione
è fenomeno positivo; ciò però a patto, s'intende,
che siano garantite agli emigrati condizioni di lavoro e di residenza
nei luoghi d'arrivo che corrispondano alle attese e alle caratteristiche
socio-culturali delle attuali giovani generazioni; attese e caratteristiche
che sono profondamente diverse da quelle della grande emigrazione
contadina degli anni '50 e '60. Se nei quarant'anni trascorsi dall'inizio
dell'intervento straordinario il divario non è diminuito, è
però notevolmente migliorato, nel Sud, il tenore di vita; è
avvenuto che nella parte del Paese che è sottosviluppata l'aumento
di benessere si sia svolto all'incirca allo stesso saggio di quelli
di un'area altamente industrializzata qual è il Centro-Nord.
Si potrebbe dire che l'aumento di risorse determinato dall'intervento
straordinario sia andato. rispetto a un progresso equilibrato, più
a vantaggio dei consumi e meno a vantaggio degli investimenti produttivi
e della relativa creazione di nuova occupazione. E vi è motivo
per dire che l'intervento straordinario, a causa dello spostamento
di risorse che si è avuto dagli investimenti ai consumi, ha
convertito una quota notevole delle risorse utilizzate, da azione
per lo sviluppo in azione assistenziale.
Infine, ultimo ma non meno importante argomento, l'esperienza sembra
mostrare che l'instaurazione di una convenienza economica all'investimento
industriale nel Sud è resa più ardua del previsto dalle
differenze che si sono formate tra la società del Centro-Nord,
che è industrializzata, e quella del Sud, dove lo sviluppo
industriale è cominciato da poco. E' un fenomeno che è
stato rilevato ovunque sono stati avviati processi di industrializzazione.
E' quindi da approfondire il tema delle condizioni richieste perché
in un'area non industrializzata strutture produttive moderne divengano
accoglibili in modo diffuso.

La vicenda dello
sviluppo industriale del Sud sembra indicare che una politica di industrializzazione
di un'area agricola comporta la creazione di un insieme di norme tali
da costituire nell'area un vero e proprio ordinamento che, per essere
conforme al tipo di processo economico che si vuole vi si svolga,
risulta inevitabilmente piuttosto diverso da quello esistente nel
resto del Paese. La creazione della Cassa per il Mezzogiorno rispondeva
un po' a queste esigenze; esse furono tenute presenti quando, nel
1950, vennero elaborate le norme che diedero inizio all'intervento
straordinario. Quelle norme prevedevano una forte direzione centrale
della quale, sia pure in termini molto mutati da allora, sembra da
parte di molti avvertirsi ancor oggi l'esigenza; sono convinto che
ne guadagnerebbe in efficacia la stesso azione delle regioni, la cui
creazione si dice sia stata la determinante della soppressione della
Cassa.
Il Nord che
è al Sud, il Sud che è al Nord
Roma continua ad essere il bersaglio preferito delle leghe che dalla
Val Brembana si propongono di scendere per conquistare la "capitale
corrotta", per poi erigere il nuovo Stato federale "alla
maniera svizzera"; non "alla maniera tedesco-federale":
sarebbe troppo blando.
Ma a difendere questa capitale arruffona, caotica, tanto quanto bistrattata,
bastano le cifre: Roma viene subito dopo Milano nell'importante graduatoria
del reddito denunciato e delle imposte pagate al fisco per singolo
contribuente.
Se infatti Milano è prima con 16.991.000 lire, Roma la tallona
con 16.530.000. Per trovare una città legaiola bisogna scendere
all'ottavo posto, dove c'è Varese e, dopo, Como. E gli altri
"lumbard"? Bergamo è al 14° gradino, Cremona
al 17°, Pavia al 28°, Brescia addirittura al 34°, Sondrio
al 45°, e Mantova al 68°, molto dopo quei terroni di Catania
e di Pescara. Strano fenomeno. Eppure, la concentrazione di ricchezza,
l'ostentazione del benessere, sono enormi in quella provincia lombarda.
Che ci sia anche un bel po' di evasione fiscale? Molto più
che nella corrotta, infetta capitale?
Vediamo chi "succhia il sangue". Il comune di Roma riceve
di ritorno dallo Stato 460.000 lire annue per abitante, mentre quello
di Milano ne ha ben 600.000, un buon 34 per cento in più della
capitale; Torino ne ha 572.000, Firenze addirittura 643.000.
Un'altra polemica è vecchia di almeno un secolo: chi ci ha
rimesso, e chi ha guadagnato dall'unificazione? Il Nord ricco o il
Sud povero? Ad affrontare il problema in termini scientifici agli
albori del '900 fu un economista lucano di grande avvenire (sarebbe
diventato presidente del Consiglio): Francesco Saverio Nitti. Cifre
alla mano, nel suo famoso Nord e Sud dimostrò che i maggiori
vantaggi li aveva ottenuti la parte più ricca del Paese, drenando
risorse che la parte più povera non riusciva ad utilizzare,
accaparrandosi una quota della spesa pubblica superiore al proprio
peso demografico.
Acqua passata, forse? Ora la situazione si è rovesciata? Il
senatore Bassi, che storico non è, e meno che mai economista,
è convinto che il cambiamento sia avvenuto, e su questo fonda
la sua battaglia politica. Vediamo come stanno le cose. Che il Sud
consumi più di quello che produce non lo contesta nessuno.
Neanche gli uomini della Svimez, che del meridionalismo possono considerarsi
i moderni apostoli. In tutto il decennio '80, dicono, la produzione
meridionale ha coperto poco più dei consumi del Sud, mentre
gli investimenti sono stati finanziati, per circa quattro quinti,
da risorse esterne: dallo Stato e dai privati, italiani e stranieri.
Esattamente l'inverso di quanto è avvenuto nel Centro-Nord.
Chi predica questo, dunque, non fa che scoprire l'acqua calda.
Il problema è stabilire quanto delle risorse disponibili nel
Sud venga dai pagamenti statali. Quelli effettuati dalle Tesorerie
provinciali nel Sud hanno rappresentato il 33,2 per cento. Una percentuale
più bassa di quella corrispondente all'incidenza della popolazione
meridionale sul totale nazionale (36,6 per cento), e che è
indicativa fino ad un certo punto, perché non tutta la spesa
pubblica fa capo allo Stato. C'è quella degli enti locali,
con mezzi che arrivano sempre dal bilancio pubblico. Sommando quanto
lo Stato ha trasferito a Regioni, Province e Comuni, la Svimez ha
accertato che per ogni cittadino delle Isole si tratta di 1.645.000
lire; per ogni abitante del Sud continentale di 1.783.700 lire; per
ciascun residente nell'Italia Nord-occidentale di 1.822.400 lire;
per ognuno del Centro di 1.997.200 lire; per ognuno dell'Italia Nord-orientale
di 2.140.100 lire.
Insomma: mettendo nel calderone tutte le spese di Stato, Regioni,
Province, Comuni e Usi, si arriva a 3.821.300 lire a testa nel Sud
continentale e insulare, e a 4.269.600 lire a testa nel Centro-Nord,
con una differenza tra le due grandi ripartizioni di oltre dieci punti.
In altre parole, la spesa del Sud è pari a meno dei nove decimi
di quella del Centro-Nord. Come la mettiamo?
Va da sé che se consideriamo le cifre delle spese con quelle
delle entrate, il Sud risulta più avvantaggiato. Ma lo si sapeva
prima che venisse a ricordarcelo il leghismo. Per che cosa si sono
battuti i meridionalisti, allora, se non per cancellare questo e altri
squilibri? E poi: chi ha interesse a mantenere questi e gli altri
squilibri? la gente del Sud?
Erano più o meno noti i dati sull'inquinamento delle zone settentrionali
del Paese. Ma si deve dire Che, messi uno dopo l'altro nella Relazione
sullo "stato dell'ambiente in Italia" presentata al Parlamento,
fanno davvero paura. Il Nord ha una sua "questione", che
riguarda l'intera Italia per i riflessi negativi sull'economia generale
e sulla spesa pubblica. Sotto il profilo dell'ambiente, scrive il
ministro Ruffolo, il vero Sud d'Italia è il triangolo industriale,
e in particolare l'area padana, "con le sue propaggini venete
e friulane", dove c'è "la situazione più critica
delle risorse idriche del sottosuolo [ ... ] per l'impatto di forti
insediamenti abitativi, di grande industrializzazione e di agricoltura
intensiva che determina un diffuso depauperamento quantitativo e qualitativo
delle risorse idriche". Il che ha fatto dichiarare ben cinque
aree del bacino "ad elevato rischio di crisi ambientale".
E infatti nel Po e in tutti gli altri corsi d'acqua si trovano tutti
i veleni possibili e immaginabili, incluso l'arsenico. Più
in generale, nel solo bacino del Po viene prodotta una quantità
di reflui industriali "pari a quella generata da circa 138 milioni
di abitanti equivalenti"!
Gli effetti disastrosi di questa situazione non si ripercuotono solo
sulla popolazione padana, ma sull'intero Adriatico e sulla laguna
veneta, provocando l'atrofizzazione delle acque e in pratica il coma
di un intero mare che tutti bagna, tranne la Lombardia. Si aggiunga
che gli scarichi prodotti (per il 13% da insediamenti civili, per
il 42% dal sistema industriale e per il 45% dalla zootecnia) risultano,
per oltre la metà, non sottoposti a depurazione, in parte in
spregio alle norme di legge, in parte perché la legge ancora
non disciplina alcuni prodotti, e in parte perché il 50% dei
depuratori non funziona (e Milano è una delle poche città
europee prive di depuratori).
Per la sola depurazione delle acque sporcate dal Nord. la spesa ammonterà
a 12.500 miliardi di lire, più altri 1.600 necessari per smaltire
i rifiuti nel solo bacino padano: cifra che, complessivamente, è
più della metà di quanto sarebbe necessario per depurare
l'intero Stivale, isole comprese.
Sarà così l'intera collettività nazionale a sostenere
l'onere di uno sviluppo, disordinato e caotico, di cui beneficiano
solo ed esclusivamente le popolazioni settentrionali.