L'economia
italiana è oggi contrassegnata da un'inflazione in graduale discesa.
A fine giugno 1990, infatti, il tasso tendenziale è stato pari
al 5,6%, inferiore, cioè, di oltre un punto percentuale rispetto
al dato del giugno scorso (7%). Si tratta del livello più basso
raggiunto nel nostro Paese a partire da quella data. Tuttavia, esso
è pur sempre lontano da quel 5% prefissato dal programma governativo.
la tendenza, inoltre, non è certo il risultato di opportuni provvedimenti
di politica economica, bensì l'effetto di una congiuntura internazionale
estremamente favorevole caratterizzata soprattutto dal calo dei prezzi
delle materie prime. Una congiuntura che dovrebbe essere sfruttata appieno
finché dura, ma che, invece, continua a non essere coadiuvata
da adeguate misure interne, il che rende meno forte, nel nostro Paese,
la spinta verso l'assestamento del sistema dei prezzi su livelli mediamente
normali.
Né deve essere sopravvalutato il fatto che ci stiamo avvicinando
alla media europea, visto che su quest'ultima pesa in misura esagerata
il tasso di inflazione della Gran Bretagna, di ben 9,7 punti percentuali.
Sulla base di dati Istat, i maggiori incrementi dei prezzi al consumo
si sono verificati nei settori dell'elettricità e dei combustibili
(11,5%), dell'abitazione (7,3%), dell'abbigliamento (5,9%), dell'alimentazione
(5,5%) e degli articoli per uso domestico (5,3%). Seguono le voci spese
per la salute (4,7%), cultura e spettacolo (4,3%), trasporti e comunicazioni
(4,2%).
Competitività
dell'industria italiana
Negli ultimi dieci anni, l'Italia ha subìto una progressiva
perdita di competitività dei prezzi all'esportazione, a cui
si è accompagnata un'erosione della sua quota di mercato in
volume. Questo non ha comunque impedito una tenuta pressoché
invariata della quota di mercato in valore.
Guardando all'andamento delle nostre esportazioni nel contesto dei
Paesi OCSE, osserviamo Che, nel corso degli anni '80, la quota dell'Italia
si è attestata su livelli abbastanza soddisfacenti: dal 6,5%
del periodo '80/'85 è passata al 7,2% tra il 1986 e il 1989.
Ha fatto eccezione il 1988, anno in cui la percentuale è scesa
al 6,8, a causa di una concentrazione delle importazioni mondiali
attorno a Giappone e NICs asiatici, Paesi con cui l'Italia non ha
rilevanti rapporti commerciali. D'altro canto, sempre in quell'anno,
le esportazioni mondiali si sono indirizzate verso beni di investimento
ad elevato contenuto tecnologico, di cui il nostro Paese non è
grande produttore.
Il 1989, invece, può essere considerato un anno particolarmente
positivo per il nostro commercio con l'estero: nonostante l'ulteriore
perdita di competitività dei prezzi, soprattutto nei confronti
della Cee, le nostre esportazioni hanno registrato un aumento in volume
(+9,2%) maggiore di quello che si è verificato nel commercio
mondiale di manufatti (+8%). Analogamente, è tornata a crescere
la quota delle nostre esportazioni sul totale mondiale (7,4%).
Hanno concorso
a raggiungere questo risultato sia il consolidamento dei nostri traffici
commerciali con gli altri Paesi comunitari sia l'orientamento della
domanda mondiale verso beni di consumo durevoli e non, di cui siamo
importanti produttori. la minore competitività I prezzo, invece,
ha avuto scarsa incidenza grazie allo sfasamento temporale con cui
essa si riflette sugli scambi internazionali.
Competitività
di prezzo dell'Italia sul mercato mondiale
In base ai dati resi noti dalla Banca d'Italia, si può constatare
che la competitività di prezzo dell'Italia, nell'ultimo decennio,
si è sempre più deteriorata, soprattutto nei confronti
dei Paesi aderenti allo SME.
Infatti, dall'andamento del "tasso di cambio effettivo reale"
nei confronti dei nostri maggiori partners commerciali, emerge che,
durante gli anni '80, il deprezzamento del cambio della lira non è
riuscito a compensare i differenziali di inflazione esistenti con
quei Paesi.
A questo proposito è possibile ripartire il decennio in tre
fasi:
1) la prima corrisponde al periodo '80/'85, ed è caratterizzata
da un deprezzamento reale della lira, di entità quasi uguale
al differenziale di inflazione, che ha consentito all'Italia di neutralizzare
l'andamento dei prezzi relativi,
2) la seconda fase, che va dal 1986 al 1988, è contrassegnata
da una drastica riduzione del nostro differenziale di inflazione,
che però non ha trovato supporto in un adeguato deprezzamento
del cambio, idoneo a ridurre ulteriormente il differenziale stesso,
3) la terza fase, che va dal 1989 alla prima metà del '90,
si distingue, invece, per la notevole perdita di competitività
del nostro Paese.
E' un per' 'odo in cui il tasso di cambio effettivo reale della lira,
nonostante la presenza di un elevato differenziale di inflazione,
si è addirittura apprezzato sia nei confronti della valuta
SME e della sterlina sia nei confronti del dollaro.
Sulla base delle elaborazioni Sie, su dati Onu e Ocse, osserviamo
che l'industria italiana è riuscita a mantenere praticamente
invariata la sua quota di mercato in una serie di settori tradizionali,
quali il tessile, l'abbigliamento, la pelletteria e le calzature,
passando dal 12,3% del 1970 al 12% nel 1987: un risultato Che, a fronte
di una situazione nazionale caratterizzata da una generale perdita
di competitività, è stato reso possibile dai processi
di rinnovamento e di riorganizzazione che hanno interessato questi
comporti.
L'industria italiana ha guadagnato competitività anche nei
settori ad elevata innovazione tecnologica incrementale, che si caratterizzano
per una maggiore diversificazione dell'offerta. come la meccanica
strumentale, la componentistica meccanica, le macchine agricole, le
macchine industriali non elettriche, i materiali elettrici e così
via. Il calo di competitività internazionale delle produzioni
italiane è più evidente nei restanti settori ad alta
intensità di innovazione e in quelli ad alta intensità
di ricerca e sviluppo. Riduzioni sensibili di competitività
si riscontrano anche nei settori ad elevata economia di scala, come
la chimica, la metallurgia, gli autoveicoli, l'elettronica di consumo,
caratterizzati da imprese medio-grandi.
Tendenze della
forza-lavoro in Italia
Dalla radiografia Istat sulle forze di lavoro in Italia, per il primo
trimestre '90, emerge che il numero delle persone occupate è
aumentato, in un anno, di 409 mila unità, di cui 237 mila rappresentate
da uomini e 172 mila da donne.
L'occupazione è cresciuta in particolar modo nel terziario
(+58,6%) e nell'industria (+32,4%), mentre è rimasta pressoché
stazionaria in agricoltura (+9%). A livello regionale, i maggiori
aumenti si sono verificati al Sud (207 mila nuovi addetti, pari ad
un incremento percentuale del 19,1). Seguono il Centro, con una crescita
di 116 mila unità (+9,6%) e il Nord, con 86 mila nuovi occupati
(+4,9%).
Il tasso di disoccupazione, riferito all'aprile del '90, è
sceso sensibilmente rispetto allo stesso mese del 1989, passando dall'11,9%
al 10,6%. Ciò non toglie che esso continui a rimanere su livelli
ancora troppo elevati. Il calo della disoccupazione ha riguardato
sia i disoccupati in senso stretto, quelli cioè che hanno perso
il posto di lavoro (che, secondo le statistiche, sono scesi da 518
mila a 441 mila unità) sia le persone in cerca di prima occupazione
(passati da 2.304.000 a 2.075.000 unità).
Su scala regionale, la situazione si presenta alquanto differenziata,
manifestando con evidenza il solito carattere duole dell'economia
italiana. Infatti, mentre al Nord il tasso di disoccupazione si attesta
su un livello quasi fisiologico (pari al 5,5%), al Sud raggiunge il
20,1%.
Diversi si delineano anche gli approcci al problema nelle due aree:
nel Nord, si tratta di superare le strozzature esistenti nell'offerta
e di creare condizioni che favoriscano l'incontro con una domando
ad alto contenuto professionale; al Sud, invece, si tratta ancora
di favorire il processo di accumulazione, il problema ponendosi in
termini di eccedenza dell'offerta sulla domanda di lavoro.
Per quanto concerne l'andamento occupazionale per fasce d'età,
possiamo osservare che il maggior numero di disoccupati si raccoglie
nella fascia d'età compresa fra i 14 e i 29 anni. La percentuale
di disoccupazione giovanile italiana è, insieme a quella della
Spagna, la più elevata tra i Paesi europei. I giovani senza
lavoro rappresentano, infatti, il 69,5% del totale delle persone in
cerca di occupazione. Di questi, il 24% è costituito da giovani
muniti di licenza media, quasi il 32% da giovani muniti di diploma
e oltre il 26% da giovani laureati.
Comunque, anche per la componente giovanile della forza lavoro, i
dati Istat rilevano un leggero calo della disoccupazione (meno 196
mila unità) tra l'aprile 1989 e l'aprile 1990. Rispetto alla
presenza di 1.748.000 giovani disoccupati, è questa una variazione
pressoché irrisoria, che però - a parere degli studiosi
- può rappresentare l'inizio di un'inversione di rotta, sulla
quale hanno buon gioco sia l'aumento tendenziale dell'occupazione
sia il calo demografico, i cui effetti saranno sentiti con più
evidenza nei prossimi anni.
Se così fosse, l'Italia si porrebbe in linea con la tendenza
generale dei Paesi più industrializzati verso la cosiddetta
"disoccupazione adulta e di lungo periodo".
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