Immigrazioni
storicamente accertate di cretesi Invasero la penisola salentina sovrapponendosi
agli aborigeni. Quando ciò sia avvenuto non è noto. E'
stato però stabilito che la lingua messapica fu l'idioma dei
primi abitanti di Lecce.
Dopo successe la colonizzazione ellenica. Fiorenti colonie greche qui
insediatesi tra il decimo e il sesto sec. a. C. fecero assurgere Lecce
a enorme importanza, auspice i suoi commerci e il suo emporio marittimo:
ce lo dimostra il porto di Roca Vecchia, a 22 chilometri dal capoluogo.
A metà del secondo sec. dopo Cristo, la potenza universale di
Roma librò le sue ali su questo estremo lembo d'Italia, centro
e prestigio d'i legioni. Quinto Ennio, il grande poeta restauratore
della lingua latina, nato a Rudiae, a 2 chilometri da Lecce, nel 239
a. C., è per i leccesi fonte inesauribile di orgoglio e testimonianza
della nobiltà della stirpe. Una colonna marmorea offerta da Roma
per il bimillenario della nascita del poeta è allogata -su base
di travertino - nelle adiacenze di porta Rudiae.
Crollato l'impero romano, Lecce passò sotto il dominio dei Goti,
dei Longobardi, dei Bizantini: tutti e più volte presero e saccheggiarono
la città. Agli albori dell'XI° sec., i Normanni riaccesero
la gioia della vita e le attività dei commerci marittimi. Tancredi
fu conte di Lecce e Re delle Due Sicilie (1140-1194). Nel 1180 costruì
la stupenda chiesa di San Niccolò e Cataldo, il più insigne
monumento di Terra d'Otranto. In questa basilica si rimane estasiati,
quasi perplessi, affascinati da una polifonia di stili: dal romanico-bizantino,
aIl'arabo-moresco; la cupola è senz'altro su modello greco. Ha
tre navate divise da pilastri, con addossate colonne corinzie le quali
con gusto gotico svettano sino alla volta. Gli affreschi sulle pareti
delle navate laterali e nell'abside sono tuttora in ottimo stato conservativo.
Questo monumento nei secoli ha subìto rovine e mutazioni. la
costruzione è in pietra calcarea giallo-dorata dal tempo che
scorre, tagliata e posta in sesto con nettezza e vaghezza ammirevoli.
In quei conci il turista può cogliere a occhio nudo miriadi di
valve di diatomee e radiolari, fossilizzati, risalenti all'era cenozoica.
Per inciso, sia detto che al mesozoico appartengono lo Sperone del Gargano,
tutta la provincia di Bari (Japigia), dall'Adriatico alle falde della
Murgia, e parte della Penisola salentina, sul versante ionico, verso
Porto Cesareo. All'era cenozoica si attribuisce la zona Otranto-Santa
Cesarea Terme. Il Tavoliere di Capitanata (Daunia) nell'estensione Foggia-Barletta-Cerignola
appartiene al neozoico o quaternario.
La chiesa di S. Niccolò e Cataldo ha due porte laterali con fregi
intatti che sono il più superbo ornamento del tempio. Si direbbe
che quelle decorazioni giallo-oro siano state lavorate come la cera,
con leggiadria, con grazia, venustà, avvenenza, tanto da poter
competere con lavori di pittura e di scultura. La porta centrale della
facciata ha un arco cui fanno cornice due ghirlande intrecciate di foglie
di acanto e di quercia di una bellezza sontuosa. Al centro dell'architrave
si legge la prima delle epigrafi di re Tancredi.
Ai Normanni successe la famiglia dei Brjenne con Gualtiero VI: fondò
Roca Vecchia e volle che fosse come era stata ai prischi tempi, emporio
dei leccesi; la munì di castello e di mura di cinta ancora oggi
in buono stato di conservazione; dotò Lecce di vastissimi possedimenti
e di uomini. Dispose in bell'ordine le strade e assegnò all'amministrazione
e alla direzione della città un Questore, che aveva cura del
pubblico erario.
Roca, oggi, è un centro di villeggiatura; nel passato trentennio
sono state costruite ville che hanno inglobato le vecchie case dei pescatori.
E' bagnata dall'Adriatico limpidissimo; ha una scogliera a picco di
oltre 20 metri, delizia dei subacquei e dei bagnanti che si tuffano
da quelle altezze nell'acqua cristallina e leggera.
Roca - inoltre - ha una piccola baia, chiamata "La poesia",
fra le più belle della Penisola salentina.
Roca rappresenta per i salentini la costa geograficamente più
vicina alla Grecia. Nel 14° e nel 15° sec. fu dimora preferita
dei fastosi principi dell'autonoma Contea di Lecce. Nel 1356 la Contea
passò a Maria d'Enghien e, in seguito, le successe Antonio Giovanni
Orsini, suo prediletto figlio. Roca, a lui fedelissima, era luogo di
delizia e sollievo del suo spirito; fu assassinato il 13 novembre 1463
ad Altamura per odio dei baroni pugliesi.
Dopo questo tempo ebbe inizio la decadenza di Roca. Nel 1480, fu uno
dei luoghi vicino a Otranto maggiormente straziato dalla ferocia del
turco: i saraceni nel luglio dello stesso anno ne occuparono il castello.
Comincia così per Lecce l'era degli Aragonesi. Alfonso d'Aragona,
duca di Calabria, scelse Roca come base di operazione e centro di raccolta
dell'esercito nazionale che doveva stringere d'assedio Otranto (14 agosto
1480), già accupata dal turco invasore. Riconquistata Otranto,
Roca rimase squarnita del presidio sufficiente a difenderla. in seguito,
del tutto abbandonata, fu facile preda delle frequenti incursioni dei
saraceni, che tenevano quel porto come asilo sicuro, infestando il territorio
limitrofo.
Roca fu demolita nel 15,44 per ordine di Carlo V.
Gli scavi eseguiti sull'antico porticciolo hanno messo a nudo le mura
colossali che recingono l'antica cittadella per un perimetro di circa
1500 metri, oltre l'area occupata dalla necropoli e la linea che costeggia
il mare. Gli avanzi architettonici della muraglia consistono in massi
paralielepipedi di pietra da taglio calcareo-magnesiaco compatto, ben
squadrati. La necropoli è di grande interesse: si osservano gruppi
di tombe a cassettoni, coperte di lastroni; qui si sono trovati vasi
fittili a tinte uniformi baccellati e figurati. Sono state reperite
fibule in bronzo e in oro, monete greche, romane e medioevali, intere
o in frammenti. Il tutto custodito nel Museo provinciale "Sigismondo
Castromediano", a Lecce. Il museo, una volta allogato nel Palazzo
dei Celestini, trovasi in viale Gallipoli, nell'ex Collegio Argento,
ristrutturato con concetti modernissimi sotto l'illuminata guida della
dottoressa Delli Ponti. E' ricco di vasi attici, apuli, greco-italioti,
per migliaia di pezzi, tutti esemplari rivenienti dalle necropoli di
Ruvo di Puglia, di Canosa, di Ordona, di Gravina di Puglia, di Caballino
(Cavallino) di Lecce e da altri centri della Grecìa salentina
o da scavi della Regione Puglia.
Per la storia di Lecce, frugando nelle ceneri del passato, si può
affermare che la città sotto il dominio dei Normanni, dei Brjenne,
degli Enghien, trovò sempre un'alta espressione di potenza civile,
tale che non molte altre, maggiormente favorite dalla sorte o dagli
avvenimenti, potessero nelle stesse epoche irradiare. Tra i signori
di Lecce il nome e l'epoca di Maria d'Enghien compendiano questa realtà
di splendore e di grandezza, e purtroppo la chiudono. Maria d'Enghien,
regina prudente, accorta e tenace condottiera, è figura di grande
risalto nella Contea di Lecce. Superiore, forse, a quella dello stesso
Tancredi. Lecce ebbe da Maria d'Enghien quel patrimonio di cultura,
quell'afflato di distinzione intellettuale che tanto le servì
in ogni tempo della sua vita politica. Gli Statuti emanati da questa
donna contribuirono a dare a Lecce fama di capitale.
Attive ed espertissime colonie di veneziani, di genovesi, di fiorentini
si stabilirono a Lecce costituendo un singolare emporio di traffici
con l'Oriente. In piazza Sant'Oronzo, Venezia lasciò il ricordo
della chiesetta di S. Marco; sull'architrave della porticina rinascimentale
si evidenzia lo stemma della Serenissima: il leone alato e aureolato.
Il tempietto, dedicato a S. Giorgio, nel 1543 fu concesso alla colonia
veneziana, console Giovanni Cristino che ebbe a ristrutturarla e la
dedicò a S. Marco.
Adiacente, e nello stesso stile, nel 1500 fu costruito il Sedile, dalla
strana architettura, con ampi archi ogivali e trofei di armi antiche
e loggiato sovrastante ad archi fondi. Il Sedile fu luogo delle prime
municipalità e la medesima funzione di casa comunale ebbe sino
al 1851.
Nel sec. XVI molti veneziani, allora trasferitisi a Lecce, occuparono
la carica di Console o di ViceConsole, quali i Mocenigo, Francesco Malipiero,
Bartolo delle bilance, Pietro Casotti. Anche genovesi, fiorentini, ragusei,
albanesi ebbero a Lecce delle vere e proprie colonie, con i loro Consoli
e i loro tribunali.
Dopo la Contea, Lecce cesserà di essere di nome e di fatto. Perderà
la fisionomia di città autonoma. Con la dominazione di Carlo
V fu cinta da mura, con un arco di trionfo nei pressi dell'attuale Porta
Napoli, in onore dell'imperatore.
Tra le cinta della città si aprono Porta Rudiae e Porta S. Biagio.
Intorno all'antico Maschio normanno fu innalzato un massiccio castello
quadrilatero con quattro bastioni, fossato in giro e ponte levatoio.
Queste ultime strutture sono oggi scomparse. Attualmente i castello
è sede di manifestazioni culturali e di esposizioni d'arte; vale
la pena visitarlo. la Sovrintendenza delle Belle Arti e dei Beni cultura
i di Puglia, che ha promosso e portato a termine il restauro degli interni,
rispettando lo stile, ha ceduto il maniero in proprietà al Comune
di Lecce.
Il barocco
Comprende l'oggetto primario di questa indagine. Occorre premettere
che tutto quanto è caratteristico dell'architettura leccese
risulta dall'armonica fusione di tre grandi fonti:
1) il nuovo spirito del Rinascimento penetrato largamente in questa
vetusto città;
2) i ricordi del Medioevo, che aleggiavano attorno alle sue Porte;
3) la lunga dominazione aragonese.
Pertanto, l'evoluzione del barocco leccese sì compendia in
tre grandi periodi:
- il periodo "classico" ha inizio nel 1549 e si protrae
sino al 1640 (chiesa dei Teatini) e chiesa di S. Croce (1549-1695).
- Il II° periodo, compreso in tutto il sec. XVII, raggiunse la
sua massima evoluzione nella chiesa di S. Chiara, nella chiesa del
Rosario e nella Cattedrale.
- Il III° periodo - quello del "declino" - si svolse
nel 1700 ed in questo ebbe termine (Palazzo Carafa, 1764-1771), edificato
dal vescovo Carafa quale residenza prelatizia, oggi sede dei Municipio.
Questo splendido monumento, con la facciata principale patinata dal
tempo di un colore giallo-dorato, caratteristico della pietra leccese,
manifesta sintomi dei "rococò". Si nota - pertanto
- alla sommità di ogni finestra dei prospetto la conchiglia
degli ultimi decenni del sec. XVIII.
Primo e secondo
periodo
In quest'arco di tempo i nostri architetti o "magistri",
pur adottando il nuovo stile importato dagli spagnoli dominanti nel
Regno di Napoli, non tralasciarono d'ispirarsi ad alcune opere del
Medioevo, o del Rinascimento che, allora, s'ammirarono a Lecce, a
Nardò, a Galatina, a Soleto, a Otranto. E, da questi, trassero
i motivi architettonici e decorativi che applicarono nelle loro costruzioni.
C'è quindi uno sposalizio tra le decorazioni di stile barocco
ed alcuni motivi dei secoli precedenti.
Il barocco, a Lecce, nell'esuberanza delle sue forme e del suo stile,
rappresenta una specie di reazione contro lo stile semplice e puro
del tardo Medioevo. Il barocco leccese e quello degli altri monumenti
ecclesiastici e dei palazzi patrizi dei Salento hanno dei caratteri
che li distinguono dal barocco di Napoli, di Roma e di altre città
italiane. A Roma e a Napoli il barocco è scolpito su marmi,
molto spesso policromi, o su travertino. Il barocco "nostrano"
ha una fisionomia tutta propria. Ha motivi di decorazioni che nessun
architetto si vergognerebbe di studiare e di adottare. Si armonizza
con la luminosità di questo cielo salentino terso, azzurrissimo,
con i suoi ulivi dalle foglie verde-argenteo.
Lecce non ha strade. Il centro storico ha tante piazzette, quasi tanti
e tanti salotti curvi, sinuosi o in quadri con tanti frontoni laterali,
intarsiati da un barocco stupefacente che inchioda il turista con
lo sguardo fisso su quei pizzi merlettati incisi sulla "pietra
leccese".
Le chiese, i palazzi, le piazzette segnano una pagina unica della
storia dell'arte di questa Lecce, chiamata la Firenze del barocco,
l'Atene della Puglia.
Santa Croce
Lecce ha l'aspetto severo di una città medioevale, ma è
tutta una profusione di monumenti eccelsi nella cui visione l'animo
si riposa e gode.
L'intera città vecchia è una folla di sculture, abbellimenti
s'intrecciano intorno ai balconi dei palazzi, pilastri e frontoni
sorgono uno al cospetto dell'altro. Le chiese mostrano facciate fantasticamente
ornate con figure e cariatidi. Le statue in pietra leccese le coronano
e le fiancheggiano.
Riferiamoci, prima di tutto, a Santa Croce, dove la fantasia ornamentale
diventa delirio: è una vera orgia, che in qualsiasi altro luogo
sarebbe di cattivo gusto, ma qui si rileva in una furia di capriccio
troppo gaio per potersi giudicare tale. In quel frontone splende una
luce orientale; c'è nell'assieme della facciata armonia e freschezza
delle Ombre; la genialità della luce si combina così
felicemente intorno a questa architettura paradossale da farne una
sinfonia melodiosa e cara. L'occhio rimane abbagliato, la mente si
compiace quasi del fascino di questo manierismo in pietra, simile
a un merletto in mezzo alla città. Nel 1906 Papa Pio X, motu
proprio, conferì a Santa Croce l'onorificenza di "Basilica
minore". Nella solennità della Pasqua, le epistole e il
vangelo vengono annunciati nelle quattro lingue occidentali. Il rito
ha inizio alle 11 antimeridiane ed è seguito anche da moltissimi
turisti italiani e stranieri. la Basilica è detta dei Celestini
infatti, sopra il frontone e sotto la cuspide della facciata, vi è
una larga fascia arabescata, accartocciata, dispiegata da graziosi
amorini con lettere di media grandezza. L'iscrizione ricorda l'Abate
dei Celestini, don Matteo Napoletano, che costruì l'annesso
monastero e completò il prospetto della chiesa. Attualmente
il monastero adiacente è sede della Prefettura e degli uffici
dell'Amministrazione Provinciale.
Sulla facciata - in alto - si vedono a destra la statua di San Benedetto
da Norcia, a sinistra è allogata la statua di S. Celestino
V, il pontefice che fece il "gran rifiuto": lasciò
la Cattedra di Pietro e si ritirò, eremita, sui monti della
Ciociaria.
Appena al di sopra delle due statue, a destra e a sinistra, se ne
ammirano altre due: rappresentano la fede e la fortezza.
Abbiamo osservato da vicino il simulacro della Fortezza e, a nostro
avviso, trattasi dell'immagine dell'Umiltà. E' un pezzo particolarmente
interessante sia per l'accurata fattura, sia per il significato allegorico.
S'intravede una donna di bello e gentile aspetto, dal viso dolcissimo,
che guarda il piedistallo su cui è adagiata. Alla base sono
scolpiti i simboli dei "potenti": la tiara dei pontefici,
la mitra dei vescovi e di altri prelati e lo "scettro de' regnator",
con a lato accovacciato un leone, mansueto, quasi sconfitto nella
sua baldanza. Questi dettagli si osservano in sito, a distanza ravvicinata.
Da via Umberto I è difficile vederli, a meno che non si acceda
a una terrazza del palazzo di fronte la Basilica, provvisti di un
binocolo. Si potrebbero gustare accurate miniature, come lamine fogliari
di alloro, di querce; frastagliate foglie di acanto che tappezzano
la superficie prospettica; visini di angioletti, ironici mascheroni,
nature morte come fiorellini di rosacee, di ombrellifere, di liliacee,
strobili di conifere, frutti, pomi, bacche, baccelli.
A complemento di tanti peculiari attributi del barocco leccese, ci
piace riportare quanto scrisse nel 1980 Ernesto Alvino nel suo elzeviro
"Lecce, città inconsueta" per il nostro Ente provinciale
del Turismo allorquando tratta della Basilica di Santa Croce: "E'
la pietra, insomma, che ha permesso e suggerito un'opera collettiva,
senza firma, dovuta a una moltitudine che per un secolo e mezzo si
è "passata la mano" di generazione in generazione,
tutta infervorita in un lavoro di ricamo, a volte d'uncinetto. E tale
succedersi di tempo, meglio si vede e si osserva che l'ordine inferiore
della costruzione, partendo dal terzo decennio del '500, si snoda
come in un esordio di pacatezza classica; pochissimo adorno, solo
indulgendo alla finezza lineare degli intagli. Invece, mano mano che
la costruzione sale e il tempo passa e la realtà estetica muta,
è il '600 che prende il sopravvento accendendosi fino a sommergere
di figurazioni ogni spazio libero. Cornici, trabeazioni, zoccoli,
cimase, piedistalli, stemmi, statue, colonne, intercolunni, architravi,
rosoni, sono come elementi in ebrezza, ma tuttavia in equilibrio come
un cosmo del figurativo; mentre le cariatidi in sembianze umane o
animali che reggono la sontuosa balaustra pare che stiano lì
come a testimoniare la presenza dell'uomo, chiamato a reggere il peso
della chiesa e quei piccoli angeli che ridono punteggiando il davanzale
del grande balcone sono immaginati non solo ad illeggiadrirlo, ma
ad alleggerirlo".
I "magistri" architetti che progettarono la costruzione
della Basilica (1549-1695) furono Giuseppe Zimbalo, il migliore, Gabriele
Ricciardi e Cesare Penna senior.
A sinistra di chi guarda, accostato al gran rosone centrale, è
scolpito il profilo di Giuseppe Zimbalo, dal naso aquilino-gibboso,
caratteristica somatica degli antichi coloni della Grecìa salentina.
A destra, verso la sommità, spicca la testina di Gabriele Ricciardi.
Manca l'immagine di Cesare Penna, probabilmente... per mancanza d'un
interstizio in sì vasta superficie prospettica.
Sull'ordine inferiore del frontespizio si vedono leoni, grifi, figure
umane, vasi, spirali di fogliame, frutta, puttini che svolgono l'iscrizione
dedicatoria della chiesa in largo nastro.
Il piano inferiore è diviso in cinque zone da colonne e capitelli
corinzi figurati. Nel piano mediano si apre Il portale maggiore, rettangolare,
munito di tabernacolo con colonne corinzie. Nei contigui interspazi,
le due porte minori architravate hanno bombe e scudetti di capricciosa
cartella che si solleva dall'inquadratura.
Sulle porte ci sono rosoncini con corona scolpita a profondo squarcio;
una balaustra si estende orizzontalmente a dividere l'intera larghezza
i due ordini prospettici; la balaustra è sorretta da cariatidi
umane, grifi e altre bestie in vigorosa modellatura.
Nello scorso mese di marzo finalmente la facciata della Basilica è
stata restituita al godimento dei leccesi e dei turisti.
Sin dagli inizi degli anni '80 il monumento è stato sofferente
per restauro conservativo, auspice la direzione della Sovrintendenza
al Beni Culturali e Artistici di Puglia. la facciata, interamente
ricoperta da reticolo di nailon e da robuste impalcature in acciaio
e tavolame, grazie a Dio, si presenta come nella primitiva bellezza.
Ma sembra che diversi leccesi - così gelosi di questo gioiello
- non siano rimasti soddisfatti del lavoro svolto in tanti anni. I
turisti italiani e stranieri, per il tempo in cui la Basilica è
rimasta nascosta, sono tornati nei loro paesi con la bocca amara per
non aver avuto la gioia di ammirare, fotografare, filmare tanto tesoro.
Il metodo migliore da seguire per il consolidamento delle strutture
e altri problemi tecnici quasi impossibili da risolvere hanno comportato
tempi lunghi. Gli esperti si sono trovati innanzi a difficoltà
di un certo rilievo e per la strada migliore da imboccare e per la
scelta dei materiali. Si sono svolte prove di laboratorio, a Bari
e a Roma e ricerche in loco. A tanto difficile compito si è
aggiunto quello dei finanziamenti da parte dello Stato.
Chi scrive queste note ha seguito passo passo le attese, le speranze
e le vicende che hanno accompagnato il restauro della Basilica. Come
di consueto, i soldi dal Ministero dei Beni Culturali sono arrivati
con il contagocce: all'inizio sono stati stanziati 500 milioni; a
fine luglio 1985, sono stati assegnati altri 500 milioni; nell'86,
altri 700; nell'87 Roma si è fatta viva con la penultima tranche
di 750 milioni, ed infine, nell'89, un miliardo.
Con questi soldini la pietra leccese è stata spazzolata nelle
zone più deteriorate, lavoro che ha comportato anche delle
perplessità, specialmente sulle superfici più rovinate.
Poi, è seguito il lavaggio con soluzioni detergenti a Ph leggermente
alcalino, allo scopo di non ledere la tessitura della roccia ed evitare
lo sfaldamento del calcare.
Successivamente sono state consolidate tutte le superfici della parte
alta del prospetto con fili di acciaio inox e con bastoncini di acciaio
conficcati nella pietra e resi inamovibili da collanti ad alta tenacità
e coesione. Questi tendini sono stati sincronicamente saldati da tubuli
di due millimetri di diametro disposti trasversalmente onde formare
una trama e un ordito a tessitura reticoliforme, possibilmente compatibile
con gli spazi da salvare. Senza inficiare le superfici prospettiche,
successivamente patinate con resine sintetiche incolori ed a consistenza
lapidea. Dall'inizio e di seguito i lavori sono stati affidati a un'équipe
di sette donne e tre uomini, specialisti dell'Ist. centrale del Restauro
di Roma, che lavoravano a turni discontinui, nel senso che erano presenti
a Lecce per una quindicina di giorni e si assentavano per mesi perché
impegnati a Firenze, o a Pisa, o altrove. Soltanto nel 1987 hanno
lavorato da maggio a fine giugno, ininterrottamente. Fermi del tutto
nella stagione estiva per sole battente e per la temperatura che oscillava
intorno ai 32°- 35°. Per questi motivi il restauro ha comportato
tempi lunghi e snervanti attese da parte delle autorità locali
e della cittadinanza.
Per compiti d'ordinaria manovalanza si è dato lavoro a diversi
giovani leccesi a contratto trimestrale.
Con la direzione della Sig.ra Gisella Capponi, architetto d'eccezionale
competenza, giù funzionario della Sovrintendenza alle Antichità
e ai Beni Culturali di Bari, successivamente trasferita nel ruoli
dell'Istituto Centrale del Restauro di Roma, i lavori sono andati
avanti secondo quanto stabilito dal piano di studi.
Le sette donne e i tre uomini - come api operaie - hanno lavorato
da mane a sera, a contatto di gomito, per ricomporre centimetro per
centimetro l'armonia delle sculture e l'inconfondibile colore della
pietra leccese.
La parte superiore, sovrastante la balconata - a metà prospetto
- avrebbe dovuto essere scoperta al godimento del pubblico giù
dal 1988, ma per ragioni tecniche sono stati tolti i teloni e le Impalcature
soltanto a marzo di quest'anno.
Sono continuati gli altri restauri alla parte sottostante della Basilica
a fasce ridotte (con impalcature d'ampiezza più piccola), ma
più degradata dalla corrosione.
A tal proprosito la Gazzetta del Mezzogiorno del 9 novembre 1985 informava
i leccesi di una denuncia dei Presidente della Sezione Pugliese della
Soc. di Storia patria, Prof. Francesco De Robertis, che incaricava
il Sostituto Procuratore della Repubblica, dott. Elio Romano, di accertare
se il materiale chimico usato per il restauro della facciata fosse
dannoso per la conservazione dell'antica pietra leccese. Ciononostante,
i lavori proseguirono perché come ebbe a confermare il dott.
Mola, Sovrintendente ai monumenti di Puglia, "i restauri non
potevano essere messi in discussione".
E' fuori dubbio - ribadiva il dott. Mola - che il processo di consolidamento
della pietra leccese ha la garanzia dell'Istituto centrale del Restauro
di Roma e, quindi, la garanzia è assolutamente fuori discussione.
Trattasi di una garanzia inattaccabile!
E' altresì interessante segnalare da queste pagine i risultati
sperimentali, costati ben 11 miliardi, ottenuti dall'Istituto Nazionale
delle Ricerche. A fine settembre 1986, sono state rese pubbliche le
conclusioni e le applicazioni pratiche su ampi restauri di edifici
in degrado fatte dal presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche,
Prof. Luigi Rossi-Bernardi. Si ètrattato di una ricerca, anzi
di una sperimentazione di rilevante spessore scientifico e di notevole
utilità.
Per cui, allo stato, le superfici dei monumenti storici e artistici
- dopo attenti, seri e necessari restauri - saranno rivestiti da una
lamina di vetro di pochi micron, aderente, sì ai piani restaurati,
ma provviste di ridottissima intercapedine atta a salvaguardare i
pregi artistici da possibili sviluppi di micofite, di saprofiti e
dall'azione patogena di bacteryum e bacillus; questi ultimi protozoi
dannosissimi, In quanto per il loro metabolismo biochimico secernono
ed espellono composti organici a base di carbonio metalloidico, bivalente,
che - sostanzialmente - è il principale artefice, il vero imputato
della rovina dei monumenti.
L'intercapedine tra la pietra parietale e il sottilissimo strato vitreo
assicura in modo adeguato la ventilazione e inibisce il ristagno di
vapor d'acqua; ostacola, altresì, la formazione del substrato,
quasi sempre di natura organica, di cui I suindicati microorganismi
si avvalgono per riprodursi, per svilupparsi e per secernere il carbonio,
responsabile di tanti guai. il tutto, grazie alla molteplice azione
catalizzatrice di numerosi enzimi.
Proprio conoscendo abbastanza l'azione perniciosa dei carbonio che
si sprigiona nell'atmosfera, sottoprodotto inutile di molte industrie,
lo scrivente, insieme con altri studiosi e amanti dell'Arte, ha ripetutamente
lanciato un allarme alla nostra classe politica onde, con la più
urgente determinazione, si evitasse la grave iattura al nostro barocco,
alla nostra agricoltura, alla nostra salute, bocciando la costruzione
della mega-centrale elettrica alimentata a carbon fossile di Cerano,
che procurerà all'ecosistema del Salento danni rilevantissimi
e irreparabili per le enormi produzioni di composti organici e inorganici
gassosi che inquineranno l'atmosfera.
L'anidride solforosa e l'anidride nitrosa, che gli ambientalisti,
impropriamente, chiamano biossido di zolfo e perossido d'azoto, saranno
il cancro dei nostri vigneti, dei nostri oliveti, dei nostri fertili
campi coltivati. Questi composti, reagendo con il vapor d'acqua dell'aria,
in seguito anche alle precipitazioni, daranno luogo a piogge acide
con effetto di sfaldamento, di sbriciolamento, di polverizzazione
del carbonato di calcio, componente primario della pietra leccese.
Così come stanno le cose, non ci saranno ripari. Si veda quello
che è successo al marmi del prospetto della Cattedrale gotica
di Colonia, in Germania.
Particolari
storici e artistici di Santa Croce
L'interno è a croce latina, a tre navate. Quella centrale è
circoscritta da 12 colonne, oltre alle dieci che delimitano il presbiterio.
Di tutte le 22, una sola è monolitica, precisamente quella
allogata al secondo posto, a destra entrando.
Le colonne sono di calcare conglomerato brecciato, riveniente dalle
cave del vicino Comune di Campi Salentina.
I capitelli corinzi, scolpiti in pietra leccese, sono a foggia, uno
diverso dall'altro. In ciascun capitello corinzio è in bella
mostra incastonata una delle testine dei dodici Apostoli, mentre su
quattro delle colonne del presbiterio sono raffigurati i quattro Evangelisti.
Sui capitelli aleggiano putti e angioletti tra fogliame di acanto.
Colonne e capitelli a superficie leggermente levigata presentano color
latteo, tendente al roseo. Alcuni mostrano Incisa a sbalzo la sigla
dell'artefice, dello scalpellino, a volta poco visibile dal basso.
Ornano la navata centrale, fra una colonna e l'altra, 14 candelieri
in ferro battuto, a 12 lampade, laccati da uno strato azzurro-malachite.
Furono acquistati dal Maestro Antonio d'Andrea, capo-scuola del ferro
battuto e del rame a sbalzo. Nella sua bottega impararono l'arte numerosi
allievi Che, ancora oggi, operano in tutto il mondo. Uno di questi,
Giuseppe Zilli di S. Cesario di Lecce, operò a Lizzanello dal
1954 al 1960, sino a quando nel gennaio del 1961 emigrò In
Inghilterra ove - con il suo estro e con il suo intelligente lavoro
- onora il suo maestro e il suo Salento.
Nell'accennare l'argomento del ferro battuto, artigianato tipico di
questo estremo lembo d'Italia, ci piace ricordare il prof. d'Andrea,
scomparso nel pieno della sua attività il 10 ottobre del 1955,
con Il profilo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno nel decennale
della sua morte: "Con la sua esile e nervosa figura, la faccia
scavato cui davano un piglio vivace gli occhi pungenti e il romantico
pizzetto, ci lasciava un'eredità che, ancor oggi, non ha finito
di dar lustro a Lecce.
I ferri battuti di d'Andrea stanno a significare il senso di un artigianato
elevato a dignità d'arte con un gusto e una finezza nativi
ed insieme sorretti e corroborati da una cultura solida e aperta,
non limitata al solo ambito figurativo. Egli ebbe l'intuito di cogliere
il segreto del barocco leccese, trasferendolo dalla tenera e fragile
pietra delle nostre cave al metallo: nella grazia stilizzata del suoi
ferri-malachite, delle lampade, delle grate, delle specchiere, degli
sbalzi, traduceva con una fantasia trasfiguratrice la ricchissima
e incredibile vegetazione della facciata di Santa Croce, del palazzo
del Seminario e di tanti mille angoli della Lecce barocca, che non
finiscono di sbalordire con le sue meraviglie il turista che ancora
oggi visita questa città piena di grazia e di colore. Sotto
le sue mani il metallo perdeva la marziale durezza, sembrava naturalmente
trasformarsi in aerei steli e rami e volute, sui quali leggiadri si
posavano uccellini pronti a spiccare il volo.
Riviveva con Antonio d'Andrea l'incanto raffinato e prezioso del rococò,
che aveva disegnato le sue orme fascinose sulle dorate pietre della
nostra città. Sicuramente, l'Artista - o meglio - l'Artefice
è l'aspetto più cospicuo della personalità di
Antonio d'Andrea, ma non l'unico.
Per molti anni la sua fumosa e rumorosa officina fu il ritrovo naturale
della parte più viva e aperta della cultura leccese. Durante
gli anni del dopoguerra, dal 1945, nell'angusto studio annesso, ingombro
di "pezzi" già terminati, di rotoli di disegni, di
libri, di quadri, di fiori, si davano convegno fanti' amici ed estimatori
della cultura leccese, della cultura nazionale e internazionale".
Nelle navate laterali della Basilica di S. Croce sono sistemati altari
barocchi impreziositi lateralmente da colonne tortili con intarsi
floreali e lamine fogliari. Di questi altari minori, alcuni sono rivenienti
da chiese sconsacrate o distrutte, altri da edicole che nel nostro
Sud s'incontrano lungo le strade.
Ogni altare è provvisto di quadri - olio su tela di pittori
salentini, quali Oronzo Tiso, Gianbattista lama, Gianserio Strafella.
A sinistra dell'abside c'è l'altare di S. Francesco da Paola,
costruito nel 1614-1615 dalla munificenza del patrizio leccese barone
Cicala. Si tratta di un capolavoro merlettato d'eccezionale bellezza.
Le 12 formelle, sei per ogni lato dell'altare, ricordano la vita e
i miracoli del Santo. Sono scolpite da Francesco Antonio Zimbalo.
Ogni formella in un sol masso esaedro è incastonata nella parete.
E' in pietra bianchissima.
I dodici candelieri - in bronzo dorato - che arricchiscono l'altare
di S. Francesco da Paola sono d'ignoto del '700 napoletano.
A destra dell'abside si trova l'altare che custodisce il S.S. Sacramento.
Anche qui s'ammira barocco raffinato nelle colonne tortili.
Il colore della pietra tende al marrone, appena appena dorato; è
- certamente - diverso da quello bianchissimo di S. Francesco da Paola.
Probabilmente quest'altare ha una costituzione chimica più
ricca di sali ferrosi - monovalenti. L'altare è provvisto di
una tela del XVI sec. Rappresenta la Trinità. Olio su legno,
è certamente un pezzo di notevole pregio di Gianserio Strafella
da Copertino.
A entrambi gli altari, a destra e a sinistra dell'abside di S. Croce,
nei pressi del primo gradino, sono collocate lampade di ferro battuto
di allievi della scuola del Maestro Antonio d'Andrea. Le lampade dell'altare
del Santissimo Sacramento sono dipinte di colore caratteristico azzurrite-malachite.
I lavori in ferro battuto, con il trascorrere del tempo, se trascurati,
si ossidano e si ricoprono d'una leggera crosta di ruggine.
Ritorniamo a dare uno sguardo all'interno della Basilica di S. Croce.
L'abside, amplissima, a molti lobi, con volta a costole, ha sullo
sfondo sei manofore, delle quali tre in basso e le altre tre alla
sommità, con grate in ferro battuto a merletto. Al pari delle
basiliche paleocristiane, l'abside è a Oriente.
L'altare policromo (della stessa fattura dei numerosissimi altari
settecenteschi delle chiese e dei tempietti patrizi di Napoli) è
riveniente dalla chiesa di S. Nicolò e Cataldo, descritta all'inizio
d'i questa ricerca. L'altare, quello che adornava l'abside sin dalla
consacrazione di Santa Croce, fu traslato e allogato a sinistra del
presbiterio della Cattedrale di Lecce e dedicato alla Immacolata Concezione,
auspice il vescovo Pappacoda, illustre mecenate della Diocesi. Si
ricordano tra queste righe il corredo in argento filigranato delle
palme e dei candelieri che adornano il maggiore altare nel periodo
delle feste patronali (15 agosto - 30 agosto) e la superba balaustra
in marmi policromi che delimita un segmento che parte dall'altare
dell'immacolata, lambisce il presbiterio e s'inoltra sino all'altare
del S. Patrono Oronzo, martire e primo vescovo della città.
L'altare della Madonna Immacolata, di inestimabile valore storico
e artistico, policromo per inclusioni di agate, lapislazzuli, malachite,
èincrostato da bronzi dorati certamente degli albori del '600.
La statua della Vergine, di legno policromo della fine del sec. XVII,
è dello scultore partenopeo Nicola Fumo. E' molto bella.
Alla sommità, non si può fare a meno di godere in un
ovale il quadro - olio su tela - del sacerdote Oronzo Tiso, che, canonico
della Cattedrale, onorò con i suoi capolavori il Salento, affidando
i suoi dipinti d'arte sacro a molte chiese della provincia di Terra
d'Otranto.
La Basilica, per 70 anni, regnanti Ferdinando IV, Francesco I e Ferdinando
Il di Borbone, rimase chiusa al culto e destinata a magazzino di derrate
dell'esercito delle Due Sicilie. Dopo quel periodo buio, fu riaperta.
Nel 1953 fu nuovamente chiusa per sottoporla a straordinari audaci
restauri, ultimati nel 1956 in vista dell'apertura dei 15° Congresso
Eucaristico Nazionale, indetto dalla S. Sede e organizzato dall'indomito
Vescovo Mons. Francesco Minerva.
In quella occasione, Francesco Minerva sempre attento e instancabile
protagonista dello sviluppo della sua Diocesi - fece costruire un
ostensorio in oro e argento cesellato, di straordinaria fattura, da
argentieri napoletani. L'ostensorio si conserva nel tesoro della Cattedrale,
ove sono custoditi pezzi d'incommensurabile valore storico e artistico
che poche Diocesi possiedono.
Palazzo dei
Celestini
Si tratta di una costruzione a due piani che si allinea al prospetto
della Basilica di S. Croce. I disegni dell'intero complesso sono di
Giuseppe Zimbalo. La fascia inferiore, probabilmente, lavorata sotto
la direzione dello stesso architetto-disegnatore. La seconda ècertamente
dell'allievo Giuseppe Cino.
La ricca decorazione delle finestre e delle piccole logge e l'intera
facciata, dorata dal tempo, sono di una bellezza senza misura!
Il disegno è fastoso, solenne, bello come una tovaglia tessuta
al tombolo; è tanto bella da frastornare! L'occhio del turista
ne rimane estasiato.
Il monastero dei Celestini, quasi dello stesso stile del palazzo del
Seminario (sito nel "cortile" della Cattedrale, oggi piazza
Duomo o meglio "Città mariana"), fu sede principesca
dei frati che ne fecero un agone di studi storici, teologici e filosofici.
Dotato di vasti ambienti affrescati (molti capolavori a fresco sono
oggi scomparsi), ha un chiostro (progettista il Riccardi), circoscritto
da 64 archi sostenuti da colonne con capitelli figurati, alcuni dei
quali siglati da monogrammi da ciascuno degli scalpellini che lavorarono
in questo complesso settecentesco.
I monaci furono anche i proprietari - coltivatori di un ampio giardino,
a levante del monastero. Attualmente il giardino - di proprietà
dei Comune - è Villa comunale e luogo di delizia e di riposo
dei leccesi. Ha un'estensione di 34.200 metri quadrati. Ben curato
nel suo aspetto naturalistico potrebbe come tale considerarsi un "Orto
botanico" in miniatura), è ricco di specie interessanti,
come le Gimnosperme e Angiosperme, che segnaliamo -seguendo una "sistematica"
dallo scrivente rilevata da sicure caratteristiche botaniche - per
la comodità degli iscritti alla nostra facoltà di Scienze
biologiche. Si tratta di piante utili, interessanti per approfondimenti
teorici e pratici di fitologia, fitobiologia, fitopatologia ed entomologia.
Sono in rigoglio vegetativo i generi e le specie delle seguenti Cormofite:
Pinus silvestris, Pinus cembra, Pinus strobus, Pinus maritima, Pinus
nigra, Pinus halepensis, Araucaria brasiliensis, Cupressus sempervirens,
Juniperus virginiana, Thuya occidentalis, Abies pectinata, Abies argentea,
Cedrus Libani, Cedrus Deodara, Cedrus Atlantica, Ampelopsis quinquefolia,
Ampelocissus repens, Platanus orientalis, Magnolia grandiflora, Ilex
agrifolium, Alnus glutinosa, Acer pseudo-platanus, Acer campestre,
Quercus ilex (Leccio), Quercus cerris, Quercus pedunculata, Prunus
Laurocerasus, Buxus sempervirens, Evonimus japonicus, Ligustrum ovalifolium,
Ligustrum vulgare, Ligustrum japonicus, Eucaljptus globosus, Eucaljptus
glabra, Laurus nobilis, Acacia Farnesiana, Acacia sphaerocephala,
Albrizzia odoratissima, Quassia amara, Salix repens, Salix babilonica,
Populus nigra, Ilex acquifolium, Populus canadensis, Thilja platyphjlla;
Thilia argentea, Cityus Laburnum, Ulmus campestris, Morus alba, Cercis
siliquastrum, Robinia pseudo-acacia, Paulownia imperiali, Siringa
vulgaris, Fraxinus excelsior, Fraxinus ornus, Agave americana, Iris
germanica, Iris fiorentina, Iris alba, Citrus Bigaradia, Begonia discolor,
Begonia Rex, Begonia vitifolia, Crataegus oxyacantha, Passiflora coerulea,
Capperis spinosa, Yucca aloefolia, Yucca minor, Ficus elastica, Ficus
nana, Nerium oleander, Phoenix dactyliphera, Chamaerops humilis, Waschingtonia
filifera, Tackycarpus excelsus, Rosmarinus officinalis, Lonicera implexa
(Caprifoglio), Nynphaea alba, Salvinia matans, Cyperus papirus, Schinus
molle (pepe selvatico), Sophora japonica, Taxus baccata, Azalea indica,
Musa paradisiaca (banano), Bambusa gracilis (bambù), Aloe.
Oltre a molte specie di Rosacee, Composite, Asteracee, ed alcune varietà
di Bougainvillee, di Ibiscus e siepi di Phyttosporus, di Buxus e di
Thuje.
Terre di mare
La "penisola",
con circa 215 chilometri di spiagge, comprende le province di Lecce,
Brindisi e Taranto, ma i posti più incantevoli, le marine più
affascinanti, incontaminate, si trovano nella provincia di Lecce:
da Torre Chianca, S. Foca Torre Dell'Orso, Torre S. Andrea, Alimini,
Otranto, Santo Moria di Leuca sino a Porto Cesareo, sullo Ionio.
La costa si prolunga per chilometri in morbide, luminose falcature,
in un tripudio di colori che costituiscono la particolare caratteristica
di questo lembo di Puglia. Qui il regno dell'ulivo, che signoreggia
maestoso e gigantesco, con tronchi possenti, con chiome folte dal
fogliame d'argento. Dove terminano gli ulivi, trionfano fitte spalliere
di fico d'India o capricciosi ciuffi di agave, che levano alti nel
sole iperbolici grappoli fiorali. E dappertutto la splendida manifestazione
delle spontanee fiorite di taraxum, di ginestre, di eriche, di ruta
graveolens. Tra terra e mare, morbide spiagge solitarie e scogli antichi.
Le pareti di roccia rompono qua e la guglie e pinnacoli, assumendo
una colorazione varia e intensa che dal bianco abbagliante sfuma nell'ocra.
Nella roccia spiccano mazzettini spontanei di graminacee, di crocifere,
di composite e astoracee.
Al tramonto gli scogli fiammeggiano: è il ripetersi del noto
fenomeno dolomitico che - qui - diviene apoteosi, perché il
mare vi partecipa tingendosi di morbidi riflessi guizzanti sul blu
delle acque, che diviene sempre più denso e profondo con il
calar del sole.
Le gazze ladre, i caratteristici uccelli neri, moculati di bianco,
abitatori di queste rupi, svolazzano intorno agli anfratti... si scambiano
gli ultimi richiami in attesa delle ombre della sera.
Qui lo sguardo spazio incantato e coglie - in fantastica carrellata
- gli innumerevoli aspetti e le infinite sfumature di un panorama
da sogno!
Il lento ondulato degradare delle "serre" - ultime propaggini
delle Murge - verso il mare, il verde intenso della vegetazione spontanea,
le vaste spiagge di sabbia cinerea o appena bianco, le scogliere lavorate
e corrose dalla forza del mare, venate da mille e mille sfumature
di grigi, di bruni, di rosa e di viola danno vita ad una perenne fantasmagoria
di ombre, di luci e di colori.
Spesso s'incontrano giganteschi baluardi di roccia che si protendono
nel vuoto come enormi cetacei. li mare d'un azzurro-zaffiro intensissimo,
il fondale è profondo. L'acqua incontaminata lascia intravvedere
il fondo ricco di flora bizzarra e multicolore, mormora perennemente,
penetrando negli anfratti, e riflette sugli scogli e sulle pareti
di roccia un interrotto e meraviglioso gioco di luci.
L'aria stessa, con quel gusto salmastro portato dalla brezza, richiama
un naturale gemellaggio con l'acqua del mare.
Scolpito nella
pietra
Le sculture barocche
che a profusione si ammirano a Lecce sono incise su due tipi di rocce
calcaree. Ottima è quella che si estrae dalle cave di Cursi,
un paesetto nel Basso Salento, dove sono alloggiati giacimenti dai
quali si estrae da secoli la "pietra leccese"; appena tagliata
si presenta tenera, umida, tale da potersi modellare con poca fatica.
Scolpita e posta in opera, con il trascorrere del tempo si consolida.
Il carbonato di calcio e i sali magnesiaci e potassici che ne costituiscono
la struttura chimica fitologica, a contatto con l'anidride carbonica
dell'atmosfera, si trasformano in masso tenace compatto, impossibile
a sfaldarsi. Non le piogge scroscianti rapide-temporalesche, ma quelle
sottili, persistenti, rappresentano il nemico implacabile della pietra
leccese, specialmente se la pietra presento un alto tasso di soli
di magnesio.
Gli edifici e i monumenti, a secondo del loro orientamento rispetto
al sole e ai venti - nel corso dei secoli - si coprono d'un sottile
strato, quasi un'epidermide giallo-oro; questa patina, simile all'epicarpo
di una prugno, rende più belli palazzi, chiese, monumenti.
La pietra leccese, priva di coesione e, quindi, ricca di sali di magnesio,
è vittima di un processo di corrosione da parte del venti salsedinosi
che la insidiano e dallo Ionio e dall'Adriatico. Per tal motivo, di
frequente si vedono strutture barocche, specie all'altezza del piano
inferiore degli edifici, deteriorate, sfigurate. Contro questo malanno
non esiste rimedio. L'altro tipo di pietra impiegato per le sculture
barocche è il "mazzaro", roccia, calcarea migliore
della "pietra leccese" perché compatto, resistentissima
all'azione eolica.
Oggi, purtroppo, questi capolavori non si costruiscono per mancanza
di maestranze. In tutto il Salento scalpellini di alto rango che hanno
bottega d'arte si contano sulle dita di una mano, per cui i restauri
si rendono difficili e, una volta commissionati, richiedono lunghissimi
tempi per portarli a termine. Basti pensare che nel '600, per modellare,
scolpire e rifinire un capitello corinzio della mole di uno di quelli
dell'apice delle colonne della Basilica di S. Croce occorrevano 100-150
giornate lavorative di uno solo operaio alle dipendenze di un architetto.
Ogni scalpellino aveva l'incarico di lavorare un pezzo. Si può
dedurre che per tanto barocco - oggi patrimonio di tutti - a quei
tempi esistevano migliaia di addetti ai lavori, remunerati con salari
irrisori, talvolta pagati con uno scodella di legumi o con un sacchetto
di farina di frumento.
Le antiche botteghe oggi sono scomparse, per mancanza di maestri e
di discepoli-apprendisti, nonostante gli incentivi propinati -a piene
mani - dalla legge sull'occupazione giovanile e gli aiuti disposti
per le piccole imprese artigiane.
Con una stretta al cuore si ricorda quando nel 1979 il Comune di Lecce
si accinse ci restaurare il leone di S. Marco adagiato sulla lunetta
del portale del tempietto rinascimentale, in Piazza S. Oronzo. Lo
stemma della Serenissima presentava il leone con il muso stroncato
e l'aureola mancante, a causa della corrosione degli agenti atmosferici
o - forse - per otto di teppismo. A restauro ultimato ne venne fuori
un pasticcio di cattivo gusto, per incompetenza di chi ebbe sì
delicato incarico e... per disinteresse degli Amministratori comunali
di quegli anni.
|